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Affidamento, la storia del piccolo Marco dimostra che il nostro sistema minorile è fuori controllo

30 dicembre 2018
Val la pena di dedicare ancora questo spazio alla vicenda del piccolo Marco, il bimbo di tre anni di Verona allontanato dai nonni materni.

Sicuramente Marco avrà chiesto perché il suo terzo Natale abbia dovuto trascorrerlo in una casa famiglia, con altri bambini che non conosce, invece che in una vera casa, in una vera famiglia, tra adulti che si occupino di lui. Probabilmente ha ottenuto risposte rassicuranti, qualcosa di credibile per la sua età. Di certo non gli si può spiegare che si sta aspettando che finiscano le festività e che venga fissata un’udienza di appello. Ancora meno che – con tutta probabilità- nell’udienza si rimanderà a un’altra data e che in quell’occasione verrà forse istruita una cosiddetta Ctu, una perizia che può durare mesi. E che alla fine i suoi nonni che frequentava regolarmente, i genitori affidatari presso i quali era stato collocato non li vedrà più.

Sì, perché la stessa sentenza del Tribunale dei minori di Venezia che l’ha allontanato l’ha anche dichiarato adottabile “sussistendo – si legge nel dispositivo – una situazione di abbandono morale e materiale non dovuto a cause di forza maggiore e transitorie”. E ancora si dice che la decisione viene presa affinché trovi chi “l’accudisca, gli assicuri serenità, stabilità emotiva”. Peccato che il Pubblico ministero – che nella giustizia minorile ha la funzione di tutelare gli interessi del minore sopra ogni altra parte coinvolta – avesse chiesto l’adottabilità di Marco praticamente subito dopo la nascita, cosa che gli avrebbe risparmiato una peregrinazione tra case, parenti, affidatari e l’illusione di avere comunque trovato una stabilità. Peccato ancora che lo stesso magistrato avesse chiesto ora di collocare il piccolo presso i nonni, con l’affidamento – cioè la delega a tutte le decisioni importanti – ai servizi sociali. Uguale richiesta da parte del tutore, cioè dell’avvocato del bambino.
Ricordiamo che qui si vuole affrontare questo caso come paradigma di un sistema di gestione dei minori fuori controllo, messo ormai in discussione da anni e che lascia sul campo sempre più frequentemente storie di famiglie private dei figli, di figli messi in istituti e perfino dell’ombra di interessi personali e convenienze economiche, non difficili da immaginare quando vi sono case famiglia che arrivano a incassare fino a 400 euro al giorno di fondi pubblici per ogni bambino collocato. Servirebbero chiarezza e linee guida certe, ma queste paiono essere proprio gli elementi totalmente assenti in queste vicende. Quella di Marco ne è un esempio lampante. Facciamo un passo indietro e ripercorriamo le tappe.
Marco nasce da una madre ventenne, dedita agli stupefacenti. Il padre non esiste. Il bimbo trascorre qualche mese in una comunità con la madre che però viene giudicata incapace di gestire la maternità. A questo punto Marco viene affidato a una famiglia, conoscente dei nonni materni che possono fare frequenti visite al nipotino, realizzando quindi – cosa assai rara – le linee stabilite dalla legge che imporrebbe una buona relazione tra famiglia di origine a famiglia affidataria. Una condizione apparentemente ideale, che va avanti per due anni e otto mesi. Si prolunga quindi oltre il normale, tanto da indurre il Pubblico ministero a chiedere che il bambino venga affidato ai nonni, visto che il cosiddetto “percorso eterofamigliare” ha dato ottimi frutti.
Ed ecco che tutto, improvvisamente cambia. Dodici pagine di sentenza, nella quali compaio cose fino a quel momento inimmaginabili. Innanzi tutto un elenco di trasferimenti del bambino tra case famiglia e famiglie affidatarie che non trova riscontro nella realtà. I nonni di Marco cadono dalle nuvole: hanno visto il nipotino sempre insieme a un’unica coppia, con frequentazioni regolari. Come può risultare quello strano percorso che descrive ovviamente la necessità di maggior stabilità per il bambino e sicuramente condiziona il giudice? Poi pagine – molte – dedicate a un’unica figura, quella della nonna. La sostanza è che essendo stata incapace di evitare alla figlia di cadere nella tossicodipendenza, non potrà occuparsi del nipotino, ma val la pena di riportare alcune frasi. In una valutazione si dice che la nonna “ha dimostrato poca coerenza nei messaggi educativi dati alla figlia e conseguentemente con poca autorevolezza”. Il giudizio viene poi riferito al piccolo Marco, quando l’assistente sociale scrive che “c’è il rischio di sovrapposizione dei ruoli e che il conflitto con la figlia si ripercuota inevitabilmente sull’educazione del nipote”.
Cosa avrebbero voluto i servizi sociali? “La nonna dovrebbe decidere se esserci per la figlia o per il nipote”. Insomma dimenticarsi di avere una figlia, che ora ha 23 anni, non si droga più, si da da fare per trovare un lavoro e ha saldato anche i conti con la giustizia. E la famiglia affidataria? Anche a quella viene attribuita una colpa: “Avere un rapporto privilegiato con la nonna”. Così Marco è finito in un solo colpo in una casa famiglia e adottabile. A pochi giorni dal Natale. Per chiedere un passo indietro c’è stata anche una fiaccolata, sotto le finestre dal Comune di Verona. La risposta è stata una telefona ai nonni nella quale si consigliava di far finire le manifestazioni di solidarietà, anche sui social.