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Cina: libertà religiosa sì, però

D. L. 13 SETTEMBRE 2018
In Cina, negli ultimi anni, l’osservanza religiosa è in aumento, ma sono in crescita anche gli atti di violenza contro le persone che praticano culti religiosi.

Il panorama religioso in Cina è molto variegato. Secondo l’ultima Revisione Periodica Universale, redatta dalle Nazioni Unite nel 2013 – il rapporto viene stilato circa ogni 4 anni e mezzo – in linea con i numeri del Governo cinese, attualmente in Cina ci sono circa 5.500 gruppi religiosi, insieme a quasi 100.000 istituzioni accademiche affiliate a religioni e ben 140.000 luoghi di attività religiosa registrati e aperti al pubblico. Secondo la revisione, su una popolazione di 1.4 miliardi di persone i credenti sarebbero 100 milioni.
Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, invece, crede che il Governo cinese sottostimi di molto il numero dei fedeli delle diverse religioni. In un rapporto del 2016, infatti, il Governo americano stima che ci siano 657 milioni di credenti nel Paese, tra cui 250 milioni di buddisti, 70 milioni di cristiani, 25 milioni di musulmani, 301 milioni di osservanti religioni popolari e 10 milioni di altri fedeli, tra cui i taoisti.
Differenti, ancora, le stime fatte nel 2017 da Freedom House – un autorevole centro di ricerca con sede a Washington – che riporta come in Cina siano presenti 350 milioni di credenti e centinaia di milioni di persone che seguono varie tradizioni popolari. Questi 350 milioni sono così suddivisi: 185-250 milioni di buddisti cinesi; 60-80 milioni di protestanti; 21-23 milioni di musulmani; 7-20 milioni di praticanti Falun Gong; 12 milioni di cristiani; 7-8 milioni di buddisti tibetani.
Il Partito Comunista Cinese è ufficialmente ateo. Il partito proibisce ai suoi novanta milioni di membri di professare credenze religiose e gli iscritti che appartengono ad organizzazioni religiose sono soggetti ad espulsione. Come riporta ‘Reuters’, il ‘People’s Daily’ – giornale organo del Comitato Centrale del PCC – ha avvertito i funzionari del Partito Comunista a non pregare Dio e adorare Buddha, perché il comunismo riguarda l’ateismo e la superstizione sta alla base della corruzione.
Nonostante l’ateismo professato dal PCC, la libertà religiosa è garantita dall’articolo 36 della Costituzione della Repubblica Popolare Cinese, che così recita: «I cittadini della Repubblica popolare cinese godono della libertà di credo religioso. Nessun organo dello Stato, organizzazione pubblica o individuo può costringere i cittadini a credere o non credere in qualsiasi religione, né possono discriminare i cittadini che credono, o non credono in qualsiasi religione. Lo Stato protegge le normali attività religiose. Nessuno può fare uso della religione per impegnarsi in attività che disturbano l’ordine pubblico, mettere in pericolo la salute dei cittadini o di interferire con il sistema educativo dello Stato. Enti religiosi e dei culti non sono soggetti ad alcuna dominazione straniera».
Lo Stato riconosce ufficialmente cinque religioni: Buddismo, Cattolicesimo, Taoismo, Islam e Protestantesimo.
Oltre alle cinque religioni riconosciute a livello nazionale, i Governi locali tollerano determinate pratiche religiose, come il cristianesimo ortodosso nella regione autonoma dello Xinjiang e nelle province di Heilongjiang, Zhejiang e Guangdong. Come riporta il Dipartimento americano, il culto di Mazu, una divinità popolare con radici taoiste, è stato riclassificato come patrimonio culturale piuttosto che come pratica religiosa.
Tutte le organizzazioni religiose devono registrarsi presso una delle cinque associazioni religiose patriottiche dallo Stato, che sono supervisionate dal SARA, l’Amministrazione Statale per gli Affari Religiosi.
