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BAHRAIN. Sotto la maschera, la repressione

Michele Giorgio 28 settembre 2018
Il piccolo arcipelago del Golfo vuole mostrarsi un modello di coesistenza tra fedi ed etnie ma quasi otto anni dopo le proteste di piazza della Perla represse nel sangue, re Hamad bin Isa al Khalifa ha imposto un duro regime che mette a tacere qualsiasi dissenso.

Sfogliare i giornali bahraniti è così rassicurante. Tutto va alla grande, scrivono, nel ‎regno di ‎re Hamad bin Isa al Khalifa. Le donne raggiungono traguardi importanti, ‎gli incontri dei ‎membri della famiglia reale in giro per il mondo sono coronati ‎sempre da successi. Il Bahrain ‎è un modello di coesistenza di fedi ed etnie. Ah, ‎anche l’economia va bene, malgrado il ‎deficit pubblico che i “fratelli” più ricchi ‎sauditi ed emiratini ogni tanto sono chiamati a ‎tamponare con miliardi di dollari.
‎E poi a primavera c’è il Gran Premio di F1 a mettere in ‎vetrina questo minuscolo ‎arcipelago del Golfo, con una superfice di appena 765 kmq. E ‎invece sotto questa ‎maschera di bellezza si nasconde un regime che si è fatto spietato, ‎senza ‎misericordia per gli oppositori, che negli ultimi anni ha attuato una ‎repressione ‎feroce, per spegnere con il pretesto della lotta al terrorismo e alle ‎‎”interferenze” del ‎nemico iraniano qualsiasi espressione di dissenso. Un clima che ‎abbiamo ‎registrato questa settimana durante la nostra breve permanenza nel paese. ‎In ‎Bahrain parlare con i giornalisti stranieri è estremamente pericoloso, chi lo fa ‎rischia ‎l’arresto.
Nel “regno delle meraviglie” dipinto dalla stampa ufficiale anche ‎un tweet poco ‎rispettoso del regime imposto dai regnanti al Khalifa può costare ‎una condanna ad anni di ‎carcere. Per questa ragione siamo tenuti a mantenere ‎rigidamente anomime tutte le ‎nostre fonti e a non identificare in alcun modo le ‎persone che hanno accettato di ‎raccontarci come stanno le cose. Chi scrive ha ‎operato nell’ombra e senza l’accredito ‎giornalistico ufficiale che avrebbe ‎fortemente limitato la possibilità di svolgere un lavoro ‎d’inchiesta.‎
‎ «La stampa libera non esiste, l’unico giornale indipendente, al Wasat, è stato ‎chiuso dalle ‎autorità, i partiti politici d’opposizione, come il socialista Waad e lo ‎sciita al Wefaq, sono stati ‎sciolti e i loro leader incarcerati o costretti a vivere come ‎reclusi nelle loro abitazioni. Uno di ‎questi è Ebrahim Sharif (Waad). I difensori ‎dei diritti umani hanno subito la stessa sorte. ‎Uno di loro Nabeel Rajab, noti anche ‎all’estero, è stato condannato (a inizio anno, ndr) a ‎cinque anni di carcere perché ‎nei suoi tweet aveva criticato la monarchia e perché, secondo ‎la corte, aveva ‎diffamato il Bahrain denunciando detenzioni arbitrarie, torture e altri gravi ‎abusi. ‎E si viene arrestati anche se si criticano l’Arabia saudita e altri paesi arabi», ci ‎riferisce ‎un dirigente politico che ha pagato con la prigione la “colpa” di aver ‎avviato in passato una ‎campagna, assieme ai suoi compagni di partito, per ‎trasformare la monarchia assoluta in ‎costituzionale e per l’istituzione di un ‎parlamento vero, al posto di quello esistente in cui la ‎Camera bassa eletta non ha ‎alcun potere ed è soggetta al consiglio consultivo con membri ‎nominati dal re.
