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Myanmar: Facebook contro le fake news

FRANCESCO TORTORA – 28 DICEMBRE 2018
Una commissione ONU fact finding accusa Facebook di essere stato lento e inefficace nel bloccare la razzista campagna di odio condotta sui social ed evidentemente pro-militari.

Lotta dura in Myanmar alle fake news e ad una certa forma di ‘controinformazione’ a mezzo social. Nella giornata del 19 Dicembre scorso, infatti, il social per eccellenza allo stato attuale, ovvero Facebook, ha annunciato ufficialmente di aver rimosso 425 pagine e 135 account nella sua più recente mossa contro utenti che hanno cercato di adottare modalità push nel veicolare contenuti, messaggi e link pro-militari. Questa è la terza volta in Myanmar solo quest’anno: Facebook infatti è in modalità fortemente proattiva contro quelli che sono stati definiti «comportamenti inautentici coordinati» in Myanmar ma non si tratta di una lotta che si esplica solo su Facebook. Infatti, tra i gruppi di Facebook bloccati 17 sono di photo-sharing e ruotano a loro volta intorno ad altri social come Instagram peraltro di proprietà anch’esso di Facebook. «Essendo parte della nostra operatività in termini di azione investigativa su questo tipo di comportamenti in Myanmar, abbiamo rilevato che queste pagine di notizie apparentemente indipendenti su intrattenimento, bellezza e stili di vita erano in realtà pagine correlate ai militari del Myanmar e sostenevano comportamenti inautentici in modo coordinato, motivo per il quale le pagine citate sono state chiuse nel mese di Agosto». Gli addetti alle indagini informatiche hanno identificato i percorsi adottati da coloro che hanno effettuato tutti gli accessi connessi attraverso studi condotti sulle modalità di accesso, la tempistica e la tipologia di devices adottati per accedere al social, oltre alle identità informatiche adottate successivamente identificate e che erano state utilizzate per fare log in e usare i correlativi account, così come gli specifici codici IP Internet Protocol. «Questo tipo di comportamenti non sono consentiti su Facebook in termini di travisamento della nostra politica poiché noi non vogliamo che persone oppure organizzazioni creino network di account differenti per fuorviare terzi su chi essi siano o su quel che facciano».
Ogni pagina rimossa era seguita da circa 2.5 milioni di persone mentre almeno uno dei gruppi rimossi aveva circa 6.400 membri. Facebook, social con sede in California, è stato sottoposto ad un fuoco di fila di critiche per essersi mosso in grave ritardo -si afferma- nell’impedire che si potesse diffondere discordia o diffondere informazioni false sulla sua piattaforma social media che -notoriamente- è ampiamente utilizzata come accesso ad Internet in molti Paesi in fase di sviluppo come il Myanmar.
Nel mese di agosto dello scorso anno, degli insorgenti auto-proclamatisi Arakan Rohingya Salvation Army hanno attaccato delle postazioni della Security nazionale birmana al confine in territorio dello Stato Rakhine, questo fatto ha determinato una risposta brutale e distruttiva da parte dell’Esercito regolare birmano che ha abbattuto villaggi, in una operazione di vera e propria ‘pulizia etnica‘ come è stata definita dalle stesse Nazioni Unite e che ha lasciato al suolo molti morti e circa 700.000 sfollati che hanno cercato rifugio nel confinante Bangladesh. Mentre il Myanmar s’è detto pronto a riprendersi indietro i Rohingya fuggiti in territorio straniero, questi sono ancor oggi estremamente preoccupati a proposito della loro sicurezza e temono che il processo di rimpatrio sia progressivamente e nuovamente indebolito e che la strada per ottenere la cittadinanza finora sempre negata sia tornata nuovamente in alto mare. Molti dei loro villaggi in Myanmar che sono stati incendiati o distrutti durante il periodo della repressione sono stati successivamente del tutto rasi al suolo. Un tentativo di rimpatrio, lo scorso mese, è andato fallito poiché i Rohingya, ansiosi di evitare la possibilità di restare chiusi nei siti birmani di accoglienza, hanno protestato in Bangladesh.
E’ stato durante quella crisi che Facebook è stato identificato come piattaforma chiave per la diffusione di propaganda anti-Rohingya. Nel mese di agosto dell’anno corrente, una missione delle Nazioni Unite specializzata nello studiare questi casi e che opera nell’ambito della raccolta documenti e prove in relazione all’accusa ONU di genocidio commesso dalle forze armate del Myanmar, ha accusato Facebook di essere «lento e inefficace» nel contrastare il linguaggio improntato all’odio in quel social media. Nello stesso giorno in cui il report ONU è stato pubblicato, Facebook ha affermato che stava bannando 20 organizzazioni birmane e soggetti individuali compreso il profilo del capo militare nazionale Min Aung Hlaing, impedendo loro di usare la piattaforma social per infiammare le tensioni etniche e religiose. Il generale senior però, è ancora visibile su Twitter così come attraverso il suo sito web. I militari del Myanmar, che hanno guidato con pugno di ferro il Paese per cinque decadi prima di cedere il passo -almeno formalmente- grazie ad elezioni democratiche, mantengono ancor oggi le principali leve del potere nella Nazione in virtù di una revisione costituzionale artatamente disegnata e pianificata a favore dei medesimi militari all’interno del Parlamento birmano.
Allo stesso tempo, negli USA, la Camera delle Rappresentanze cioè la Camera Bassa del Parlamento americano, ha adottato una risoluzione la scorsa settimana dove – a proposito della espulsione della etnia Rohingya dal territorio birmano – si usa chiaramente la dizione di «genocidio». Anche Aung San Suu Kyi, Premier in pectore del Myanmar, dopo un quindicennio nelle mani dei militari per la sua azione politica, icona della liberazione del Myanmar dal giogo militare e Premio Nobel per la Pace nel 1991, oggi è fortemente criticata per la sua totale assenza in difesa dei Rohingya tanto che le sono già stati ritirati importanti premi ed onorificenze che le erano state in precedenza consegnate proprio per il suo lavoro nel nome della Pace. Il che è fatto alquanto esemplificativo dello stato delle cose riguardo l’etnia Rohingya presente in territorio birmano da secoli e quindi componente storica della Nazione, alla quale però, non viene riconosciuta alcuna identità, viene considerata una minoranza islamica slegata dal contesto nazionale a prevalenza buddhista e quindi vista come un vero e proprio corpo estraneo non accettato.