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Alle radici del populismo, le nuove teorie politiche e la fine della democrazia

Antonio Preiti 25/01/2019
Il secondo “memo” sul populismo si è chiuso con la promessa di una “guida per riconoscere i propri santi”, che sottende l’ambiziosa domanda sul chi, dove, come partire per ricostruire un sentimento popolare più favorevole alla democrazia liberale.

Oggi la fascinazione per la cultura autoritaria, per Putin, Trump, Erdogan ha radici da esplorare, così come bisogna indagare come la cultura liberale abbia perso il “tocco magico” che per un decennio le ha permesso di dominare il mondo delle idee, oltre che i paesi del mondo, a partire dagli Stati Uniti.
E partiamo proprio da qui, dal “paese guida del mondo libero”. Che succede nel Partito Democratico, dopo che al “miglior presidente” è succeduto “il peggiore”?
E già questo è significativo, perché, per esempio, dopo Kennedy c’è stato il suo vice Johnson e dopo Reagan, Bush; cioè dopo un grande presidente ha seguito la persona più vicina. Anche per Hillary sarebbe stato così. Ma non è stato. Ha vinto l’uomo che è la negazione di tutto ciò che Obama ha rappresentato. Ci sarà un motivo?
Cosa è successo in questi anni al Partito Democratico americano? Su questo è illuminate un pamphlet del liberal Mark Lilla (L’identità non è di sinistra). Lilla sostiene che i Dem americani siano “ossessionati da tutto ciò che è marginale” e hanno smesso di avere la visione di un progetto comune che gli americani di ogni estrazione condividano.
Cosa c’è al suo posto? Il “liberalismo identitario”. Cioè le identità fondate sul proprio status personale. Dice Lilla: “hanno addestrato gli studenti a essere speleologi delle proprie identità personali e li hanno resi indifferenti al mondo di fuori, con una concezione politica basata sulle proprie idiosincrasie personali”.
È il modello Facebook, interamente fondato sull’Io, sulla mia vera identità, non sulla storia collettiva, sul bene comune. Il vincitore della disputa sarà colui che avrà invocato l’identità moralmente superiore e avrà espresso la massima indignazione.
Forse basta l’epigrafe al libro, di Ted Kennedy, a chiudere questo discorso:
“Dobbiamo capire che essere un partito che ha a cuore i lavoratori è diverso che essere un partito laburista. Essere un partito che ha a cuore le donne è diverso che essere il partito delle donne. Il nostro può e deve essere un partito che ha a cuore le minoranze, ma senza diventare il partito delle minoranze. Prima di ogni cosa, siamo cittadini.”
Non possiamo essere il partito delle minoranze, diceva Kennedy, ma se guardiamo i primi candidati alle primarie democratiche, sembra un messaggio fuori posto: Kamala Harris è afro-asiatica; Pete Buttigieg, sindaco gay; Julian Castro, figlio di messicani; Andrew Yang, di origini cinesi; Alexandria Ocasio-Cortez (non candidata, ma nuova stella del partito) di origini portoricane o la candidata a governatore del Vermont, transgender, sconfitta poi dai repubblicani.
Non che non siano persone di valore, con qualità ulteriori che non l’identità personale, ma il tratto comune sembra proprio quello identitario. È la coscienza collettiva che così sparisce, anche perché chi non appartiene a una delle minoranze (per altro talvolta in contrasto tra loro, basti pensare al femminismo delle afro-americane in doppia lotta contro i privilegi delle bianche, ma anche contro il maschilismo degli uomini afro-americani…) non si sente coinvolto.
È proprio in quanto pensarsi cittadini di un paese democratico che non si possono sopportare le discriminazioni verso le minoranze. È l’identità democratica, non quella psicologica, o etnica o sessuale che è in grado di riunire un popolo, cioè creare un sentimento popolare e condiviso. Martin Luther King non rivendicava l’identità afro-americana, ma l’uguaglianza di ogni essere umano, citava la Bibbia, la costituzione americana, cioè una condizione che riguardava tutti.
Questi nuovi santi sono riconosciuti da singoli frammenti della popolazione, ma non dall’intera popolazione. E la fascinazione populista?
Parte proprio dalla feroce contestazione del liberalismo identitario. Per capire bene bisogna trovare il coraggio di ascoltare e leggere Aleksandr Dugin, noto come l’ “ideologo di Putin”, che alla lotta al liberalismo nel suo insieme (non solo a quello identitario) e alla democrazia dedica energie, parole e azione politica.
