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IRAQ. Rapporto Onu: “Oltre 200 fosse comuni lasciate dall’Is”

7 novembre 2018, Nena News
Secondo un documento delle Nazioni Unite pubblicato ieri, le vittime nel nord ovest del Paese potrebbero essere più di 12.000. 

Le indagini sono ancora in fase iniziale: finora sono state scavate solo 28 fosse. Migliaia di carpe intanto sono morte causa inquinamento nell’Eufrate causando un grave danno economico a numerosi piscicoltori.
Un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato ieri ha individuato oltre 200 fosse comuni contenenti più di 12.000 vittime lasciate dall’autoproclamato “califfato islamico” (Is) nel nord ovest dell’Iraq durante i suoi tre anni di occupazione. “Quanto abbiamo documentato nel nostro rapporto è una testimonianza straziante di vite umane perse, di profonda sofferenza e di una crudeltà scioccante” ha detto Jan Kubis, il rappresentante delle Nazioni Unite in Iraq. “Determinare le circostanze relative a queste uccisioni sarebbe un importante passo per il processo di elaborazione del lutto da parte delle famiglie, per la verità e giustizia”, ha aggiunto Kubis che ha poi spiegato che le fosse potrebbero “contenere materiale forense fondamentale per fornirci forse i dettagli di queste violazioni [compiute dall’Is] così come per identificare le vittime”.
Quanto recuperato finora in questi siti, fa sapere l’Onu, sarà cruciale “per condurre indagini credibili, tenere processi e comminare pene in accordo con gli standard giuridici internazionali”. Le ricerche sono iniziate ad agosto e finora sono ad una fase iniziale: delle 202 fosse comuni identificate nel rapporto, infatti, in solo 28 di loro sono iniziati gli scavi. I risultati delle ispezioni sono stati però già raccapriccianti: al momento le autorità irachene hanno esumato 1.258 cadaveri. Il maggior numero di fosse comuni è stato individuato nei governatorati di Ninive (95), Kirkuk (37), Salahddin (36) e Anbar (24). Non è un caso che proprio la provincia di Ninive sia stata quella più interessata dai crimini dell’Is: è qui infatti che è situata la città di Mosul, fino allo scorso anno la “capitale” irachena del “califfato”. Ed è nella provincia di Ninive che i jihadisti hanno compiuto le stragi di massa contro la minoranza yazida. Nella “dolina di Khafsa” (sud di Mosul) è stata scoperta il 24 febbraio del 2017 quella che potrebbe essere la più grande fossa comune del Paese: qui le autorità irachene pensano che siano state uccise circa 4.000 persone. Ma l’orrore dei tre anni di occupazione dell’Is dell’area nord occidentale dell’Iraq potrebbe non finire qui perché, sostiene il documento, altre fosse comuni potrebbero essere scoperte nei prossimi mesi. Da qui l’appello alle autorità di Baghdad a proteggerle attentamente, scavarle e a fornire assistenza alle famiglie delle vittime.
“Queste fosse – ha commentato Michelle Bachelet, alto commissario Onu per i diritti umani – contengono i resti di migliaia di persone uccise senza pietà per non essersi conformate all’ideologia dell’Isis. Le loro famiglie hanno il diritto di sapere che cosa sia accaduto”. Ma verità e giustizia chiederebbero come condizione indispensabile la presenza di un governo sicuro e stabile. Ovvero di tutto ciò che l’Iraq non ha: emblematico il fatto che a sei mesi dalle elezioni il Paese non abbia ancora un esecutivo. Restano scoperti ancora 8 ministeri, tra cui quelli importanti della difesa e degli interni. Il compito del premier Adel Abdel Mahdi si fa sempre più difficile: i veti incrociati tra i due principali blocchi politici di fatto paralizzano il Paese. Ritardi che l’Iraq non può più permettersi viste le complesse sfide che deve affrontare: la ricostruzione di una consistente parte del suo territorio devastato da 4 anni di guerra contro l’autoproclamato Stato Islamico; le tensioni etniche e settarie mai sopite; la difficile questione meridionale con la situazione incandescente di Bassora; il bilanciamento delle relazioni diplomatiche nazionali tra l’Iran e gli Usa.
Lo stato di degrado in cui versa il Paese può essere esemplificato nell’immagine di migliaia di carpe morte nell’Eufrate questo mese a causa dell’inquinamento delle acque del fiume. Un problema enorme per tanti piscicoltori iracheni (la carpa è tra i piatti nazionali): “Gli sforzi di un intero anno di lavoro sono andati persi senza poi dimenticare il denaro che abbiamo sborsato per pagare i lavoratori e per farli mangiare” ha detto alla Reuters Mohammed Ali Hamza al-Jumaili, un piscicoltore di Mussayb, a 70 chilometri a sud di Baghdad. “Chiediamo al governo di ricompensare quelli che hanno licenze per pescare, legali o meno che siano, così da permettere la produzione di pesce. Le nostre perdite sono enormi”.
Il ministro dell’agricoltura ha fatto sapere domenica che la malattia che ha causato la morte delle migliaia di carpe si è diffusa velocemente per le condizioni soffocanti delle gabbie d’allevamento e per la riduzione delle acque dell’Eufrate. Il ministro ha però provato a tranquillizzare i suoi connazionali affermando che nelle ultime 48 ore non sono stati registrati nuovi casi di carpe morte e che verranno fatti test fuori dal Paese per capire cosa abbia ucciso il pesce. Di sicuro il peggioramento dell’inquinamento delle acque è da mesi una minaccia seria per centinaia di migliaia di iracheni che, soprattutto al sud, non possono disporre di acqua potabile a sufficienza. Particolarmente difficile è la situazione a Bassora (a 500 km sud est da Baghdad) dove il fiume Shat al-Arab – dove il Tigri e l’Eufrate si incontrano – è così inquinato da minacciare la vita di più di 4 milioni di persone.