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🌐 WOMEN’S STORIES _ Doaa

Barbara
Ciolli, Lettera43, 04 giugno 2018

La
profuga siriana sopravvissuta all’odissea nel Mediterraneo
Senza
saper nuotare, la ragazza nel 2014 ha resistito per quattro giorni a una strage
di naufraghi in mare. Come quella del 3 giugno 2018. Fleming, capo
Comunicazioni Unhcr, racconta la storia: «Farà l’avvocato».

Chi legge
in Più profondo del mare (Piemme, 2018) riga dopo riga la storia vera di Doaa,
o vedrà il film di Steven Spielberg che presto la racconterà per immagini, si
ricrederà – casomai dovesse – sulla tragedia
umana che si ripete nel Mar Mediterraneo
, con il neo ministro
dell’Interno Matteo Salvini che promette guerra ai migranti mentre l’ennesima
strage si è compiuta il 3 giugno
davanti alla Tunisia e alla
Turchia.
DALLA
DISPERAZIONE ALLA MORTE. Per due ragioni la ragazza siriana che, per terrore
dell’acqua, non sa nuotare e che nel 2014 è sopravvissuta sconvolta, con una
tenacia e un sacrificio estremi, per quattro giorni a una strage di naufraghi,
mantenendo in vita due bambine strette al petto, non smette di testimoniare la
sua odissea. Convincere – ancora traumatizzata – a non far più salire sui
barconi chi scappa dalla guerra e dalla fame, e far capire al mondo che quelli
come lei non sono terroristi. Se avessero un’alternativa farebbero di tutto, ma
proprio di tutto, per non salirci sopra e passare «dalla disperazione alla
morte».
VUOLE
COMBATTERE PER LA GIUSTIZIA. A 23 anni (ne aveva 19 all’epoca dell’accaduto),
Doaa è una profuga insignita in Europa di un premio per l’eroismo. Dopo aver
assistito alla morte atroce del fidanzato e di chiunque attorno a sé in mare,
vive in Svezia con i genitori che sono riusciti a ricongiungersi a lei. Una
delle due bambine orfane accudite in mare è morta appena salvata. L’altra, come
lei, è straordinariamente sopravvissuta ed è stata rintracciata dagli zii
palestinesi. Quanto vissuto nel Mediterraneo, denuncia Doaa, è peggio
dell’orrore dei cadaveri in strada, dei proiettili sfiorati, dell’assedio e
delle bombe scampate in Siria. Melissa Fleming, autrice dell’accurato libro
sull’eccezionale storia e capo delle Comunicazioni dell’Alto commissariato
delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), profonda esperta di migrazioni,
spiega a Lettera43.it: «È decisa a diventare avvocato, perché di giustizia ne
ha vista davvero troppo poca nella vita».

Melissa
Fleming. (Getty)

DOMANDA.
Ha avuto modo di incontrare e seguire Doaa dopo il naufragio e l’approdo,
stremata e ai limiti umani della sopravvivenza, in Grecia. L’ha accompagnata
nel ricominciare una nuova vita e ha portato la sua storia alla ribalta
mondiale, anche con un libro. Siete ancora in contatto? Come sta Doaa?

RISPOSTA. Assolutamente sì, i rapporti tra noi restano stretti. Doaa vive in
villaggio remoto della Svezia con la famiglia, il padre, la madre, le sorelle e
il fratello. Sta studiando duro per padroneggiare la lingua: non è facile, sta
combattendo. I traumi subiti giocano ancora brutti scherzi alla sua memoria. Ma
mi hanno detto che è la prima della classe.


D. La
fermezza, come ha ricostruito nel racconto con i ricordi di famigliari e amici,
è stata sin dall’infanzia la straordinaria forza interiore di Doaa.

R. Non a caso adesso il suo focus è la piena integrazione in Svezia. Là
continua ad aspirare a studiare legge, è giovane e ce la farà.


D. Doaa
si impegna ancora in iniziative e campagne a difesa di migranti e profughi?

R. È venuta al lancio del libro e partecipa ai dibattiti pubblici. Con sforzo:
per lei è come rivivere il trauma, anche dalle continue immagini e notizie che
riceve sulla distruzione della sua terra. Ma Doaa vuole in tutti i modi mettere
in guardia i profughi da viaggi pericolosi e far capire quanto siano disperati
per intraprenderli.


D. Per
Doaa, il fidanzato morto Bassem e i famigliari non c’era futuro neanche dopo
aver riparato in Egitto. Sotto il regime militare del presidente al Sisi
vivevano denutriti, sfruttati, persino perseguitati.

R. Se non si ha speranza di tornare nel proprio Paese o di ricostruirsi una
vita altrove, con un lavoro e con un’istruzione, la gente continuerà a
scappare. Il messaggio che Doaa si sforza di trasmettere è anche di trovare una
soluzione diplomatica e pacifica alla guerra in Siria, investendo nei
rifugiati.


D. Nel
2017 l’Italia ha imposto alle Ong che li soccorrono in mare un codice per
limitarne l’azione. Come si fa a far investire nei profughi quando si ha
l’impressione che non si vogliano neanche salvare?

R. Le Ong continuano a salvare oltre il 40% dei naufraghi nel Mediterraneo. Ci
aspettiamo che quante più persone possibili salgano su queste navi, non
viceversa. C’è bisogno di più, non di meno salvataggi. Di conseguenza per
l’Unhcr qualsiasi azione contro questi operatori – inclusi gli operatori navali
della Ong – che metta a rischio sopravvissuti ed equipaggi è fonte di seria
preoccupazione.

