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«Entro sei mesi l’Egitto processi gli aguzzini di Giulio»

Chiara Cruciati 4 dicembre 2018
Una fonte del Cairo all’agenzia indipendente Mada Masr riporta di un presunto ultimatum della Farnesina per l’omicidio Regeni: o si va a processo o Roma prenderà misure. Intanto, la Procura generale egiziana rigetta la richiesta di indagare i sospetti rapitori del ricercatore.

Sei mesi di tempo per aprire un processo o l’Italia prenderà provvedimenti seri. È quando il ministro degli Esteri italiano Enzo Moavero Milanesi avrebbe detto all’ambasciatore egiziano a Roma, Hisham Badr, lo scorso venerdì dopo averlo convocato alla Farnesina. A riportare l’indiscrezione è l’agenzia indipendente egiziana Mada Masr, che cita fonti egiziane.
Secondo un funzionario del Cairo, Moavero avrebbe parlato a Badr di possibile «escalation» se entro l’anno l’Egitto non avvierà un’inchiesta contro i sospetti rapitori, torturatori e assassini del ricercatore italiano Giulio Regeni e se entro sei mesi non aprirà un processo. Tra le misure paventate dalla Farnesina, ci sarebbe la richiesta all’Unione europea di avviare azioni legali contro l’Egitto.
Questo è quanto riportato da Mada Masr. Nelle stesse ore, però, ad alimentare la rinnovata crisi tra Italia ed Egitto – che da tempo sembrava ormai sepolta sotto la cenere di una normalizzazione conveniente dei rapporti – è stata un’altra fonte, interna alla procura egiziana, che ai media del paese nordafricano ha parlato del rigetto della richiesta della Procura di Roma di iscrivere nel registro degli indagati i sospetti assassini di Giulio. Ovvero, di dare un nome alla macchina della repressione.
Una richiesta che fa il paio con quella di procedere in autonomia, a Roma, per perseguire i responsabili in Italia vista l’impunità regnante al Cairo. L’Egitto, fanno sapere dalla Procura generale egiziana, si rifiuta di indagare funzionari della sicurezza, una richiesta che il team di Piazzale Clodio aveva già mosso nel dicembre 2017, per essere sempre scartata dal Cairo.
La legge egiziana, dicono dal Cairo, non prevede «registri degli indagati». Ma soprattutto la Procura generale non ritiene ci siano prove sufficientemente forti per perseguire i sospetti. Insomma, non sarebbero nemmeno da considerare tali. L’ennesimo ostacolo, dunque, da parte egiziana che si unisce a un altro palese tentativo di accreditare l’originaria tesi del regime («Regeni era una spia occidentale»): che la Procura di Roma indaghi sul motivo per cui il ricercatore è entrato in Egitto con visto turistico e non per studio, hanno detto domenica gli inquirenti egiziani.
Tacendo sul fatto che numerosi studenti e giornalisti fanno lo stesso: una prassi entrare e uscire con visti per turismo che si rinnovano via via. Per la Procura generale di Nabil Sadeq, invece, è un elemento capace di generare sospetti e per questo ha chiesto alla controparte italiana di indagare in merito.
La risposta all’ostruzionismo egiziano arriva a stretto giro: «Andiamo avanti – ha scritto ieri Piazzale Clodio in una nota – Nei prossimi giorni verrà formalizzata l’iscrizione nel registro degli indagati di alcuni nomi identificati nell’attività di indagine svolta da Ros e Sco nei mesi scorsi». Si parla al momento di sette, dieci persone, tra funzionari dei servizi e poliziotti, «manovalanza» e vertici.
Tra questi ci sarebbero l’agente Mahmoud Najem, che avrebbe cercato di impossessarsi del passaporto di Giulio servendosi del coinquilino; il colonnello Ather Kamal, che portò il capo del sindacato egli ambulanti, Mohammed Abdallah, nella sede della National Security dove fu arruolato come “spia” di Regeni; e, risalendo la piramide, il maggiore Magdi Sharif che coordinò l’operazione di spionaggio, il colonnello Usham Helmy, «arruolatore» di Abdallah, e il generale Sabir Tareq.
Non cani sciolti, ma ingranaggi centrali della macchina forgiata dal regime di al-Sisi per garantirsi il controllo totale del paese. Di nuovo: al di là dei singoli responsabili, l’omicidio di Giulio è un omicidio di Stato.