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Solo la cultura può salvarci dal razzismo

Michele Stefanile 29/08/2018
“Fessi gli etnologi che credono basti accostare le masse alle varie culture del passato – e del presente – per avvezzarle a capire e tollerare e uscire dal razzismo, dal nazionalismo, dall’intolleranza. Le passioni collettive sono mosse da esigenze d’interessi che si travestono di miti razziali e nazionali. E gli interessi non si cancellano”.

Lo scriveva, in un appunto del 1946, Cesare Pavese (Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, Milano 1952), lo ha ripreso, con un colto cinguettio su Twitter, Einaudi editore: una riflessione che stupisce per la sua attualità, dopo quasi tre quarti di secolo.
Nell’era della Rete, che regala a tutti l’illusione di un istantaneo accesso via browser alla cultura globale, e che paradossalmente (o forse no) genera orde di incolti convinti di avere in tasca, sulla scrivania, e nella propria testa, gli strumenti per spaziare dall’immunologia al diritto, dalla meccanica dei terremoti alle scienze delle costruzioni, può avere ancora un senso richiamare le lezioni della storia per smontare in quattro e quattr’otto i più recenti rigurgiti razzisti, le deliranti corse al presidio delle frontiere, le sconclusionate patenti di ‘italianità’ e le dolenti nostalgie per chi fermava gli invasori sul bagnasciuga?
Servirebbe a qualcosa raccontare del sogno universale di Alessandro Magno, o degli ingredienti della grandezza di Roma antica o dei moderni Stati Uniti d’America, fondati su integrazione, accoglienza e multiculturalismo? Riprendere le mille storie in cui dall’ibridazione culturale sono nati progresso e scatti di civiltà? Ci si dovrebbe forse dar da fare per diffondere in rete e rendere virale il discorso pronunciato dall’imperatore Claudio nel 48 d.C., per l’ingresso dei Galli (stranieri, e anche vecchi, incalliti nemici) nel Senato di Roma: uno straordinario manifesto di apertura e universalismo, di cui la storia ha più volte dimenticato, con esiti disastrosi, i principi. Ma con quali risultati?
Forse è tardi: se le sorti degli Stati (come ha dimostrato la Brexit, e come dimostrano i fatti di questi mesi) si decidono inuna comunicazione tarata sull’attuale livello di attenzione(140 caratteri, cinque righe e una bella foto, trenta secondi di video e uno slogan tagliente), non c’è più molto spazio per l’approfondimento di temi complessi; troppo più facile agitare l’antico spettro dell’uomo nero e paventare il fantasma dell’invasione (frutto di una percezione fortemente distorta, come gli studi, per chi li legge, dimostrano), o raccontare in giro che i 177 eritrei della Diciotti non cercano disperatamente salvezza (peraltro quasi certamente utilizzando l’Italia solo come corridoio di passaggio verso l’Europa settentrionale) ma fanno parte di un oscuro progetto di sostituzione razziale, con lo scopo di piantar minareti sulle nostre antiche chiese, e di inquinare la nostra razza italiana (a proposito: quale sarebbe?).
Se al dramma di migliaia di esseri umani stretti tra l’impossibilità di resistere nei loro paesi d’origine senza diritti, la tortura fisica dei centri di detenzione, l’orrore di una traversata d’alto mare su gommoni sgonfi e sovraccarichi e i ricatti della politica nostrana, all’Europa (cioè a noi stessi) e alle nostre coscienze, si risponde con l’ipersemplificazione del nulla, con gli attacchi ai simboli della minaccia fantasma (il PD, la Boldrini, le ONG) e con incommentabili fesserie a un tanto al chilo (“pidioti buonisti!” “antitaliani” “metteteli a casa vostra” “prima gli italiani”), la cultura può fare ormai davvero poco.
Eppure, solo la cultura -cosa, altrimenti?- ci può salvare. Insegnanti tolleranti che insegnino tolleranza, maestre che infondano empatia e rispetto della vita ai più piccini, docenti motivati che forniscano ai nostri figli le chiavi per vivere nel mondo di domani; abbiamo bisogno di giovani che rispondano con Servizio Civile, Erasmus e Leonardo a chi propone un ritorno alla leva obbligatoria per raddrizzare gli italici virgulti. Abbiamo bisogno di rispiegare il senso dell’Europa, del lavoro, della dignità umana. Perché quegli interessi che si travestono da miti razziali e nazionali effettivamente non si cancellano. Ma si possono arginare.