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«L’accademia libera fa paura: toglie al regime il monopolio dell’informazione»

Chiara Cruciati 29 agosto 2018
Intervista al professore egiziano alla Cambridge University, Khaled Fahmy: «Giulio Regeni non faceva nulla di illegale. Il suo era uno studio delicato, ma non più di altri. E mai era accaduta una cosa simile: gli attacchi all’ateneo servono solo a distogliere l’attenzione».

Oggi cadono 31 mesi dalla scomparsa dal Cairo di Giulio Regeni. Il 25 gennaio 2016 il ricercatore italiano veniva rapito in una capitale blindata: era il quinto anniversario della rivoluzione di Piazza Tahrir.
Due giorni fa 200 accademici britannici hanno fatto appello al loro paese e alle università perché non stringano accordi di cooperazione con il regime egiziano, senza che si sia aperto un varco nel muro di gomma su cui da due anni e mezzo rimbalzano le richieste di verità per l’uccisione di Regeni.
Un muro di gomma su cui rimbalza anche la situazione interna dell’Egitto, dei suoi giovani, degli studenti, dei professori. Ne abbiamo discusso con Khaled Fahmy, professore egiziano di studi arabi moderni alla Cambridge University, dal 2010 al 2013 docente all’American University del Cairo e membro dell’Association for Freedom of Thought and Expression, con sede in Egitto.
Lei ha studiato e insegnato in Egitto. Può spiegarci i limiti nel lavoro di ricerca e le ragioni dello stretto controllo da parte delle autorità egiziane?
Fare ricerca sul campo è difficile, lo è sempre stato. Le autorità egiziane non rispettano la libertà accademica, in particolare quella legata alle scienze sociali e umanistiche. Dagli anni ’60 è difficile condurre interviste, fare ricerca storica e antropologica. Il ricercatore è guardato con sospetto perché il suo lavoro contraddice la natura stessa dello Stato egiziano, uno Stato militare e di intelligence, retto dai servizi. Lo Stato opera con le armi e i carri armati, ma anche e soprattutto attraverso la raccolta e la diffusione di informazioni. Ricerca accademica e giornalismo sfidano il cuore di questo potere, il monopolio della raccolta e la diffusione di informazioni. Per questo nei loro confronti c’è sospetto, se non ostilità.
Come si riesce a fare ricerca?
Attraverso la richiesta di permessi. Le autorità considerano i ricercatori dei soggetti sospetti, se egiziani; se stranieri, li considerano delle spie. Dunque per poter accedere, ad esempio, all’Archivio nazionale servono dei permessi dalla sicurezza, e non dal ministero dell’Educazione. Ci vogliono mesi, a volte anni, per ottenerli: durante questo periodo i servizi svolgono indagini sul ricercatore e sull’oggetto del suo lavoro. Oggi ottenere tali permessi è difficilissimo. Per questo da sempre si opera attraverso ricerche sul campo, cercando di essere prudenti e senza mai mentire. Dalla nostra abbiamo la legge: la costituzione e la legge interna non vietano la ricerca, anzi la proteggono.
Il professore Khaled Fahmy
Lei ha fatto da supervisore a studenti stranieri in Egitto. In Italia si è molto discusso della questione, il governo e una parte della stampa hanno attaccato Cambridge definendola responsabile della morte di Giulio e spostando l’attenzione dal Cairo.
Giulio non stava facendo nulla di illegale, non stava violando la legge egiziana. Come dicevo, è la costituzione stessa che tutela la libertà accademica e diverse leggi impegnano il governo a proteggerla. La sua era una ricerca delicata, ma non più di altre: ho fatto da supervisore per ricerche simili, ho studenti che hanno lavorato sui Fratelli Musulmani, sulle mutilazioni genitali femminili, sulla storia della polizia. Io stesso ho condotto una ricerca sulla storia dell’esercito. Non è stato facile, ma è stato pienamente legale.
Detto questo, nessuno mai si sarebbe immaginato una cosa simile: nel caso di studenti egiziani, accade che vengano convocati, interrogati, minacciati; nel caso di stranieri che gli venga revocato il visto e vengano deportati. È successo anche a dei miei studenti. Ma mai e poi mai avremmo potuto immaginare che uno studente straniero venisse rapito, torturato e ucciso. Penso che la campagna contro Cambridge sia una mossa deliberata del governo italiano e della stampa per distogliere l’attenzione dai rapporti che Roma continua ad avere con l’Egitto.
Tornando all’Egitto, gli ultimi anni hanno visto una stretta nei confronti dei campus universitari: arresti, processi in corti militari, compagnie di sicurezza private che li pattugliano. Qual è lo stato della libertà accademica nel paese?
La situazione è cupa. E diversa dal passato: sotto Mubarak condizione a promozione e libertà di ricerca era la vicinanza al partito, per non avere problemi con le autorità. Oggi non c’è più un partito di governo, al-Sisi non ne ha uno, ma governa attraversa i servizi di intelligence. Che sono presenti anche nei campus, insieme a compagnie private come i Falcon. Così se un professore vuole viaggiare all’estero, deve ricevere l’autorizzazione. Ogni meeting privato nell’ufficio di un docente deve ricevere l’autorizzazione. Ogni evento pubblico deve essere autorizzato. Ogni lezione è monitorata. Una mania di controllo su ogni possibile voce di opposizione o di semplice critica.
La lettera dei 200 accademici britannici può avere effetto su una tale situazione?
La lettera è importante: dice a tutto il mondo che in Egitto i professori non sono liberi di lavorare, di partecipare a conferenze, di viaggiare all’estero. E chiede trasparenza. Dovremmo batterci perché l’Egitto introduca il visto per studio, come accade in tutto il mondo. Un piccolo passo per garantire maggiore protezione allo studente e al ricercatore, perché toglie ai «controllori» la scusa del controllo. Dobbiamo continuare a combattere per la libertà d’espressione.