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GAZA. Donne palestinesi sfidano l’esercito: “La resistenza è femminile”

Roberto Prinzi 4 luglio 2018
Migliaia di donne gazawi hanno protestato ieri lungo il confine tra la Striscia di Gaza e Israele nella prima “manifestazione delle donne” da quando sono iniziate le “marce del ritorno” nella Striscia lo scorso 30 marzo. 

Le manifestanti hanno chiesto la fine dell’assedio nella piccola enclave palestinese imposto 11 anni fa da Israele (e di cui è complice, negli ultimi anni, anche l’Egitto) e il diritto a ritornare alle loro terre da cui sono state espulse con la nascita d’Israele del 1948 (furono 750.000 i palestinesi cacciati o costretti alla fuga a causa delle violenze delle brigate sioniste).

Proprio come tutte le altre manifestazioni che stanno avendo luogo nella Striscia ogni venerdì da tre mesi a questa parte, anche ieri la risposta israeliana è stata affidata alle armi: secondo il portavoce del ministero di Gaza, Ashraf al-Qudra, le dimostranti ferite per colpi di arma da fuoco sono state 134. Perché Israele declamerà pure di rispettare i “diritti delle donne” a differenza dei popoli arabi dell’area spesso rappresentati come retrogradi e primitivi, ma il “nemico” è sempre un “nemico” qualunque sia il suo sesso. E come tale va punito se rappresenta una “minaccia”.
Ma alle manifestanti questo non ha fatto paura. “Sono qui per terminare la marcia che mia figlia aveva iniziato” ha detto con orgoglio Rim Abu Irmana che portava con sé una fotografia di sua figlia Wasal, uccisa da una pallottola sparata da un cecchino israeliano lo scorso 14 maggio (quel giorno le vittime palestinesi furono più di 60). “Queste proteste sono pacifiche: difendiamo solo la nostra terra e i nostri diritti” ha aggiunto mentre stringeva la mano del suo giovane figlio.
In una conferenza stampa tenuta a Gaza due giorni fa, l’Alto commissariato nazionale della Grande marcia del ritorno e della rottura dell’assedio aveva invitato le donne a “partecipare in modo massiccio alle proteste”. “Questo evento manda un messaggio chiaro: nessuno può negarci i nostri diritti, specialmente il diritto a ritornare [alle nostre terre] e le nostre richieste di rimuovere l’assedio” aveva chiarito Iktimal Hamad, la presidente del Comitato delle donne.
E così ieri è stato: al confine tra l’enclave claustrofobica, una vera e propria prigione a cielo aperto, e Israele a sfidare l’esercito armato israeliano c’erano tante madri, studentesse, figlie, giornaliste, mogli, sorelle. Ma innanzitutto donne, orgogliosamente donne. Orgogliosamente palestinesi. Una protesta che è l’ennesima dimostrazione di quanto l’islamofoba lettura occidentale che vede le donne arabe, e quelle palestinesi, solo come angeli del focolare, moglii represse e subalterne, vittime perenne di uomini violenti e primitivi, sia errata, viziata da un pregiudizio orientalista quando non proprio coloniale. Ieri, però, non si è scoperto nulla di nuovo: sarebbe bastato seguire con attenzione il movimento popolare gazawi di questi mesi per capire come le donne siano state e siano protagoniste – non meno degli uomini – delle lotte del loro popolo.
“Chi ha detto che le donne non possono lottare efficacemente come gli uomini?” ha sintetizzato la questione la 39enne Suheir Khader. “Siamo cresciute con l’idea che la resistenza è femminile – ha aggiunto – le nostre nonne hanno sempre affiancato i nostri nonni e hanno combattuto durante la Nakba [la “Catastrofe”, ovvero la perdita dalla Palestina storica a seguito della fondazione d’Israele, ndr] e la prima Intifada. Sono qui oggi perché noi donne non stiamo solo sedute a guadare i nostri padri e i nostri mariti mentre vengono uccisi e feriti. E’ nostro dovere lottare con loro”.
Parole che trovano riscontro nei dati del ministero della Salute palestinese: sono state 1.160 le donne ferite in questi mesi di mobilitazioni. Due le vittime, oltre alla manifestante 15enne Wasal ha destato rabbia il caso della 21enne paramedica Razan al-Najjar uccisa al confine mentre lavorava come volontaria per prestare soccorso ai feriti. Donne indomabili in cerca di giustizia per loro e per il loro popolo che non temono la risposta armata israeliana: “Sono rimasta ferita per un lacrimogeno [sparato] al petto durante la terza settimana di protesta” ha raccontato la 25enne Amani al-Najjar al portale Middle East Eye, ma la ferita non l’ha fermata perché “tre giorni dopo il mio ricovero ero di nuovo qui a protestare”.
Amani ha perso suo fratello durante le “marce per il ritorno”, ma la sua uccisione, invece di incuterle timore, le ha dato più forza: “Sono qui per continuare quello che mio fratello ha iniziato. Se loro [i soldati israeliani, ndr] pensavano di intimidirci e di fermarci, beh si sbagliavano di grosso. Ci hanno dato solo un altro motivo per continuare”.
Tra le giovani dimostranti, alla frontiera ieri c’era anche Um Khaled Loulo, 71 anni: “Porto sempre i miei nipoti qui per insegnare loro cosa sia concretamente il diritto al ritorno”. Um Khaled è però molto attenta: “Non li lascio avvicinare alla barriera perché so che gli israeliani non si faranno problemi a spararli, ma almeno così capiscono che ritornare nella loro patria è qualcosa per cui lottare quando saranno cresciuti”. La giornalista Israa Areer non è affatto meravigliata da questa presenza femminile: “Più di 60 anni fa, mia nonna buttò a calci fuori casa i soldati israeliani quando provarono ad arrestare mio padre e i figli. Anche questa è una forma di resistenza. Le donne palestinesi non solo crescono combattenti della libertà, ma lottano anche con loro contro l’occupazione”.
Dall’altro lato del confine, al di là della selva delle canne dei fucili dell’esercito israeliano, c’era anche un gruppo di una 50 di donne per lo più israeliane con in mano cartelli su cui c’era scritto “Fermate la prossima guerra a Gaza” e “Un futuro di dignità e speranze su entrambi i lati del confine”. Le manifestanti hanno appeso alla recinzione di sicurezza le foto di alcune delle 138 vittime palestinesi di questi mesi e hanno marciato lungo la frontiera in solidarietà con le donne gazawi. Dopo aver camminato per un chilometro, il gruppo si è fermato in uno punto dove era possibile scorgere le sagome delle dimostranti palestinesi. Hanno quindi intonato alcuni cori in loro sostegno: sarebbero stati facilmente udibili se non fossero stati sovrastati dai lacrimogeni, dalle pallottole sparate dai cecchini e dal lamento delle sirene d’allarme. La Striscia di Gaza era lì ad un passo, ad un passo le “sorelle” gazawi. Si vedevano i loro corpi. Ma per poterle abbracciarle la strada è ancora tanta da fare.