Profughi
siriani in Libano.
D. Nel
2014, quando l’Italia aveva a sue spese messo in campo la grande operazione di
salvataggio Mare nostrum, Doaa fu addirittura avvistata da una nave cargo di
passaggio: con grande scrupolo il comandante obbedì alla legge del mare che
impone a tutti i naviganti di salvare, in qualsiasi acque, le vite in pericolo.

R. Quell’anno soltanto le navi cargo salvarono circa 40 mila esseri umani in
mare. Di frequente hanno supportato Mare nostrum e anche le operazioni europee
di Frontex, rispondendo all’obbligo a soccorrere della legge del mare.




D. Ma per
l’Unhcr il codice
italiano per le Ong
è compatibile con il diritto internazionale e
con la legge del mare? E la cooperazione delle autorità italiane con quel che,
dalle milizie, si va formano come Guardia costiera libica è sicura?

R. Per noi, come detto, la priorità assoluta resta salvare vite umane, come
pure il diritto all’accesso all’asilo dei profughi, un dogma. Allo stesso
tempo, proprio per contrastare le rotte illegali e pericolose alle quali i
profughi sono costretti, è necessaria un’azione forte contro i trafficanti. Il
discrimine cruciale, per l’Unhcr, è che la sicurezza di chi è coinvolto nelle
operazioni di salvataggio non sia mai messa a rischio.
D. A
proposito, la Libia non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati
del 1951 e le condizioni dei campi – legali e illegali – per i profughi che si
vuol trattenere là sono documentatamente terribili, con continue ed evidenti
violazioni dei diritti umani.

R. È un’altra fonte di grande turbamento. Circa 70 mila tra rifugiati e
migranti, comunque diverse migliaia di loro, restano in questi centri. Non
abbiamo accesso a quelli non ufficiali, gestiti dai trafficanti e in condizioni
ancora peggiori degli ufficiali.
D.
L’Unhcr è riuscito almeno a migliorare le condizioni dei centri profughi
visitati in Libia e di quelli aperti di recente in collaborazione con le
autorità libiche, grazie anche all’accordo con l’Italia?

R. In questi mesi siamo riusciti ad avere maggiore accesso ai punti di sbarco e
anche ai centri di detenzione per profughi, abbiamo portato loro assistenza
medica, provviste di base e un po’ di sostegno psicologico. Riusciamo anche a
identificare gruppi di richiedenti asilo e a svolgere alcune importanti
operazioni di evacuazione di soggetti tra loro altamente vulnerabili. Verso
Paesi terzi come il Niger e anche europei.
D. Doaa e
il fidanzato erano scappati in Egitto. Altri milioni di siriani si trovano nel
limbo dei Paesi confinanti. L’Ong Medici senza frontiere ha di recente
denunciato la riduzione dei servizi di cure mediche pubbliche per i profughi
siriani in Giordania: come possono Paesi poveri e piccoli – come anche il Libano
– sostenere da anni il peso di quest’esodo?

R. Senza tutte le cure gratuite in particolare i malati cronici andranno a
soffrire il doppio. E parliamo di siriani abituati ad avere, prima della
guerra, sanità gratuita, servizi del governo, abitazioni dignitose. Ma la
Giordania è solo un esempio, lo andiamo ripetendo dal 2011 alla comunità
internazionale: servono fondi per investire sui profughi in esilio, in modo che
possano dare un contributo ai Paesi che li ospitano, preparandosi al loro
ritorno.
D. Dopo anni
di stenti, in che condizioni versano i siriani in Libano e in Giordania?

R. Degradanti e disperate. I profughi siriani vivono nel deserto o in case
miserevoli, anche in Turchia. Tra loro aumentano i matrimoni precoci e il
lavoro minorile, quando il mondo non si può permettere una generazione perduta
di giovani siriani: è pericoloso. Grazie agli investimenti internazionali per
fortuna sta crescendo il numero dei rifugiati iscritti a scuola. Ma siamo solo
al 50%, alle classi elementari. Per l’istruzione superiore la percentuale
crolla.


D. In
passato lei è stata a lungo portavoce dell’Aiea,
l’agenzia dell’Onu che promuove il nucleare pacifico
. È all’ordine
del giorno l’uscita degli Usa dall’accordo internazionale sul nucleare con
l’Iran, che avvicina il conflitto tra Iran e Israele, anche nel Golan siriano:
quanto destabilizzante è questo sviluppo per la tragedia siriana e in generale
per le popolazioni del Medio Oriente?

R. Da tempo non lavoro più per l’Aiea e sono un po’ riluttante ad addentrarmi
nella questione. Di fatto c’è che quella siriana non è più una guerra civile,
si è internazionalizzata. È una guerra per procura di molti Paesi e attori. Il
che aumenta enormemente il rischio.


D. Anche
di azioni di guerra non convenzionali. Ritiene appropriata la risposta dei raid
mirati di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia all’ultimo sospetto attacco
chimico di Assad?

R. Come Doaa, l’Unhcr non crede in nessuna soluzione militare per la Siria.
Uccidere civili – comunque li si uccida, anche bombardando scuole e ospedali –
è inaccettabile. Serve un movimento internazionale che rivendichi la fine di
questa carneficina.