Il Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese ha attuato il nuovo Regolamento sugli Affari Religiosi, entrato in vigore il 1° febbraio di quest’anno, ma approvato già nel settembre 2017. Questa nuova regolamentazione consente alle organizzazioni religiose registrate dallo Stato di possedere proprietà, editare pubblicazioni, formare e approvare il clero e raccogliere donazioni. Nonostante ciò, vengono intensificati e rafforzati i controlli governativi. Vi sono poi restrizioni sulla scuola religiosa e suoi luoghi delle celebrazioni religiose, così come sul monitoraggio delle attività religiose online e la segnalazione di donazioni che superano i 100.000 yuan. Sostanzialmente, queste nuove regole sono state decretate per rafforzare la sicurezza nazionale, combattere l’estremismo e limitare la fede praticata al di fuori delle organizzazioni approvate dallo Stato, in modo da riflettere al meglio i cambiamenti profondi avvenuti in Cina e nel mondo.
Xi Jinping, dal canto suo, ha aperto alle religioni, ma in un’ottica di sinizzazione dei vari credo ufficiali e il recente regolamento va in questa direzione. La macchina del PCC non può permettersi che nascano contropoteri o si rafforzino ideologie in contrasto con la visione comunista cinese, per tale ragione la libertà religiosa deve essere vista in ottica parziale, come un inserimento delle pratiche religiose ufficiali nel contesto dei valori socialisti promulgati dalla Repubblica Popolare.
Sebbene l’articolo 36 sancisca la libertà religiosa, non sono mancati, però, atti di violenza nei confronti di credenti appartenenti alle varie religioni.
Fredoom House ha messo insieme, in una scala di valori, il grado di intolleranza verso le cinque religioni ufficiali.
Il livello di intolleranza è molto alto verso i protestanti. Come riporta il centro di ricerca di Washington, dall’inizio del 2014, le autorità locali hanno intensificato gli sforzi per arginare la diffusione del Cristianesimo, tra la retorica ufficiale fondata sulla minaccia dei valori occidentali e la necessità, appunto, di sinizzare le religioni. I protestanti sono stati particolarmente colpiti nelle campagne, sono state demolite chiese, i leader sanzionati dallo Stato e avvocati per i diritti umani che prendono in mano i casi dei cristiani sono stati arrestati.
Sempre sul fronte cristiano, diverso il discorso per i cattolici. Sebbene alcune chiese siano state rimosse forzatamente e sottoposte a maggiori controlli, la situazione per i cattolici è relativamente tranquilla.
Molto alto, invece, il grado di intolleranza verso i musulmani uiguri. I controlli si sono rafforzati nella regione autonoma dello Xinjiang, dove risiede la maggioranza degli uiguri. Le autorità hanno lanciato nuove campagne per monitorare più da vicino l’uso degli smartphone e costringere le imprese a vendere alcolici, mentre gli incidenti con le forze di sicurezza che aprono il fuoco sui civili uiguri sono diventati più comuni.
Il livello di intolleranza è invece basso per i taoisti ed i buddisti cinesi, esponenti di religioni che sono più in linea con i valori nazionali e la politica nazionalista e patriottica di Xi.
Proprio ieri il Global Times, il quotidiano in lingua inglese del PCC, ha pubblicato un editoriale dal titolo ‘Religious freedom not at odds with management’, in cui ribadisce che i residenti cinesi godono pienamente della libertà di credo religioso, rigettando le calunnie dei media occidentali sugli affari religiosi della Cina.
Il professore Renzo Riccardo Cavalieri, docente di Diritto dell’Asia Orientale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, ci ha spiegato come funziona l’articolo 36 sulla libertà religiosa e perché alcune religioni in Cina vengono prese di mire piuttosto che altre, volgendo lo sguardo anche alle politiche nazionaliste dettate da Xi Jinping.
Professor Cavalieri, cosa dice essenzialmente la Costituzione cinese sulla libertà religiosa?
