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ARABIA SAUDITA. Donna, attivista e sciita: Riyadh vuole la testa di Israa

Chiara Cruciati 23 agosto 2018
Chiesta la condanna a morte per una delle leader delle proteste del 2011, lanciate dalla minoranza marginalizzata. Il verdetto tra due mesi. Al-Ghomgham rappresenta da sola tutti i peggiori incubi della petromonarchia.

Un anno fa, nell’agosto 2017, i bulldozer militari di Riyadh facevano il loro tetro ingresso ad Awamiyah: dopo un lungo assedio, la città orientale sciita finiva in macerie. Lo storico quartiere di Almosara veniva demolito, centinaia di famiglie erano costrette alla fuga, a tante altre venivano confiscate le proprietà. All’epoca si parlò di 20mila sfollati su un totale di 30mila residenti.
Così la monarchia puniva la regione di Qatif, sciita in un paese a maggioranza sunnita. Una punizione collettiva per le proteste che riemergono continuamente nella comunità che chiede il rispetto dei propri diritti politici ed economici: l’ultima campagna militare contro il Qatif iniziò a maggio 2017 per concludersi, nel sangue dei manifestanti uccisi e le macerie delle case, l’agosto successivo.
Un anno e mezzo prima, il 2 gennaio 2016, l’imam sciita Nimr al-Nimr (originario di Awamiyah) veniva decapitato con altri 46 prigionieri, accusati di terrorismo e legami con l’Iran.
Ora una sorte simile potrebbe toccare alla giovane attivista sciita Israa al-Ghomgham: considerata tra le leader delle proteste sciite del 2011, represse dalla petromonarchia (che non ha mai prestato orecchio alle legittime richieste sciite di integrazione socio-economica, riconoscimento dei diritti politici e rilascio dei prigionieri) rischia la pena di morte.
La prima attivista su cui pesa una condanna simile. Ventinove anni, in prigione dal 2015 insieme al marito Moussa al-Hashem con l’accusa di proteste anti-governative, Israa è apparsa due settimane fa di fronte alla Corte penale specializzata in casi di terrorismo. Per lei, per il marito e per altri tre indagati, il procuratore ha chiesto la pena di morte. Il verdetto sarà reso noto tra due mesi, il 28 ottobre. Poi il caso passerà a re Salman, chiamato a ratificare o meno la sentenza.
Immediata si è sollevata la protesta delle organizzazioni per i diritti umani. L’European Saudi Organisation for Human Rights definisce l’eventuale condanna a morte di Israa al-Ghomgham «un pericoloso precedente» per gli attivisti: mai, fino a oggi, un attivista politico riconosciuto come tale è stato giustiziato.
Israa racchiude nella sua figura tutti i peggiori incubi della medievale monarchia saudita: è donna, è sciita, è un’attivista politica, in un regno in cui le donne sono tuttora considerate cittadine di serie B, incapaci di decidere per sé, e dove ogni minoranza, che sia religiosa (lo sciismo) o politica e sociale (lavoratori migranti, oppositori) è perseguitata con ferocia, etichettata come minaccia all’apparentemente monolitico patriarcato di Stato.
Alza la voce anche Human Rights Watch che sottolinea come i cinque imputati non siano accusati di alcun crimine violento, ma solo di aver manifestato e gridato slogan. Israa non è sola: al momento sono 58 i prigionieri nel braccio della morte.
Un numero che fa di Riyadh il terzo paese al mondo per esecuzioni capitali: 65 quelle già eseguite nel 2018, 146 nel 2017, 153 nel 2016, 158 nel 2015. Un bilancio che nega da solo ogni sforzo propagandistico dell’erede al trono Mohammed bin Salman e delle sue presunte (e osannate) riforme democratiche.