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Tregua illusoria. Israele si mobilita, Gaza si prepara alla quarta guerra

Umberto De Giovannangeli 13/10/2018
La tregua? Una illusione. Il capo militare di Hamas trasformatosi in “colomba”? Una mossa legata alla resa dei conti interna al campo palestinese.

La realtà è un’altra. Opposta. Gaza si prepara alla quarta guerra. A Gerusalemme non è più in discussione il “se” ma il “quando” e con quale profondità. “Siamo pronti allo scontro”, dichiara il primo ministro Benjamin Netanyahu. “Siamo al massimo livello di preparazione dalla Guerra dei Sei giorni”, gli fa eco il ministro della Difesa, Avigdor Lieberman. Non è propaganda. Il Gabinetto di sicurezza, presieduto da Netanyahu, ha chiesto ai vertici dell’Idf (Le Forze armate dello Stato ebraico) di approntare, in tempi rapidi, un piano di attacco che sia “penetrante”. Un piano condotto per mare, terra e cielo. La guerra a bassa intensità che si consuma ormai da marzo, confidano ad HuffPost fonti di Gerusalemme, viene ritenuta insufficiente e, alla lunga, logorante per Israele. Occorre agire in profondità, aggiunge la fonte, colpendo i centri di comando della “resistenza” palestinese per poi arrivare, sulla base di rapporti di forza consolidati sul campo, ad una negoziazione, attraverso l’Egitto del presidente al-Sisi, che imponga il “piano del secolo” evocato dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e che, stando alle ultime rivelazioni di Haaretz, avrebbe incassato il via libera da parte dell’Arabia Saudita e delle petromonarchie del Golfo. Gran parte del piano si concentrerà sul rafforzamento dell’economia palestinese e dei suoi legami con Israele. “Vorremmo che il piano parlasse da solo – confida una fonte dell’amministrazione Usa ad Haaretz – la gente capirà che dopo l’accordo staranno tutti meglio che senza: crediamo che le persone coinvolte siano interessate al loro futuro e al futuro dei loro figli. Questo piano darà molte più opportunità a tutti in futuro rispetto alla situazione che hanno ora”. A questo fine, nella visione statunitense, saranno decisivi i finanziamenti delle petromonarchie del Golfo per la ricostruzione di Gaza.