L’articolo 36 della Costituzione dice sostanzialmente che tutti i cittadini hanno una piena libertà di fede religiosa. Per quanto riguarda invece i culti, cioè l’attività religiosa, la Costituzione e la legge distinguono tre situazioni. La prima riguarda le cinque religioni riconosciute, ognuna delle quali ha degli uffici competenti. Queste non hanno solo la libertà di fede, ma anche di culto, con una serie di condizionamenti, come nel caso della religione cattolica che ha limitazioni specifiche derivanti dal fatto che c’è un’organizzazione verticistica che ha il suo capo all’estero, per cui questo determinata seri problemi. Poi ci sono le religioni non riconosciute che possono essere tollerate, nella fede e nel culto, compatibilmente con una serie di autorizzazioni specifiche da parte delle autorità. Poi ci sono, sempre previste dalla Costituzione e della legge, dei limiti che riguardano tutte le religioni, riconosciute e non, che dicono che queste non devono andare contro la morale, la salute, l’interesse pubblico, che non devono essere controllate da un soggetto straniero. Quest’ultima parte dell’articolo 36 ha determinato i problemi maggiori, da un lato con le religioni non riconosciute, per esempio nel caso della setta Falun Gong alla fine degli anni ’90, ad anche con le religioni riconosciute, come il Cattolicesimo e al Buddismo lamaista. Certo non esiste una libertà religiosa completa, esiste una libertà di fede che è una questione personale, che viene sostanzialmente rispettata e poi ci sono le attività di culto che sono fortemente regolate e, in alcuni casi, vietate per motivi di tutela di educazione, della salute, interesse pubblico o per motivi di sovranità nazionale.
Perché alcune religioni sono prese di mira rispetto ad altre? Perché alcune da estremisti fanatici comunisti e altre dal Governo?
Ci sono state delle recrudescenze specifiche, per esempio con i musulmani uiguri in Xinjiang, ed è possibile che ci sia un periodo in cui l’asprezza è particolarmente forte. Ci sono stati problemi anche con i cattolici, ma non è una novità. Ci sono vari pani però. C’è il piano, addirittura, contro la legge, cioè funzionari cinesi che si comportano in un certo modo, con violenze o fomentando atteggiamenti popolari antireligiosi, ma lo fanno contro la legge. Quindi bisogna distinguere quelle che sono le autorità che decidono delle politiche dai tagli di cronaca. Sono casi diversi. L’inasprimento del controllo sull’Islam dello Xinjiang ha un senso ed è legato al problema dell’indipendentismo del Turkestan orientale e alla radicalizzazione dei musulmani dello Xinjiang, che prima erano molto laici, un po’ come successo in Cecenia 20 anni fa, e si radicalizzano perché identificano la religione con l’indipendenza. Lo stesso vale per il Tibet. La religione non è repressa in quanto religione, ma in quanto strumento di indipendenza anticinese. Altri casi, per esempio della Falun Gong o di altre sette, dove non c’entra il tema indipendenza. Il punto è che le religioni non devono violare la guida del partito. Quando non lo sono e approfittano della credibilità popolare allora vengono represse. Non sono d’accordo col mettere tutte queste situazioni sotto uno stesso ombrello di riduzione di libertà religiosa, perché non è così. Sui protestanti è vero che è un momento difficile.
Quindi, in realtà, è tutto un problema politico?
Sicuramente, ma politico vuol dire un problema di sovranità territoriale-nazionale, e questo riguarda l’Islam e il buddismo tibetano soprattutto, oppure può riguardare un problema di rapporti fra le religioni nazionali e gli stranieri, questo riguarda cattolici e protestanti. Poi ci sono problemi legati alle altre religioni o agli altri credi, in cui c’è un problema di fondo, che se non sono riconosciute o parificate non sono ammesse in Cina.
Come agisce il Governo contro queste religioni non ammesse?
Dipende. L’atteggiamento è generalmente molto duro, nel senso che la tendenza è quella a sanzionare, anche con strumenti di carattere penale gli attivisti, e a sottoporre i credenti a sessioni di rieducazione, dibattito con le autorità locali per cercare di convincerli che non è opportuno lascarsi andare a certe credenze popolari che sono contrarie alla stabilità sociale. È un atteggiamento molto moralistico.
La presidenza attuale di Xi Jinping sta rilanciando i valori nazionali, il sogno cinese, il confucianesimo, e nel fare questo tende a mettere in secondo piano, addirittura a non apprezzare, questa parte che non è autoctona. Se ci pensa né l’Islam, né il Cristianesimo non sono di derivazione cinese. L’idea è un po’ così: noi abbiamo la nostra storia, queste religioni le tolleriamo, però sono tutte o di un passato semicoloniale oppure di culture delle minoranze.