Dugin considera il popolo come un insieme organico, senza classi, senza competenze distintive e, naturalmente, senza contrasti interni. Sostiene una visione esistenzialistica della politica. La politica serve a conservare (e sviluppare quel poco che è necessario) i valori storici e antropologici di un popolo. Sostiene che l’individuo non vale in quanto tale, ma in quanto parte del popolo. È dal popolo e nel popolo che vive e cresce la vera e autentica forza morale di un Paese, non sono le singole persone, o la razza o il genere. Si ispira ad Heidegger, alla tradizione culturale russa e nega il valore universale della democrazia. In sostanza dice che la democrazia è l’espressione storica, culturale di una parte del mondo, quella anglo-sassone, o al massimo euro-occidentale, ma non della Russia, della Cina o dell’India.
La conseguenza è l’elaborazione della sua “quarta teoria politica” fondata sul popolo in quanto fonte di ogni legittimazione. Dugin sostiene che il liberalismo è fondato sull’individuo, il comunismo sulla classe sociale, il fascismo e nazismo sullo stato-nazione, mentre la nuova politica dev’essere centrata sull’antropologia, cioè sulle concezioni più profonde e storicamente determinate di un popolo. Aggiunge che la civilizzazione russa, fondata sul popolo – con l’eccezione degli anni del soviet – non è inferiore alla civilizzazione democratica, così come quella cinese e le altre. Nega perciò una concezione prevalente del genere umano inteso come biologia, perché prevale sempre l’elemento culturale, storico, d’appartenenza al proprio popolo. “Nego ogni forma di universalismo”, sostiene Dugin, a ciascuno i suoi santi, perciò.
Dov’è il fascino esercitato da Dugin? È nel creare un senso di appartenenza, quasi mistico, che assume nella morale, anzi nella morale del popolo, formatasi contro le mille prospettive che ciascuno può dare all’esistenza propria e della collettività, l’entità superiore che supera ogni altra dimensione dell’esistenza.
Non conta più l’economia (perché moralmente insignificante); non contano le istituzioni, bardature effimere e anch’esse senza morale interna; non conta la divisione in partiti, perché siamo un unico popolo con una sola ideologia. E poi conta il leader, cioè colui che incarna il popolo, se ne fa portavoce e ne incarna, anzi ne incorpora l’esistenza. La fascinazione è nella risposta unica a tutto. Chiedi a quale popolo appartieni, e lì troverai ogni risposta. Di fronte allo spaesamento della globalizzazione e del liberismo identitario questo compatto set culturale esercita il suo fascino.
Sarebbe tutto sin troppo schematico se non mettessimo in discussione un altro punto che potremmo così sintetizzare: ma la democrazia come sta?
Guardiamo ai nostri santi prima e accanto alla contestazione degli altri. Inutile dire come l’affezione della gente verso la politica e verso il voto siano declinanti. C’è una qualità della democrazia che in questi anni si è andata impoverendo.
Se guardiamo alla nostra ultima legge elettorale, con liste bloccate, collegi enormi e pluri-candidature, ci accorgiamo che certo la manutenzione non è perfetta. Se guardiamo alla vita difficile degli enti intermedi (ricordiamo che associarsi è un fondamento della democrazia); se guardiamo alla fobia verso qualunque tipo di approfondimento di ogni tema; se guardiamo alla scarsa partecipazione alla politica, ci accorgiamo che la democrazia non sta molto bene; che si è scarnificata e si è ridotta spesso al mero esercizio elettorale, e nemmeno tanto, visto che il sistema proporzionale ha sottratto agli elettori la decisione sul governo.
Qualcuno, come David Runciman nel suo brillantissimo How Democracy Ends, ci dice che se pensiamo alla morte della democrazia come nel passato (colpo di stato, colonnelli, fascismo, ecc.) ci sbagliamo, perché la democrazia potrebbe morire con altre forme, magari a causa del suo svuotamento sostanziale, non perché qualcuno l’abbatta (nemmeno Dugin la vuole abbattere, dice solo che non la vuole universale), oppure a causa delle “buone intenzioni e deboli volontà”.
Pensiamo, per esempio, al sistema decisionale pubblico italiano, ingarbugliato e pieno di sovrapposizioni per cui non c’è mai la parola fine in fondo a un processo decisionale o al fatto che l’Italia sia uno dei pochi posti al mondo dove una regione fa causa allo Stato e ogni istituzione alle altre. O di morire quando cade nelle mani di narcisisti, per i quali la politica è come uno spazio pubblicitario da conquistare e mantenere.
La democrazia perciò come avanzamento di tutta la società attraverso la somma dei progetti personali; democrazia efficace perché offre potere alle persone comuni, perché rispecchia compiutamente i valori occidentali e non come metodo neutrale di determinare le decisioni politiche. Democrazia da riempire di sostanza e di senso.
Riconoscere i propri santi significa perciò per i liberal-democratici riconoscere le ragioni di fondo del perché la democrazia è un sistema superiore a tutti gli altri, o il meno peggio, se si preferisce, perché offre la possibilità sostanziale a chiunque di “perseguire la propria felicità”.
In una società con la mobilità sociale bloccata, redditi fermi e politici lontani non è facile, ma questi sono i temi del prossimo “memo”.