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Migranti a casa loro? Iniziamo restituendogli l’Africa

24 luglio 2018
Negli anni 70 e 80 e fino alla caduta del dittatore Siad Barre nel 1991, l’Università nazionale somala (Uns) era stata un esempio avanzato di politica culturale verso le ex-colonie. 

Era stata fondata nel 1969 allo scopo di formare la futura classe dirigente e tecnica del Paese, indipendente dal 1960. Le lezioni si svolgevano in italiano, giacché la lingua somala non era ancora una lingua scritta, tenute da docenti italiani che trascorrevano un intero semestre nel Paese, con la prospettiva di una progressiva “somalizzazione” della docenza. La rivolta del ’91 e il successivo periodo di instabilità, che dura tuttora, fecero svanire ogni prospettiva siffatta, il campus e i suoi laboratori furono completamente distrutti, si perse quasi ogni traccia.

Ricordo bene la Uns perché, alla fine degli anni 70, in quel campus fu costruito un grande e moderno laboratorio di idraulica, che ospitò il modello fisico in scala della diga di Bardere sul fiume Juba, allora in corso di finanziamento da parte della Banca mondiale(Fig.1).
Il modello era stato costruito dall’Università di Genova, poi verificato nel Politecnico di Milano e, quindi, trasferito e rimontato a Mogadiscio dai nostri tecnici (Fig.2). Era una modalità rivoluzionaria di assistenza allo sviluppo, per l’epoca; e lo sarebbe tuttora.
Perché mi perdo in vecchi ricordi? Tra i nuovi sbarchi – oggetto della grancassa mediatica estiva ma, nei numeri, forse meno consistenti del recente passato – mi ha colpito l’elevato numero di eritrei e somali.
L’Eritrea, patria degli ascari dei Regi corpi truppe coloniali di nostra maestà il Re d’Italia, è stata una nostra colonia dal 1890 al 1947. Oggi, con un pil pro-capite di circa mille dollari è al 160° posto nel mondo in quella classifica. Non se la passerebbe male, meglio di molti stati centro africani. Ad Asmara è tuttora attiva la Scuola italiana, che presenta questa estate un festival del cinema presso “La casa degli Italiani”. Qui la questione non è tanto economica, giacché con mille dollari non si vive da nababbi neppure in Eritrea, ma soprattutto politica. Per contro, la Somalia – colonia italiana dal 1892 al 1950, con un’appendice fino al 1960 – è ultima al mondo, 193°, con circa 400 dollari a testa. Possiamo classificare gli eritrei come migranti politici e i somali come economici? Se si può fare questa distinzione in qualche caso, in questa circostanza si tratterebbe di distinguere il nipotino Qui dal gemello Qua, Huey da Dewey. Un esercizio che non riesce neppure allo zio Donald (Paperino).
Ho già scritto su questo blog che, senza modificare le attuali politiche fatte di sfruttamento minerario e land grabbing, deforestazione e giogo finanziario, discarica ambientale e utilizzo finale degli armamenti, le migrazioni sono destinate a non fermarsi, soprattutto dai Paesi come la Somalia e l’Eritrea, in condizioni sociali e politiche del tutto labili. “Aiutarli a casa loro” è uno slogan molto popolare tra i politici europei, ma lo declinano nei modi meno adatti a stabilizzare la demografia del pianeta.
Gli europei fanno di tutto meno che ciò che davvero servirebbe: restituire dopo secoli l’Africa agli africani, affinché diventino davvero padroni a casa loro, una grande casa (Fig.3). Significa riconsegnare le terre e le acque, rimettere i debiti e riannodare i legami culturali per aiutare i popoli africani a costruire un sistema formativo diffuso in grado di alimentare la propria cultura. Paesi come la Francia potrebbero rinunciare all’obbligo di alcune ex-colonie alla riserva delle banche centrali per il credito in franchi Cfa, con quote dal 65% all’85%, un fattore non irrilevante nel fomentare i colpi di Stato – vera piaga del continente – che si sono verificati per il 60% nell’Africa francofona. Noi italiani potremmo lavorare alla resurrezione del nostro modello di cooperazione che, nonostante il naufragio degli 90 sulle secche della corruzione, ci deve rendere fieri.
La Uns è stata riaperta nel settembre del 2014. Dal suo profilo twitter l’Università annunciò che le lezioni sarebbero state tenute all’inizio solo in inglese ma che in futuro si sarebbe insegnato anche in somalo, arabo e italiano. E il problema più urgente di Mogadiscio è la riattivazione della fognatura (realizzata dalla Coop Edilter di Bologna nel periodo 1985‐1988) e del drenaggio urbano del distretto di Hamar Weyne (realizzato dalla tedesca Sarberg Interplan tra il 1984 e il 1989). Peccato che entrambi i progetti siano scomparsi dagli archivi somali, probabilmente durante una degli episodi di guerriglia che tuttora tormentano quel Paese.