«In ‎questo paese – aggiunge il nostro interlocutore – una minoranza, quella ‎sunnita ‎alla quale appartiene la famiglia reale, ha il controllo di quasi tutto in politica ‎ed ‎economia, mentre gli sciiti, la maggioranza della popolazione, sono dei cittadini ‎di ‎secondo livello».Tuttavia, precisa il dirigente politico, «in Bahrain non è in corso ‎un ‎conflitto di natura religiosa come afferma il regime. Gli sciiti lottano insieme a ‎non pochi ‎sunniti per l’uguaglianza e la democrazia sin dagli anni ’90 e l’hanno ‎sempre fatto sempre in ‎modo pacifico, prima e dopo piazza della Perla». ‎
‎In quella piazza, che non esiste più perché distrutta per ordine di re Hamad, il 17 ‎febbraio ‎del 2011, seguendo l’esempio degli egiziani accampati in piazza Tahrir, i ‎bahraniti issarono ‎una campo di tende. La prima reazione del regime fu dura: 4 ‎morti e diversi feriti. Poi per ‎un mese la situazione restò relativamente tranquilla ‎con qualche scontro e tafferuglio solo ‎nei centri abitati più popolari. Piazza della ‎Perla divenne un laboratorio di idee e il motore di ‎manifestazioni pacifiche con ‎migliaia di persone. Il re, dopo aver dato qualche timido ‎segnale di disponibilità, ‎chiese improvvisamente l’intervento dello “Scudo del Golfo”, ‎l’alleanza difensiva ‎delle petromonarchie, e i soldati inviati dall’Arabia saudita e dagli Emirati ‎diedero ‎alle forze di sicurezza bahranite l’appoggio necessario per spegnere nel sangue ‎il ‎momento più alto di una possibile costruzione di un Bahrain, diverso e ‎democratico. I ‎morti furono decine, gli arrestati centinaia. I militari entrarono ‎anche negli ospedali per ‎catturare i manifestanti feriti. Negli anni successivi si ‎sono avviati tavoli di trattative, veri e ‎presunti, ma il re ha poi eliminato ogni ‎spazio al dialogo e aggravato la repressione al punto ‎da dichiarare illegale ‎qualsiasi forma di opposizione, sia che fosse un partito, un mezzo ‎d’informazione ‎o una semplice associazione. Il semplice dissenso è stato fatto passare ‎come «una ‎espressione dei tentativi dell’Iran di destabilizzare il regno». ‎
‎ Chi ci aiuta si dice «che almeno 800 oppositori, tutti sciiti, si sono visti ‎revocare la ‎cittadinanza e oggi vivono una condizione estremamente difficile ‎assieme alle loro famiglie, ‎perché privati di qualsiasi diritto». Al contrario le ‎autorità hanno concesso la cittadinanza a ‎migliaia di stranieri – quasi tutti arabi e ‎pakistani, tra i quali non pochi mercenari entrati ‎nelle forze di sicurezza – per ‎favorire l’aumento del numero dei sunniti. Decine di ‎oppositori sono in esilio, tra i ‎quali Zeinab al Khawaja, figlia del direttore del centro per i ‎diritti umani del Golfo ‎Abdel Hadi al Khawaja, detenuto da anni. Una donna ci ha raccontato ‎di essere ‎stata torturata. «Hanno usato contro di me torture fisiche e psicologiche, mi ‎hanno ‎umiliata, sbeffeggiata, minacciata di violenza carnale. Mi chiamavano ‘cagna’. Ma ‎agli ‎uomini incarcerati va persino peggio». Un giornalista ci descrive un clima di ‎terrore ‎nell’informazione. «Siamo nel panico, si possono riferire solo le notizie ‎ufficiali, quelle ‎contro l’Iran, di sport e di costume. Tutto il resto è vietato, chi ‎sgarra come minimo perde ‎l’accredito stampa e il posto di lavoro». Dopo i laici il ‎regime ha incarcerato anche i leader ‎religiosi, incluso il leader spirituale degli ‎sciiti, lo sceicco Ali Qassem, arrestato circa due anni ‎fa al termine di un assedio ‎delle forze di sicurezza al suo villaggio, Diraz, costato la vita a ‎cinque giovani ‎manifestanti. «Le elezioni, legislative e municipali, previste il 24 ‎novembre, ‎saranno una farsa – aggiunge il giornalista – solo con candidati in linea con ‎la ‎monarchia». Re Hamad, oltre alla “protezione” dell’Arabia saudita, ha dalla sua ‎parte ‎l’Amministrazione Trump – il Bahrain ospita nella località di Juffair, la V ‎Flotta americana – ‎che garantisce un appoggio pieno alle sue politiche «contro le ‎pericolose ingerenze ‎dell’Iran». E la recente apertura nell’isola di una nuova base ‎britannica fa tacere anche ‎Londra.‎
‎ I centri abitati periferici, quelli sciiti, sembrano città fantasma. Pochi girano in ‎strada, la ‎tensione è palpabile. Sui muri ci sono slogan contro la monarchia e chi li ‎scrive rischia pene ‎severe. In queste aree scoppiano ancora proteste con lanci di ‎sassi contro la polizia. Ma le ‎forze di sicurezza hanno schiantato la resistenza ‎pacifica, aprendo probabilmente la strada ‎ad altre forme di lotta. I giovani ‎bahraniti ormai guardano con crescente scetticismo ‎all’opposizione tradizionale ‎che per anni ha creduto, fallendo, di poter strappare un ‎accordo a un re che non ‎vuole concedere nulla. Nella notte di lunedì scorso, esercito e ‎polizia hanno ‎condotto una maxi operazione – 169 arresti – contro una presunta ‎organizzazione ‎simile al movimento sciita libanese Hezbollah. Si sono vissute ore di panico ‎tra gli ‎oppositori ancora in libertà. In quel clima di tensione e paura la presenza di ‎un ‎giornalista italiano non accreditato ufficialmente ha accresciuto i rischi per le ‎persone ‎che avevano accettato di rispondere alle nostre domande. Per ‎salvaguardarle, su loro ‎richiesta, abbiamo lasciato subito il Bahrain.