Però alcune statistiche dicono che la religiosità in Cina è un amento. Il Governo teme che queste ‘nuove’ religioni possano minare i dogmi del Partito Comunista?
Un pochino sì. C’è in questo momento in Cina un grande bisogno di spiritualità, perché ormai sono decenni che c’è questa pressione, la riforma economica, una vita molto materialistica e anche solo dal punto di vista estetico i cinesi hanno bisogno di queste credenze. C’è chi ama sposarsi in chiesa non perché siano credenti, ma perché è bello. Voglio dire che c’è un’estetica del culto religioso e anche la spiritualità, sono momenti che mancano molto. Però effettivamente esiste una certa minaccia, diciamo così, percepita da parte sul fatto che la crescita di nuovi movimenti religiosi potenzialmente prima o poi possano essere una minaccia per il Partito. Soprattutto in questo momento in cui il Parito, invece, insiste molto sul recupero dei valori nazionali. Anche qui, bisognerebbe circostanziare un po’, ma si capisce che in questo momento in Cina il potere tende a non lasciare particolarmente libere la creazione di cose nuove.
Lo scorso anno il Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese ha rivisto il Regolamento degli Affari Religiosi. Perché e cosa è cambiato?
Ci sono due problemi concomitanti. Sotto il cappello della religione, in questi ultimi decenni di grande crescita disordinata economica, alcune persone hanno fatto gli affari loro, sono stati costruiti templi e tempietti, edifici abusivi, alcuni non pagavano le tasse e quindi, come in tutte le cose, il Governo di Xi ha dato una stretta ed ha centralizzato i poteri. Prima le autorità locali avevano degli atteggiamenti tolleranti, a volte corruttivi. Questo fa parte della lotta anti-corruzione e della rimessa del sistema sotto la legge, per cui certe tolleranze che erano consentite ora non lo sono più. Il Governo tende ad una centralizzazione. Ovviamente, questo viene fuori adesso perché l’interesse nei confronti delle religioni sta crescendo in Cina, quindi il Governo ci mette del suo. Poi ci sono tanti elementi da valutare. Io sono sicuro che se i rapporti tra la Cina e gli USA peggiorano, peggiorano anche le condizioni dei protestanti di derivazione americana. Per i cinesi sono cose molto collegate.
Da quando Xi ha preso completamente il potere ogni forma di non omologazione alla voce del Governo è abbastanza difficile. Questo riguarda tutti e a maggior ragione questi fenomeni religiosi che sono sempre visti con sospetto. Questa nuova normativa, come molte altre cose nuove in questo periodo, mi sembra volta a mettere le cose in ordine e consentirsi uno spazio per usare la normativa stessa anche come strumento repressivo.
Com’è cambiato nel corso degli anni l’approccio del Governo, e della Cina in generale, alle religioni?
Sino alla fine degli anni ’70 la religione era vietata. Le versioni precedenti alla Costituzione dell’82 non consentivano il proselitismo. Si poteva fare propaganda dell’ateismo, ma non della religione. All’epoca di Mao semplicemente le religioni erano vietate. Il processo di liberalizzazione è stato graduale, è iniziato nel ’79 ed è stato riconosciuto nell’82 con la Costituzione e poi con una normativa successiva e per cui, adesso, l’articolo dice che ognuno ha il diritto di credere o non credere ad una religione. Nonostante sia stata sdoganata come diritto o libertà fondamentale, quella di credere o non credere, le attività di culto sono state molto regolate. Per molti anni c’è stata molta tolleranza nei confronti di alcuni fenomeni religiosi, le cose sono cambiate nel ’99 quando c’è stata la grande repressione della Falun Gong, perché lì il partito ha esplicitato la sua indisponibilità alla formazione di contropoteri spirituali, semmai è il partito stesso che diventa un partito spirituale e non è più il partito marxista, materialistico tradizionale. D’altra parte è stato sempre così, la Cina non conosce contropoteri.