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Quella presenza turca che inquieta il Medioriente Erdogan vuole inserirsi nella questione palestinese: come mai?

Gianmarco
Cenci, L’Indro, 2 luglio 2018

La
notizia, riportata da varie testate medio-orientali, è stata lanciata dal quotidiano
israeliano Haaretz
, secondo cui fonti arabe, giordane e palestinesi
avrebbero segnalato a Israele della sempre più preoccupante e consistente
presenza turca a Gerusalemme Est.

Secondo
il giornale, si stanno registrando con sempre maggior frequenza degli ingressi
turchi nella città, attraverso l’acquisto di proprietà immobiliari, donazioni
alle organizzazioni culturali islamiche della città e la partecipazione alle
proteste del Monte del Tempio da parte di gruppi di attivisti turchi. Non si
tratta dunque di un ingresso diretto all’interno dei confini della città di
Gerusalemme, ma, attraverso queste mosse, il Governo di Erdogan mira a
ingrossare e a consolidare la propria presenza sul territorio. Non è una mossa
fine a se stessa, ovviamente: l’obiettivo ultimo di Erdogan è quello di
inserirsi all’interno della questione palestinese e presentarsi, a questi
ultimi, come loro difensore, al fine di diventare un importante attore in
questo scenario.
I precari
e mai raggiunti equilibri della regione, tuttavia, fanno temere coloro che in
questo scenario sono invischiati da anni e da altrettanto tempo provano, senza
grande successo, a venirne a capo. Giordani, palestinesi e sauditi temono più
di tutti che un nuovo attore possa compromettere il faticoso percorso
intrapreso negli ultimi tempi. Che cosa sta realmente succedendo in quella zona
del mondo e come la Turchia potrebbe inserirsi in questo difficile contesto? Lo
abbiamo chiesto a Eugenio Dacrema, analista Ispi.
Come
intende inserirsi Erdogan all’interno della questione palestinese?
La
leadership palestinese autoctona è in crisi profonda da anni, lasciando così
spazio per inserimenti esterni. La lotta per la causa palestinese, verso gli
anni ’50-‘60, è stata intestata da potenze straniere, come l’Egitto di Nasser:
dopo il fallimento di queste, si conobbe una crescita di una leadership
interna, facente riferimento a Fatah, che aveva preso in mano la gestione di
questa lotta. Con la crisi dell’ultimo periodo, c’è ora spazio per nuovi
inserimenti, che possono essere sia interni, con la formazione di nuove fazioni
palestinesi – ma al momento non si vede molto – o esterne, con nuove potenze
straniere. Ed è proprio questo che sta tentando di fare la Turchia. In un primo
momento, questo inserimento in questo scenario fu accolto in maniera
sostanzialmente favorevole (anche se non unanimemente): per esempio, quando
Erdogan contestò lo spostamento della sede diplomatica americana a Gerusalemme,
la Giordania raccolse il messaggio del Presidente turco. Oggi, però, appare
chiaro che Erdogan non voglia limitarsi a sostenere la causa palestinese, ma
intenda anche espandere l’influenza turca su tutta la West Bank, cercando di
conquistarsi una presenza stabile in loco e una rete di affiliazioni. La
proiezione internazionale neo-ottomana di Erdogan, che ha portato prima a
intestarsi la causa dell’opposizione siriana e ora quella anti-israeliana, mira
a sabotare il piano statunitense/saudita di risoluzione del conflitto.
Erdogan è
estremamente popolare, specialmente nella West Bank, come dimostrano le
manifestazioni di sostegno al Presidente turco dopo la vittoria
alle recenti elezioni
. Anche i partiti consolidati hanno espresso la
propria soddisfazione per il successo di Erdogan, dovendo considerare quanto
egli sia popolare fra la gente. Tuttavia, i partiti esprimono anche una sorta
di disagio per questa situazione: dopo le congratulazioni, sono arrivate anche
timide prese di distanza, per smontare una figura così popolare fra l’opinione
pubblica.
