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Migliorare le condizioni delle madri detenute e dei loro figli in carcere è una battaglia di democrazia

Cristina Ornano 24/12/2018
“Non parlarmi degli archi, parlami delle tue galere”. Questo monito di Voltaire ci ricorda come niente più del sistema carcerario rappresenti la cartina di tornasole della condizione di una democrazia.

E all’interno del mondo del carcere, ancora più indicativa dello stato di salute di una democrazia è la realtà vissuta dalle detenute, dalle detenute madri e dai loro bambini in particolare, soprattutto quando queste madri sono affette da disturbi psichici.
Perché voglio parlare di loro? Perché si tratta di soggetti massimamente deboli e come tali considerati portatori di diritti deboli, poiché il loro potere “contrattuale” è considerato zero. Proprio per questo, nell’ottica di chi ha scelto di amministrare la giustizia e crede nella Costituzione, loro devono rappresentare una priorità.
La cronaca più recente ce ne ha ricordato l’esistenza, rompendo la narrazione fiabesca, spingendoci alla frontiera del grande mistero della sofferenza della mente e costringendoci di fronte alla difficoltà drammatica che, spesso, sottende i rapporti fra madre e figli, soprattutto quando questi rapporti sono costretti ad esistere (e resistere) dietro le sbarre di un carcere, soprattutto quando nascono all’ombra della sofferenza mentale.
Mi riferisco alla giovane donna che, a settembre, e dentro Rebibbia, ha ucciso i suoi due figli. Un fatto che ci ha sconvolto, che ha dominato la cronaca per diversi giorni. Poi, di nuovo, silenzio.
Le donne in carcere sono quasi 2500, ben 904 sono straniere. Gli istituti femminili sono appena cinque (Empoli, Pozzuoli, Roma, Trani, Venezia), perché il resto della popolazione carceraria femminile è detenuta in reparti speciali nelle carceri maschili. Molte di loro soffrono di malattia mentale. Molte vivono una condizione di forte marginalità e di solitudine perché straniere e prive di riferimenti all’esterno.
Rispetto a tale quadro così complesso, l’assistenza e l’offerta trattamentale, sempre insufficienti in carcere, lo sono a maggior ragione per le donne detenute, costrette ad adattarsi ad una realtà organizzata e pensata al maschile.
Di questa umanità fanno parte 52 madri e 62 minori. Una trentina vivono negli Icam, degli altri trenta una metà a Rebibbia, la restante parte è dislocata in diversi istituti. Nel 2011, con la legge 62, è stato innalzato da 3 a 6 anni il limite di età dei bambini che possono vivere in carcere con le loro mamme. Sempre questa norma consente poi la possibilità di scontare la pena negli Icam, che sono istituti a custodia attenuata che consentono appunto alle madri di vivere con i propri figli in istituti carcerari ‘leggeri”, o in case famiglie protette attraverso cui si cerca di creare una dimensione familiare normale, con l’inserimento nella società.
Gli Icam sono solo 5 (Avellino, Milano, Venezia, Torino e Cagliari). Le case famiglia sono esperienze rare. Il risultato è che vi sono ancora bambini che vivono in carcere, dietro le sbarre, con gravi conseguenze sul loro sviluppo psico-fisico, con spesso drammatiche conseguenze sulla loro stessa vita, come testimonia la vicenda di Rebibbia.
Noi dobbiamo investire nell’attuazione piena della legge, condurre i bambini fuori dal carcere, favorire la creazione di case famiglia, approvare la riforma dell’ordinamento penitenziario. Iniziare anche ad interrogarci su come favorire il rapporto parentale quando le madri non possono più tenere con sé i figli negli Icam e nelle case famiglia. Dobbiamo investire e potenziare e articolare l’assistenza anche psicologica e l’offerta trattamentale all’interno del carcere e delle altre strutture alternative, pensare alle donne, pensare alle donne madri con i loro figli, pensare alle donne madri che soffrono psichicamente. E lo dobbiamo fare perché stiamo parlando di vite umane, per altro innocenti, ma anche perché ci giochiamo il senso stesso e la qualità della nostra democrazia.