Il “piano del secolo” permetterebbe alla popolazione di Gaza di tornare a respirare. Ma per imporre la “pace” made in Trump occorre ridurre a più miti propositi l’Autorità nazionale palestinese dell’anziano e malandato Abu Mazen e, al contempo, mettere definitivamente all’angolo Hamas. La convinzione dell’intelligence israeliana è che la situazione nella Striscia è talmente grave, drammatica, che Hamas rischia di essere travolto da una protesta che può trasformarsi in una rivolta che, se non venisse indirizzata contro l'”entità sionista”, finirebbe per inchiodare la leadership del movimento islamico ad un fallimento di governo. Per questo Israele si prepara alla quarta guerra di Gaza. Ieri sono stati 6 i manifestanti palestinesi morti negli scontri con l’esercito israeliano nei pressi della barriera difensiva di confine tra Gaza e Israele. A renderlo noto è stato il ministero della Sanità della Striscia, citato dall’agenziaMaan, che parla anche di oltre 100 feriti. Alcuni dei feriti versano in condizioni gravi. Secondo la radio militare, una postazione israeliana al confine con Gaza è stata attaccata da ”un gruppo di palestinesi” che hanno superato la barriera di confine e hanno fatto esplodere un ordigno a breve distanza dai soldati. ‘I terroristi sono stati uccisi” ed i militari sono rimasti indenni, afferma l’emittente. Anche ieri, come avviene ogni venerdì dallo scorso 30 marzo, i palestinesi hanno protestato lungo la barriera di confine. Salgono così a 203 i palestinesi uccisi da Israele dallo scorso 30 marzo, da quando cioè sono iniziate le proteste per la “Marcia del Ritorno”.
Nonostante l’elevato numero di vittime palestinesi, a inizio mese il ministro dell’istruzione israeliano Naftali Bennet aveva duramente criticato il collega di governo Lieberman per la risposta “debole” data a Gaza. La sua “colpa”, aveva spiegato Bennet, risiede nel fatto che ha provato a negoziare con i “terroristi” di Hamas e non ha usato “tolleranza zero” con i palestinesi. Ora, però, Lieberman si è ricreduto, ammesso che sia stato per una volta convertito sulla via del dialogo. . E in campo resta solo la “diplomazia delle armi”. D’altro canto, il sangue versato a Gaza nella “battaglia delle Marce” racconta una storia che non nasce ieri ma che si dipana nel corso di decenni e che ha nella Striscia uno dei suoi più tragici luoghi di attuazione. È la storia di tre guerre, in attesa della quarta, di bombardamenti, razzi, invocazione al diritto di difesa (Israele) e a quello della resistenza armata contro l'”entità sionista” (Hamas). È la storia di punizioni collettive, di undici anni di assedio. Ma è anche la storia di un movimento islamico che, fallita l’esperienza di governo, cerca nuova legittimazione nell’indirizzare contro l’occupante con la Stella di David, la rabbia e la sofferenza di una popolazione ridotta allo stremo. Il sangue di Gaza chiama in causa i due “Nemici” che, ognuno per i propri tornaconti, hanno lavorato assieme per recidere ogni filo di dialogo e per distruggere ogni possibile compromesso. Perché “compromesso” è una parola che non esiste sia nel vocabolario politico della destra israeliana sia in quello di Hamas. Perché compromesso significa incontro a metà strada, il riconoscere le ragioni dell’altro. Compromesso significa rinuncia ai disegni della “Grande Israele” come della “Grande Palestina”. Compromesso è ammettere che non esiste né una scorciatoia militare né una terroristica per veder riconosciuti due diritti egualmente fondati: la sicurezza per Israele, uno Stato indipendente per i Palestinesi. Combattere costa meno che fare la pace. Perché “fare la pace”, tra Israeliani e Palestinesi, non è solo ridisegnare confini, cedere o acquisire territori. Significa molto di più: ripensare la propria storia e confrontarla con quella degli altri. Significa immedesimarsi nelle paure e nelle speranze dell’altro e, per quanto riguarda Israele, guardare ai Palestinesi come un popolo e non come una moltitudine ingombrante.
Nello schema di Hamas e in quello della destra israeliana non esiste il “centro”: chiunque si pone in questa ottica, altro non è che un ostacolo da rimuovere, con ogni mezzo, anche il più estremo. La destra israeliana ha bisogno di Hamas per coltivare l’insicurezza, per alimentare nell’opinione pubblica la sindrome di accerchiamento, divenuta psicologia nazionale. Quanto ad Hamas, portare ventimila persone allo scontro con l’apparato militare israeliano nella Striscia, è un esercizio di potenza, è riaffermare la propria leadership nel variegato fronte della resistenza palestinese. Hamas può al massimo contemplare una “hudna” (tregua) con Israele ma mai un riconoscimento della sua esistenza. La destra israeliana, oggi saldamente al potere, ha semplicemente rimosso la “questione palestinese” come questione politica. E in attesa della quarta guerra, Gaza sta morendo. L’ultimo, documentato grido d’allarme, è stato lanciato da Oxfam. L’assedio sta privando una popolazione di 1,900milioni di abitanti, il 56% al di sotto dei 18 anni, del bene più vitale: l’acqua. A oltre due anni dal sanguinoso conflitto che nel 2014 distrusse buona parte del sistema idrico e fognario di Gaza, il sistema straordinario disegnato dalla comunità internazionale per la ricostruzione post-bellica (il cosiddetto Gaza Reconstruction Mechanism-Grm) non riesce ancora a rispondere ai bisogni dei quasi 2 milioni di abitanti della Striscia “intrappolati” in una delle zone più densamente popolate del mondo.
Una situazione drammatica, rimarca il report di Oxfam, aggravata dagli effetti del decennale blocco di Israele sulla Striscia, di cui le prime vittime sono oltre 1,9 milioni di persone che devono sopravvivere con uno scarsissimo accesso all’acqua e una situazione igienico-sanitaria in continuo peggioramento. Basti pensare che il 95% della popolazione – anche solo per bere e cucinare – dipende dall’acqua marina desalinizzata fornita dalle autocisterne private, semplicemente perché l’acqua fornita dalla rete idrica municipale (che presenta oltre 40% di perdite) non è potabile o perché oltre 40mila abitanti non sono allacciati alla rete. A questo si aggiunge un sistema fognario del tutto inadeguato con oltre un terzo delle famiglie che non è connesso al sistema delle acque reflue. Una situazione di carenza idrica di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini, che in molti casi sono costretti a lavarsi, bere e cucinare con acqua contaminata e si trovano esposti così al rischio di diarrea, vomito e disidratazione. Gli effetti del blocco israeliano nella vita di tutti i giorni: commercio praticamente inesistente, famiglie divise e persone che non possono muoversi per curarsi, studiare o lavorare.
Le Nazioni Unite annunciano che entro il 2020 sarà praticamente impossibile vivere a Gaza per la mancanza di energia elettrica, il più alto tasso di disoccupazione al mondo e l’impossibilità per la popolazione di accedere anche a beni essenziali come cibo e, per l’appunto, acqua pulita. Siamo all’annientamento di una popolazione: oltre il 65 per cento degli studenti delle scuole gestite dall’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) a Gaza non riescono a trovare lavoro a causa delle dure condizioni di vita, dell’aumento della povertà e dei tassi di disoccupazione. . Questa è la vita a Gaza. E chi governa Israele come chi impone la sua legge nella Striscia, lo sanno bene. Come lo sa bene la comunità internazionale, capace solo di invitare alla moderazione o (l’Onu) a prospettare una commissione d’inchiesta, ripetendo una stanca litania che fa seguito all’esplosione della violenza. Tutti conoscono la realtà di Gaza, la tragedia umana che in essa si consuma. Ma questa consapevolezza non porta alla ricerca di un accordo, di una pace giusta, duratura, tra pari. Non impone rinunce per ridare speranza. Costa meno combattere, perché, tanto, a chi vuoi che possa interessare la sorte di due milioni di persone ingabbiate in quella prigione chiamata Gaza.