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Leggi razziali: il CSM affronta la questione ‘Razza e InGiustizia’

GABRIELE PACI 18 SETTEMBRE 2018
Ottanta anni dalla approvazione delle Leggi razziali del 1938. Il quadro temporale e la puntuale ricostruzione di quanto successo lo abbiamo ricostruito in ‘1938-2018: 80 anni di Leggi razziali fasciste e l’exploit celebrativo dell’ineffabile Ministro Fontana’ (‘L’Indro’, 3 agosto 2018).

Durante l’estate (del 1938, quanto a quella del 2018…) si era coagulato il periodo cruciale per definire e rendere pubblica la ‘nuova linea’ del Regime Fascista in tema di ‘razzismo’. E subito cominciavano a dispiegarsene gli effetti di cui peraltro, come in tutte le cose, già da tempo si andavano delineando i contorni. Nel 1937 era entrato in vigore il ‘Regio Decreto legge’ N. 880, che vietava il ‘madamismo’ (l’acquisto di una concubina) e il matrimonio degli italiani con i «sudditi delle colonie africane». Altre leggi dalla spiccata indole razzista vennero poi promulgate dal Parlamento fascista, quindi tra fine luglio e inizio agosto 1938 il sostegno di una ‘elaborazione teorico-scientifica’ intrisa di inverificabile ciarpame antiscientifico, avallata da studiosi e scienziati italici di peso. Documento importante in vista della promulgazione delle cosiddette ‘Leggi razziali’ era stato il ‘Manifesto degli scienziati razzisti’ (noto anche come ‘Manifesto della Razza’), pubblicato originariamente in forma anonima su ‘Il Giornale d’Italia’ il 14 luglio 1938 con il titolo ‘Il Fascismo e i problemi della razza’, quindi ripubblicato sul primo numero della poi tristemente nota rivista ‘La difesa della razza’, del 5 agosto 1938, firmato da 10 scienziati o presunti tali. Il 25 luglio (sempre 1938), dopo un incontro tra i ‘dieci’ redattori della tesi con Dino Alfieri, Ministro della Cultura popolare, il famigerato ‘Minculpop’ (‘Treccani’: «Nell’Italia fascista, denominazione abbreviata con la quale era indicato il ministero della Cultura popolare (1937-44)» ed il Segretario del Partito Nazionale Fascista, Achille Starace, la segreteria politica del PNFcomunicò il testo completo del lavoro, corredato dall’elenco dei firmatari e degli aderenti. Tra le adesioni successive al ‘Manifesto’ spiccano quelle di personaggi illustri, o destinati a diventare tali.

Non indagati a sufficienza sinora gli aspetti che concernono il ‘settore Giustizia’, in particolare per quanto riguarda avvocati e magistrati. Provvede il Consiglio Superiore della Magistratura che ha tenuto un Plenum straordinario su ‘Giustizia e leggi antiebraiche’ (13 settembre 2018). L’ordine del giorno è stato significativamente incentrato sul concetto del ‘riflettere’: ‘Riflessioni del Consiglio Superiore della Magistratura e del Consiglio Nazionale Forense su giustizia e leggi antiebraiche’. Il Plenum ha avuto il suo seguito il giorno successivo nell’Incontro al Senato (14 settembre). Gli integrali Audiovideo sono di ‘Radio Radicale’. I lavori di entrambe le giornate (questo il Programma) hanno ruotato attorno alla presentazione del libro ‘Razza e InGiustizia. Gli avvocati e i magistrati al tempo delle leggi antiebraiche’. Prezioso per notizie ed informazioni è appunto possibile consultarlo anche nella versione digitale il cui link diretto che forniamo proviene dal sito del CSM, sezione ‘Quaderni e pubblicazioni’. Alle due giornate di lavoro, studio e riflessione ha preso parte anche la Presidente della Corte Suprema di Israele, Esther Hayut.
L’iniziativa è stata seguita e coordinata da Piergiorgio Morosini, membro del Consiglio Superiore della Magistratura in qualità di togato, attualmente Direttore dell’’Ufficio Studi e Documentazione’dello stesso. Morosini è stato GUP a Palermo sino alla elezione al CSM del luglio 2014. Riportiamo a seguire il testo integrale del suo intervento, tenuto durante il Plenum Csm del 13 settembre 2018.
«1 / Isolati dalla società nazionale; fortemente limitati nei diritti civili e politici; mortificati nella dignità in quanto esclusi da scuole, lavoro, vita civile. Sono le conseguenze delle leggi razziali italiane del 1938 per le persone di origine ebraica. Una pagina a lungo dimenticata o minimizzata dopo gli orrori dei campi di sterminio, per il cosiddetto ‘peso Auschwitz’. Ma, forse, attraverso la ‘persecuzione dei diritti’ si preparò il terreno per quella che, di lì a poco, sarà la ‘persecuzione delle vite’. 
