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PALESTINA. Olp vota per sospensione riconoscimento d’Israele

30 ottobre 2018, Nena News
Il Comitato centrale dell’Organizzazione della Palestina ha deciso di non riconoscere lo stato israeliano finché Tel Aviv non ne riconoscerà uno palestinese nei confini del ’67. Il voto, non vincolante, chiede anche la fine del coordinamento alla sicurezza con gli israeliani e la sospensione degli accordi economici con loro.

Il comitato centrale dell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) ha votato ieri per sospendere il riconoscimento d’Israele finché quest’ultimo non riconoscerà uno stato palestinese nei confini del 1967. “Riconosciamo il diritto a resistere all’occupazione in tutti i metodi previsti dalla legge internazionale” ha chiarito il comitato in una nota. Non solo: il voto di ieri chiede anche la fine del coordinamento alla sicurezza con gli israeliani e la sospensione di tutti gli accordi economici con Tel Aviv. Quanto stabilito ieri non è tuttavia vincolante perché la decisione finale spetterà al presidente dell’Autorità palestinese (Ap) Mahmoud Abbas. Nonostante Abbas abbia detto la scorsa settimana che non aggirerà le decisioni del comitato dell’Olp, sembra difficile però che metterà in pratica quanto deciso ieri. Del resto anche i precedenti voti del comitato nel gennaio 2018 e nel 2015 relativi alla sospensione del coordinamento alla sicurezza con Tel Aviv non sono stati mai implementati.
La scorsa settimana il presidente palestinese ha usato parole dure contro Israele: “Stiamo mettendo sul tavolo tutti i nostri accordi con gli israeliani e chiederemo che la smettano di violarli”, ha detto a Palestine Tv aggiungendo che “è una questione difficile, ma che forse arriveremo al punto di abrogarne molti di loro”. Domenica, poi, Abbas ha ribadito che si opporrà a ogni piano di pace proposto dal presidente statunitense Donald Trump, sottolineando come i palestinesi stiano affrontando “la fase storica più difficile” soprattutto a causa del riconoscimento statunitense di Gerusalemme come capitale d’Israele stabilito da Trump lo scorso dicembre in barba al diritto internazionale. Il presidente palestinese aveva poi paragonato il “piano del secolo” del leader Usa alla Dichiarazione di Balfour del 1917 con la quale il governo inglese si impegnava alla creazione di un “focolare ebraico” nella Palestina storica. Ostentando sicurezza, Abbas ha promesso che “se la Dichiarazione Balfour è passata, questa intesa invece non lo farà”.
Ieri, intanto, l’esercito israeliano ha chiesto di aprire una inchiesta sul caso di Razan al-Najjar, l’infermiera palestinese uccisa dai militari israeliani alla fine di maggio durante una delle proteste delle “Marce del ritorno” avvenute al confine tra Gaza e Israele. Il General Brigadiere Sharon Afek ha infatti rigettato i risultati delle indagini militari preliminari effettuate a giugno secondo cui i soldati avrebbero sparato ai manifestanti e non direttamente ad al-Najjar che era al confine per curare i dimostranti feriti dal fuoco israeliano. Secondo il ministro alla salute palestinese Jawad Awaad, l’uccisione dell’infermiera al-Najjar è stato “un crimine di guerra” perché la ragazza è stata colpita al collo nonostante portasse il camice bianco del personale medico.
La tensione resta alta nella Striscia di Gaza. Ai tre adolescenti uccisi domenica da un raid israeliano, a Beit Lahiya si è contata ieri un nuova vittima: Mohammed Abde al-Hai (27 anni) colpito mortalmente dai proiettili sparati dai cecchini israeliani durante una protesta. La rabbia per le continue uccisioni di civili è diffusa tra i palestinesi: l’Olp ha chiesto alla Corte penale internazionale di aprire un’inchiesta sulla strage di due giorni fa e ha invito la comunità internazionale a “rompere il silenzio sui crimini incessanti commessi dall’esercito dell’occupazione”. Ma la denuncia palestinese resta un grido inascoltato. E così, nell’indifferenza della comunità internazionale, il governo israeliano può ribadire indisturbatamente la sua politica del pugno duro. Il ministro della difesa Lieberman è stato chiaro ieri: “Non c’è modo di raggiungere un accordo con Hamas, bisogna dargli il colpo più duro che possiamo”. E se il governo mostra i muscoli e anche perché c’è una parte di popolazione israeliana che spinge l’esecutivo di Netanyahu ad una risposta più “energica” contro i gazawi: ieri alcuni gruppi civili hanno bloccato i camion diretti al valico di Kerem Shalom tra Gaza e Israele per impedire l’ingresso di cibo nella Striscia assediata da 11 anni da Tel Aviv.
Si è concluso intanto dopo oltre 50 giorni lo sciopero della fame del prigioniero palestinese Khader Adnan (40 anni) dopo che ieri un tribunale militare israeliano lo ha condannato a un anno di detenzione. Con questa sentenza Adnan – già autore nel 2012 e 2015 di scioperi della fame durati rispettivamente 67 e più di 50 giorni – dovrebbe essere rilasciato tra due mesi dato che è in carcere dallo scorso dicembre.