La
posizione odierna della Giordania, invece, è fortemente antiturca: secondo gli
accordi del ’94, firmati dall’allora re Hassan e dalle autorità israeliane
affidavano alla Giordania il ruolo di protettori dei luoghi sacri di
Gerusalemme. Per questa ragione, nonostante la vicinanza della Giordania a
Stati Uniti e Arabia Saudita, il re di Giordania, Abdallah, ha protestato
fortemente contro lo spostamento della sede diplomatica americana e si è recato
in Turchia per unirsi alla protesta. A tal proposito, gira una leggenda: il re
era a Riyadh in quei giorni e si dice che il principe ereditario bin Salman
volesse impedirgli di tornare in patria, come fece con il primo ministro
Hariri. Recentemente, la Giordania è stata attraversata da una grandissima
ondata di proteste per la crisi dell’occupazione e ha ricevuto un sostegno
economico di 2,5 miliardi di dollari dall’Arabia Saudita: è facile pensare che,
con questo ‘assegno’, bin Salman abbia comprato la compiacenza giordana al piano
americano/saudita della risoluzione del conflitto palestinese. Quindi si
indebolisce, fino a spezzarsi, il sostegno giordano alla Turchia.
Qual è la
posizione di Israele?
L’inserimento
turco, allo stato attuale, non può che giovare a Israele, poiché va a dividere
e indebolire un fronte già di suo debole e diviso. A meno che quello turco non
diventi il fronte egemone nell’opposizione anti-israeliana, a Israele conviene
che il fronte si divida ancora di più, rendendolo un interlocutore ancora più
debole.
Come
potrebbero cambiare gli equilibri regionali con l’ingresso della Turchia?
È molto
difficile prevedere se e come cambieranno gli equilibri regionali in caso di
prevalenza turca e, a parer mio, non si potrà dire prima di qualche anno. I
palestinesi hanno deciso di prendere nelle proprie mani il proprio destino
quando hanno capito che, affidandosi alle grandi potenze (come Nasser),
sarebbero rimasti sempre delle pedine nel grande gioco delle strategie
diplomatiche e politiche. E la stessa cosa vuole fare Erdogan, come peraltro ha
già fatto in Siria: entrare nei conflitti per proprio tornaconto personale.
Nell’opinione pubblica Erdogan è vissuto, al momento, come colui che è in grado
di risolvere la questione, secondo quella dinamica tutta mediterranea del ‘papa
straniero’. Passato l’entusiasmo, si capirà che anche Erdogan, non diversamente
da quanto fatto da Putin in Siria, vorrà intestarsi la difesa degli interessi
palestinesi per un proprio calcolo politico.
Inoltre,
i prossimi mesi saranno critici per la Turchia, perché lo stato economico è
drammatico e finora ha retto grazie a un gioco di equilibri prossimi a
spezzarsi, per cui, nell’immediato futuro, Erdogan avrà ben altre
preoccupazioni che lo terranno lontano dalla questione palestinese.
Per quali
ragioni la mossa di Erdogan potrebbe ritorcersigli contro?
Non ci
sono controindicazioni da un punto di vista economico per Erdogan: non è un
investimento economico improbo per la Turchia, trattandosi di un territorio,
quello palestinese, piccolo e disperato. Neanche da un punto di vista
geopolitico lo sforzo è eccessivo: diversamente dalla Russia, che si è andata a
impelagare in Siria
e che alla lunga pagherà il fatto di non essere, geograficamente, vicino al
teatro del conflitto, la Turchia si trova lì e svolge, per natura, un ruolo di
potenza regionale. Personalmente dubito del fatto che questa strategia si potrà
realizzare, ma da un punto di vista politico-diplomatico, poter contare su una
pedina come quella della questione palestinese è un’idea molto intelligente per
la Turchia. Come detto, dubito che riuscirà a portarla a termine, prima di
tutto perché è difficile che gli altri attori coinvolti glielo lascino fare e
poi perché la Turchia non è uno Stato arabo e questa sua diversità può esserle
di impedimento. La storia dell’imperialismo turco non è ancora stata
dimenticata e la comune identità religiosa non basta.