La elaborazione del volume ‘Razza e Ingiustizia’, che oggi presentiamo, per il Consiglio Superiore è stata l’occasione per interrogarsi su questioni ciclicamente alla ribalta. Quali responsabilità per la magistratura al tempo del fascismo? Esistevano strumenti costituzionali per reagire alla ‘notte’ dei diritti, con uno statuto albertino che all’art.24 riconosceva l’eguaglianza di tutti i cittadini del Regno? C’era spazio per una interpretazione della legge in grado di sterilizzare il diritto diseguale? Ed ancora. I magistrati, allora, avevano spazi di autonomia di fronte al potere politico? Esisteva una associazione di magistrati in grado di esprimere una coscienza critica, alimentando una dialettica istituzionale e un confronto pubblico attorno al valore fondamentale del rispetto dell’essere umano in qualunque condizione si trovi? 
2 / Se leggiamo le sentenze dell’epoca (1938-1943), notiamo un orientamento dei giudici italiani diverso rispetto ai colleghi della Germania nazista. Non sposarono mai approcci smaccatamente filo-regime in cui il giudice ‘costituisce il legame tra diritto e politica’, facendosi interprete del ‘comune sentimento del popolo’. Sulla carta i giudici italiani si rifugiarono nel tecnicismo. La maggior parte di loro si attenne ad una rigorosa lettura delle norme, dandone una interpretazione restrittiva. Ma la presunta neutralità e apoliticità del loro agire non evitò loro il ruolo di ‘dispensatori di ingiustizia’. Non ebbero neppure la forza di mettere in discussione un nuovo assetto dei poteri dello Stato che si delineava sulla questione razziale. Ossia l’interpretazione di quell’art.26 del r.d.l. n.1728 del 1938 che riservava al Ministro degli Interni (sì, avete capito bene) la risoluzione delle controversie sulla applicazione delle leggi razziali, senza la possibilità di alcuna impugnazione, aprendo così un delicatissimo problema di equilibrio tra potere giurisdizionale e esecutivo. 
3 / Ma non ci fu solo l’’ignavia giurisprudenziale’. Pur raggiunti in prima persona dalla capillarità delle interdizioni antisemite, i magistrati rimasero inerti e silenti. Un esempio per tutti. Nel 1939, il ministro della Giustizia Arrigo Solmi chiese a tutti magistrati una dichiarazione di non appartenenza alla razza ebraica al fine di verificare ‘la purezza razziale dell’intero apparato’. Era già accaduto pochi mesi prima con gli insegnanti e gli studenti nelle scuole. In grandi sedi giudiziarie così come in alcuni piccoli tribunali, da un giorno all’altro non si presentarono più diversi magistrati di diverso rango, da giovani uditori giudiziari ai consiglieri di appello e di Cassazione. Come ricorda lo studioso Guido Neppi Modona “Non risulta che alcuno dei circa 4200 magistrati in servizio abbia in qualche modo preso le distanze, magari rifiutando di rispondere alla richiesta di dichiarare la propria appartenenza razziale, ovvero in qualche modo manifestando solidarietà nei confronti dei colleghi rimossi dal servizio”. Tutto continuò come se nulla fosse successo.
Forse tutto questo era il frutto anche della assenza di un associazionismo tra magistrati in grado di far sentire la sua voce su grandi questioni. Un tema questo su cui anche oggi ci si confronta con toni aspri e con orientamenti molto diversi tra loro. D’altronde l’importanza dell’associazionismo tra magistrati, oggi sottovalutato da molti colleghi, lo aveva colto nella sua pienezza lo statista Vittorio Emanuele Orlando sin dal 1909. Criticando la nascita dell’Associazione Generale dei Magistrati d’Italia, Orlando mostrava preoccupazione non solo per la sua “connaturata combattività” sulle questioni corporativo-stipendiali ma anche per la fisiologica acquisizione di una coscienza collettiva, presupposto per una partecipazione attiva al dibattito pubblico sui grandi temi della giustizia. Quella intuizione si è rivelata corretta se solo pensiamo al peso che poi avrà a partire dagli anni sessanta l’Associazione nazionale magistrati sulle questioni inerenti alla riforme della giustizia e dell’ordinamento giudiziario, in chiave di costituzionalizzazione del circuito istituzionale e di qualità della giurisdizione.
Coloro i quali oggi avversano fortemente l’ANM devono sapere che la fascistizzazione della magistratura cominciò proprio con lo scioglimento dell’AGMI nel dicembre del 1926 e con l’epurazione di magistrati di spicco come il segretario generale Vincenzo Chieppa. D’altronde, poco prima dell’avvento del fascismo l’elaborazione dell’AGMI era diventata più dettagliata e l’azione più incisiva. Nel 1921 fu ottenuta l’estensione della inamovibilità ai pretori e l’elettività del CSM da parte di tutto il corpo giudiziario. Ma con il fascismo cambiò tutto. Già nel 1923 il CSM fu reso di nuovo di nomina governativa e furono collocati a riposo i magistrati di sicura fede democratica come il presidente della Cassazione Mortara e il procuratore generale De Notarstefani. 
