General

ROJAVA. Jinwar, il villaggio delle donne

Carla Centioni 8 agosto 2018
Si trova nel Rojava, nel Cantone di Cizire, vicino alla città di Dirbèsiyè.

Jinwar in curdo vuole dire donna/luogo di nascita/origine. Nel villaggio donne si riappropriano di quella storia che per secoli gli uomini hanno nascosto. Il patriarcato è stato nemico dell’umanità perché ha creato la più ancestrale negazione: da sempre la donna è stata amica della terra, parte attiva nel lavoro e nel raccolto come nella cura della prole e della comunità.

Il villaggio delle donne si fonda sul pensiero rivoluzionario e sulla pratica reale: lo visitiamo mentre siamo in missione nel Rojava, in occasione dell’ inaugurazione della Casa delle Donne a Kobane a fine giugno. E’ un luogo dove mettono insieme le energie e i saperi; le donne portano avanti un processo di auto-organizzazione, vogliono determinare il loro destino sulla base della Jineoloji, libere dalla mentalità patriarcale.
In quest’ultima missione di giugno 2018 in occasione dell’inaugurazione e consegna della Casa delle donne alle Kongra Star (organismo che gestirà la Casa) è stato possibile visitarla. Arrivata al villaggio Jinwar, ci accoglie Nuijn una ragazza tedesca di 27 anni membro del comitato costitutivo del villaggio: “Saputo di questa esperienza – ci dice – non ho resistito, sono voluta venire nel Rojava per dare il mio contributo, ma soprattutto imparare, mi trovo qui da un anno e mezzo”.
Mentre Nuijn ci accoglie sotto una pergola e ci fa sedere su una panca offrendoci un bicchiere di acqua e un poco di anguria per rifrescarci dai 40 gradi, ascolto ciò che ci dice ma nello stesso tempo i miei occhi sono curiosi e guardano intorno, le domande da fare sono troppe, come anche il piacere di essere in quel luogo. “Vogliamo cambiare il mondo, lo stiamo facendo, in questo villaggio i diritti sono uguali per tutti, per questo la sperimentazione di Jinwar è molto importante per noi – prosegue – L’idea nasce nel 2015 volevamo costruire un luogo con le nostre stesse mani”.
Nel 2016 si formò il comitato in cui erano rappresentate le diverse associazioni femminili del Rojava, il cui obiettivo era sancire i principi sulla base dei quali un’esperienza di tale portata avrebbe avuto vita. Il 25 novembre dello stesso anno, nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne, nel corso di una conferenza stampa è stata data la notizia del progetto.
Il corpo centrale del villaggio dove stiamo conversando è uno spazio comune, le pareti sono disegnate e riportano simbologie femminili. Si aggiunge a noi una giovane ragazza olandese che come Nuijn si trova lì per lo stesso interesse: “Il sogno è realizzare una società senza denaro, possiamo organizzare un sistema di baratto con i paesi vicini, vogliamo produrre i beni necessari ai nostri bisogni, raccoglierli e mangiarli tutte insieme”.
Ci spiega che vogliono vivere in modo ecologico nel rispetto della natura, quindi il rapporto con essa diventa elemento centrale: “Lavorare con la natura, con la terra, significa viverla come fonte di evoluzione”.
In lontananza un gruppo di donne e uomini con stivaloni che con i piedi fanno un impasto fatto di grano e fango, con una carriola trasportano l’impasto ad altre donne che lo mettono dentro ad una forma rettangolare e poi al sole ad asciugare. Vedo montagne di mattoni, pronti per essere messi in opera. Al momento hanno costruito 30 case, in fondo, di fronte a noi vedo in fase di costruzione una scuola e una Akademia dove le donne faranno corsi di vario genere tra i quali medicina naturale. Sono state previste anche una casa per il comitato di sanità, magazzini per i prodotti agricoli.
Ci fanno visitare il villaggio, entriamo nelle case, semplici ma confortevoli, tappeti in terra, soffitti fatti con travi di legno un quadro appeso riporta con una scritta: una vita giusta non può essere vissuta in una società sbagliata ma la giusta lotta può essere combattuta ovunque i sistemi di dominazione opprimano le persone.
Torniamo sotto la pergola, una donna dal viso sereno porta altra acqua e ci regala sorrisi. Nuijn ci dice che lei ha nove figli, non vive nel villaggio ma viene ogni mattina. Finita la scuola la raggiungono i figli, infine il marito, la sera poi tornano a casa tutti insieme. Lei fa parte del comitato del villaggio, come molte altre donne che fanno richiesta ma ha deciso di vivere con la famiglia.
A Jinwar, ci spiega Nuijn, si vuole sperimentare una nuova idea di relazioni anche e non solo nell’ambito del rapporto di coppia, che contemplino la scelta da parte della donna di un modello di vita indipendente, al di là di sentimenti e obblighi, che metta al centro i termini di una società libera da costruire. Prosegue dicendo gli uomini sono i ben venuti, questo villaggio non è né intende diventare un luogo di isolamento dal mondo, un luogo chiuso per sole donne. Ma gli uomini non dormiranno nel villaggio né tantomeno avranno ruoli organizzativi, le donne tutte insieme decideremo come governarsi.
Penso a quante donne nel mondo vorrebbero fare questa esperienza, penso all’Italia, alle donne che subiscono violenza, alle donne rifugiate, alle lesbiche, alle nere a tutte le donne discriminate nel nostro ‘civile’ occidente’.
Faccio un’ultima domanda mentre siamo in piedi e chiedo quale sono i criteri di accoglienza: Nuijn risponde dicendo che non saranno ospitate solo donne che subiscono maltrattamenti ma tutte le donne che vogliono costruire spazi di libertà, continueremo a costruire villaggi di donne la creazione di una società nuova è possibile solo attraverso la trasformazione della persona.