La
Turchia vuole porsi come giocatore di primo piano sul tavolo contro l’Arabia
Saudita e avere nella propria mano la questione palestinese significherebbe
poter contare su più fiches. Funziona così: poter contare su queste pedina
permetterebbe alla Turchia di avere un peso maggiore al tavolo dei negoziati
con Israele e Arabia Saudita. Chiaramente, è un’ottima idea per le strategie
politiche turche, ma affidarsi a Erdogan per risolvere la questione potrebbe
rivelarsi dannoso per i palestinesi, che tornerebbero a essere merce di scambio
del grande gioco delle potenze straniere.
Questo
nuovo fronte avrà ripercussioni in Siria?
Non
dovrebbe avere ripercussioni dirette, ma, se Erdogan si presenta come difensore
degli interessi palestinesi, potrebbe ricevere una forte ondata di sostegno fra
i ribelli siriani, mettendo in difficoltà Assad, che si presenta come
anti-imperialista. Se Erdogan difende i palestinesi, da un punto di vista
propagandistico si dimostrerebbe ancora più anti-imperialista di Assad. È un
dato secondario, ovviamente. Si può dire che, come fece Putin, Erdogan apre due
tavoli sui quali giocare: quello siriano e quello palestinese. Le due vicende
non dovrebbero influenzarsi a vicenda, ma sono parte di una strategia unitaria
della Turchia.
A
dicembre, con lo spostamento della sede diplomatica americana a Gerusalemme, si
parlò di un piano per la risoluzione della questione palestinese. L’ingresso di
Erdogan va a inficiare questo piano?
Il
problema dei sauditi con Erdogan è che questo inserimento va a danneggiare la realizzazione
del piano
che hanno concordato con gli Stati Uniti per la
risoluzione della questione palestinese. Il primo step era lo spostamento della
sede diplomatica a Gerusalemme, quelli successivi, al momento, sono solo
rumours, benché molto solidi. Il piano vero e proprio dovrebbe essere lanciato
nelle prossime settimane: il punto chiave della faccenda, a parere mio, rimane
quello dei campi palestinesi a est, specialmente in Libano. È un piano che
appare velleitario e ingiusto, a quanto si può sapere, ma, per come è cambiata
l’opinione pubblica palestinese negli anni, la mia impressione è che non è così
assurdo che i palestinesi rinuncino alle loro pretese territoriali in cambio di
una stabilizzazione: le nuove generazioni sono bloccate, la disoccupazione è
alle stelle e le prospettive di crescita sono, al momento, pressoché nulle. Gli
slogan, vecchi di decenni, non hanno mai portato a nulla: ecco che il piano,
giovandosi dei vari cambiamenti di orientamento dell’opinione pubblica
palestinese, potrebbe trovare un terreno fertile alla sua realizzazione.
Tuttavia, l’inserimento turco può dare l’illusione di un’alternativa migliore
di quella proposta dai sauditi e dagli americani, può complicare i piani.
Nell’immediato, porterebbe ad alzare la posta: ora, i palestinesi, potrebbero
richiedere condizioni più vantaggiose. Perché, a parere mio, il grosso step
riguarda i campi palestinesi: il punto nodale rimane il diritto al ritorno dei
palestinesi. Le altre questioni aperte (quella di Gerusalemme o dei confini del
’67) sono importanti, ma secondarie, perché, di fatto, già decise e,
semplicemente, in attesa di essere confermate da un punto di vista formale. È
una scelta dolorosa, per i palestinesi, ma le cose non si possono cambiare. Il
diritto al ritorno è invece diverso: la sua eliminazione cambierebbe
completamente il paradigma, mutare le prospettive di chi vive nei campi e degli
Stati che li ospitano. Si pensi al Libano, che concederebbe la cittadinanza
agli abitanti dei campi palestinesi, rendendoli cittadini a tutti gli effetti;
si pensi al fatto che questi campi riceverebbero, secondo il piano, pesanti
investimenti da parte americana e saudita, per ravvivare l’economia depressa
dell’area. Da un punto di vista sociologico, inoltre, esistono studi che
indicano come le nuove generazioni tendano a sentirsi abitanti locali e a
perdere, man mano, la propria identità palestinese: stiamo parlando della terza
generazione di palestinesi, che non ha mai vissuto in Palestina. Se passasse
questo punto, la strategia di Erdogan non riuscirà a realizzarsi.