4 / L’ introduzione delle leggi antiebraiche avvenne in presenza di un ordinamento giudiziario già fortemente segnato dall’assenza di anticorpi a presidio della autonomia e della indipendenza dei magistrati. Proprio rileggendo le cronache di quei tempi, riusciamo ad apprezzare la grandezza dell’attuale assetto costituzionale nel suo statuto relativo all’ordine giudiziario. Un assetto purtroppo messo ciclicamente in discussione negli ultimi trent’anni, da forze politicamente trasversali. Nel 1938, la magistratura operava priva delle più elementari garanzie di autonomia e indipendenza, sia esterna, nei confronti del potere politico, sia interna, con riferimento alla subordinazione gerarchica dei giudici inferiori o dipendenti nei confronti dei magistrati superiori.
Trasferimenti, promozioni e interventi disciplinari, spettavano al ministro della giustizia, ovvero a commissioni formate da alti magistrati nominati dal ministro e istituite presso il ministero, con forti ricadute sull’esercizio della giurisdizione per vicende politicamente sensibili. Il rafforzamento della gerarchica interna, cioè dei vincoli di dipendenza dei magistrati inferiori nei confronti dei capi degli uffici e dei vertici della organizzazione giudiziaria, interferivano anch’essi pesantemente sul libero esercizio delle funzioni giudiziarie dei singoli magistrati, rappresentando una sorta di delega del controllo politico del ministro. Le informazioni dei capi degli uffici, da sempre acquisite in relazione alla vita professionale e personale dei magistrati e determinanti al fine di eventuali promozioni, diventarono, sotto il regime, il principale strumento di controllo dell’attività dei magistrati e di denuncia di comportamenti sospetti. I consigli giudiziari non si limitarono più a valutare i provvedimenti giudiziari dei candidati o i loro rapporti con i colleghi, il personale e il foro, ma estendevano la valutazione al possesso da parte dei magistrati dei ‘requisiti fascisti’ (come l’anzianità all’iscrizione al PNF e alla Milizia volontaria). Anche sulla formazione dei magistrati ci fu un forte investimento della politica. Nel 1935 il Guardasigilli Solmi riorganizzò l’uditorato, includendovi anche nozioni in materia di politica fascista. 
5 / In quelle condizioni e nell’assenza di categorie giuridiche che consentissero ai magistrati una critica ai testi normativi come oggi accade con la devoluzione alla Corte Costituzionale, la giurisprudenza sulla legislazione antisemita seguì inevitabilmente lo spirito del sistema politico e l’indirizzo desiderato dal governo. Eppure quella pagina storica pone più di un interrogativo anche al magistrato di oggi. I termini della questione sono posti molto efficacemente da un importante contributo su ‘I Giudici e la razza’ dello storico del diritto Giuseppe Speciale secondo cui “… l’ebreo, il discriminato, il perseguitato, il diverso da espellere, l’ oggetto della legislazione razziale meticolosamente dettagliata, finisce, al di là di ogni sua intenzione, per costituire e incarnare l’elemento scandaloso che costringe l’ altro, il non ebreo, il giudice a riflettere prima di tutto su se stesso, sulla propria storia, sulla propria identità”. E’ un discorso che chiama in causa il nostro senso di libertà di coscienza; quei doveri che si richiedono a uomini e donne chiamati ad essere ‘operatori di giustizia’. Doveri valevoli in ogni tempo e in ogni luogo.
Anche in quel periodo di oscurantismo, alcuni magistrati continuarono a svolgere le loro funzioni interpretando le leggi nel superiore interesse della legalità e della giustizia e subendone le nefaste conseguenze. Alcuni pagarono il rigore professionale con il trasferimento di sede e un arresto della propria carriera. Altri andarono a combattere per la liberazione e pagarono con la vita. Non si possono dimenticare figure coraggiose come il giudice Vincenzo Giusto del tribunale di Cuneo, morto partigiano e medaglia d’oro alla Resistenza, o come il consigliere Ferrero, arrestato nel 1944, percosso, insultato come ‘traditore’ e infine fucilato dalla milizia nazifascista.
Noi ogni anno, anche qui al Consiglio, commemoriamo giustamente le vittime del terrorismo e della mafia. Magistrati leali, coraggiosi, che si sono distinti per una passione civile e democratica che hanno pagato con la vita. Ecco, io credo che dovremmo dedicare almeno un giorno alla memoria di magistrati che in quell’epoca si sono battuti contro la violenza nazi-fascista. Anche a loro va attribuito un posto nel pantheon dei Giusti».