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CISGIORDANIA. Dopo l’escalation, arrivano le demolizioni

17 dicembre 2018, Nena News
Distrutta all’alba la casa della famiglia di Ashraf Naalwa, sospettato dell’uccisione di due israeliani vicino alla colonia di Ariel, e consegnato un’ordine di demolizione alla famiglia Jabbarin, a Yatta, perché il figlio avrebbe tentato di accoltellare un colono.

Una forma di punizione collettiva considerata una grave violazione del diritto internazionale.
All’alba di questa mattina i bulldozer militari israeliani si sono presentati nel villaggio di Shweika, a Tulkarem, città palestinese nel nord ovest della Cisgiordania, e hanno demolito la casa della famiglia di Ashraf Naalwa, il palestinese sospettato di aver ucciso due israeliani a ottobre. Naalwa, che a colpi di pistola aveva ucciso due persone nell’area industriale di Barkan, vicino alla colonia israeliana di Ariel, è stato ucciso la scorsa settimana durante un raid dell’esercito a est di Nablus, nel campo profughi di Askar al-Jadid.
Decine di soldati sono arrivati questa mattina nel villaggio, hanno prima perquisito l’abitazione e poi l’hanno distrutta. La demolizione ha provocato la rabbia dei residenti e giovani palestinesi si sono scontrati con i militari israeliani: tre manifestanti sono stati arrestati e, fa sapere la Mezzaluna rossa, sei sono rimasti feriti.
Ieri sera decine di persone si erano presentate a casa dei Naalwa, per impedire la demolizione, senza successo. Che i bulldozer sarebbero arrivati, si sapeva già: l’ordine di demolizione era stato consegnato all’inizio novembre.
E ieri un altro ordine di demolizione è stato consegnato, stavolta a Yatta, a sud di Hebron, alla famiglia di Khalil Jabbarin. Il 16enne palestinese era stato arrestato a settembre dopo essere stato ferito dal fuoco dell’esercito israeliano perché accusato di voler accoltellare un colono. L’esercito ha approvato l’ordine di distruzione dell’appartamento della famiglia, che si trova al terzo piano di un palazzo a Yatta. I Jabbarin hanno tempo fino al 2 gennaio per presentare ricorso.
La pratica delle demolizioni è largamente utilizzata dalle autorità israeliana, che la definiscono un deterrente. Non solo non è così, come dichiarato anche da alcuni vertici dell’esercito che la ritengono controproducente, ma è soprattutto un’aperta violazione del diritto internazionale che la vieta: è una forma di punizione collettiva non ammessa dalla legge internazionale, perché colpisce individui e comunità non responsabili di alcun reato.
“La gente che sopporta il peso delle demolizioni sono i parenti, compresi bambini, anziani, donne – scrive l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem – che Israele non sospetta di essere coinvolti in alcun crimine. Nella stragrande maggioranza dei casi, la persona contro la cui casa viene ordinata la demolizione non ci vive nemmeno. L’obiettivo ufficiali della politica di demolizione di casa è la deterrenza, ma nessun effetto di deterrenza è stato mai dimostrato. Visto che costituisce un danno deliberato a degli innocenti, è chiaro che resta un atto illegale”.
Eppure è ampiamente utilizzato, come altre forme punitive considerate dal diritto internazionale una violazione palese, a partire dalla detenzione amministrativa. Ma Israele non è mai stato ritenuto responsabile di tali violazioni, godendo di un’impunità lunga ormai 70 anni.
Intanto, sempre sul versante internazionale, a muoversi è l’Autorità Nazionale Palestinese che insieme alle Nazioni Unite oggi ha fatto appello al mondo per raccogliere 350 milioni di dollari in aiuti ai palestinesi. La somma serve a coprire 203 progetti portati avanti da 88 diverse associazioni, tra cui ong e agenzie dell’Onu. La priorità, fa sapere Jamie McGoldrick, coordinatore umanitario Onu per i Territori Occupati, va al milione e 400mila palestinese che necessita di cibo, salute, servizi idrici.
La ragione dell’appello, dicono Anp e Onu nell’appello congiunto, sta “nel record negativo di finanziamenti e l’aumento degli attacchi di delegittimazione dell’azione umanitaria”. Il riferimento è a Stati Uniti e Israele che da mesi portano avanti una campagna denigratoria nei confronti dell’Onu e in particolare dell’agenzia per i rifugiati palestinesi, Unrwa, a cui sono stati tagliati i fondi e che è quotidianamente accusata di incitamento alla violenza e attività politica.
Una campagna che si è tradotta poi nella proposta del comune di Gerusalemme di cacciare l’Unrwa dalla Città Santa, dove fornisce alla popolazione palestinese scuola e servizi sanitari. L’ennesimo atto – l’attacco all’Unrwa – che ha come obiettivo finale la scomparsa dell’agenda palestinese dal tavolo internazionale.