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‘Tu sei tutto per me’. Così gli uomini si convincono che la violenza sulle donne è loro diritto

21 settembre 2018
“Io sono un tipo regolare”, pare abbia detto alla sua vittima l’industriale parmense accusato di aver sottoposto una ragazza di 21 anni a violenze e orribili sevizie.

Si tratta di una variante del frasario rituale utilizzato da quegli uomini che vedono la donna come preda da blandire per poi ridurla nelle loro mani. “Tu sei tutto per me”, è il terribile doppio senso celato dietro al richiamo indirizzato alla vittima prescelta, considerata un oggetto inalienabile, una volta che questa ha trovato la forza per liberarsi dalle loro spire possessive. Perseguitata per anni, cosparsa di fiamme, chiusa in una gabbia. Infine, quando essa riesce a separarsi dall’uomo violento, uccisa.

Come Angela Ferrara a Potenza, freddata davanti a scuola perché colpevole di essere passata dalla condizione di oggetto a quella di soggetto libero e pensante. Bugiardi, violenti, vigliacchi, dissimulatori. Angariano, taccheggiano, intimoriscono la vittima. In altre parole la angosciano, convinti che esercitare violenza sul femminile sia un loro diritto indiscutibile.
Il perverso sadico è una figura assai presente nella clinica, e dunque nella quotidianità. Nella sua mente non esiste altro fine che non sia il puro piacere di infliggere dolore, passando per un controllo radicale, sia fisico che mentale, dell’altro degradato ad ammenicolo. Il perverso, colui che “sa far vibrare le corde dell’angoscia” nella sua preda, non ne prevede la morte come scopo finale. Questa sopraggiunge di solito solo alla fine della prevaricazione, quando la sventurata oggetto delle sue feroci attenzioni viene meno a causa dello smodato uso di percosse, quando sfugge al suo controllo, o quando diventa un intralcio ad un altro progetto di vita (si pensi al massacro di Motta Visconti, dove la moglie e i figli dell’omicida vennero eliminati perché costituivano un intoppo al suo desiderio di rifarsi una vita con un’altra).
Nello studio di uno psicoanalista piombano come macigni le violente fantasie di dominio di chi non può metterle in pratica soltanto perché teme il potere coercitivo della legge. La femminilità è qualcosa che li spaventa, ne hanno orrore perché li mette in questione. Per questo mettono in atto azioni violente tese ad imprigionare sotto lo scacco dell’angoscia quella donna che costituisce un perturbante da annientare. Si possono trovare delle formidabili similitudini tra i desiderata inconfessabili di questi soggetti, una volta fermati dalla legge, e i pensieri opachi dell’uomo che vive nel sottosuolo descritto da Dostoevskj: ‘Per me amare significava tiranneggiare e dominare moralmente. (…) Certe volte mi capita di pensare che l’amore consista soltanto nel diritto liberamente accordatoci dall’essere amato di esercitare su di lui la nostra tirannia’.
Non credo alla riduzione di questi crimini entro categorie diagnostiche, quali quella del ‘narciso manipolatore’ oggi assai in voga. Racchiudere in caselle cliniche il sadismo assolve ad una tragica funzione riparatrice, rivela l’intento assolutorio che la società adotta verso ciò che è malato, sottendendo un pentimento che il sadico non conosce, o invocando stati morbosi di incapacità di intendere delle quali il perverso, che sceglie sempre lucidamente, non è affetto. Queste gesta feroci poggiano purtroppo su costumi culturalmente acquisiti e ancora tacitamente condivisi. “Lui sarà pure un violento, ma quella se l’è andata a cercare” è un pregiudizio tuttora assai diffuso, che germina e cresce su un terreno fertile dal quale affiora ciò che Dostoevskij aveva intuito: “Per quanto mi riguarda personalmente, io altro non ho fatto nella mia vita se non portare all’estremo ciò che voi avete osato portare soltanto sino a metà”.