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Quanto costa in Turchia l’indipendenza dei giornalisti

Il Post,
9 giugno 2018

Le
testate indipendenti sono sempre meno e faticano a tirare avanti, tra
persecuzioni giudiziarie e inserzionisti che stanno alla larga
Il
presidente turco Recep Tayyip Erdogan (Ozan Kose/AFP/Getty Images)

In
Turchia il prezzo da pagare per l’indipendenza giornalistica ed editoriale è
diventato altissimo. Negli ultimi due anni, cioè da dopo il tentato colpo
di stato
contro il presidente del governo turco Recep Tayyip Erdo
ğan, decine di giornali e televisioni nazionali sono stati chiusi con
l’accusa di avere appoggiato il golpe o di avere sostenuto il separatismo
curdo. Molte altre testate, come Hurriyet
e CNN Turk
, sono state acquistate da imprenditori considerati vicini
a Erdo
ğan. I giornali indipendenti, invece, sono rimasti
molto pochi e tirano avanti tra moltissime difficoltà. Per loro il problema più
grande è la mancanza di pubblicità, e quindi di soldi: gli inserzionisti stanno
alla larga per paura di inimicarsi il governo.

Uno dei
pochi giornali turchi che continua a essere critico nei confronti di Erdo
ğan è Cumhuriyet, il cui
direttore Murat Sabuncu e 13 giornalisti sono stati da poco rilasciati su
cauzione dopo 17 mesi in prigione. Per loro i problemi giudiziari non sono
ancora finiti: rischiano diversi anni di carcere perché sono accusati di reati
legati al terrorismo. Sabuncu e altri giornalisti di Cumhuriyet hanno
raccontato al Wall Street Journal
delle enormi difficoltà del loro
giornale a trovare nuovi inserzionisti: «Ci stiamo facendo le pulizie
dell’ufficio da noi», ha detto Bulent Mumay, che dirige la versione online del
giornale.
La
situazione di Cumhuriyet, comunque, non è unica. Il direttore del sito di news
online Diken, Erdal Guven, ha raccontato delle molte volte che l’accesso agli
articoli del suo giornale è stato bloccato dall’agenzia turca che si occupa di
telecomunicazioni, spesso su spinta del governo: «Di solito ripubblichiamo
l’articolo con un nuovo link, che viene bloccato nuovamente. A volte
contestiamo la misura in tribunale, ma non ricordo di avere mai vinto una
causa». Per Diken i problemi sono molti: un giornalista della testata è sotto
processo con l’accusa di terrorismo e gli inserzionisti si sono fatti sempre
più rari. «Lo scorso anno una grande società straniera decise di investire in
una campagna pubblicitaria di tre mesi. Dopo 11 giorni chiamò e ci chiese di
rimuovere immediatamente la pubblicità [sul sito]. Scoprimmo che avevano
ricevuto una telefonata», ha raccontato Guven, suggerendo possibili pressioni e
intimidazioni del governo sulla società.
Come ha
raccontato il Wall Street Journal, negli ultimi due anni la repressione della
libertà di espressione non ha colpito solo le
redazioni di giornali
 ma anche i social network e la
televisione. Uno dei casi più noti ha riguardato un’insegnante, Ayse Celik, che
nel 2016 chiamò in diretta la popolare trasmissione di intrattenimento “Beyaz”.
Nei pochi minuti a sua disposizione, Celik espresse la sua preoccupazione per
gli scontri violenti che erano in corso tra militari turchi e miliziani del
PKK, il Partito curdo dei lavoratori che ha come obiettivo la creazione di uno
stato curdo indipendente: «Non voglio che muoiano dei bambini», disse Celik. Fu
poi accusata di sostenere il PKK e fu condannata a 15 mesi di carcere. Da
allora, per evitare situazioni simili, nel programma “Beyaz” le chiamate da
casa vengono trasmesse solo in casi eccezionali e solo dopo un attento
controllo della persona che vuole intervenire.
I
giornali indipendenti, come Cumhuriyet, stanno cercando di trovare altri modi
per sostenersi economicamente, vista la difficoltà a basarsi solo sulle
inserzioni pubblicitarie. Per esempio stanno cercando di attirare donazioni da
diversi tipi di istituzioni straniere, stanno invitando i lettori a versare un contributo
(sul modello del Guardian) e allo stesso tempo stanno per lanciare una versione
in inglese del loro giornale, per rivolgersi a un numero più ampio di persone.
L’impressione
è che la situazione in Turchia non cambierà nel breve periodo. Il prossimo 24
giugno si terranno le elezioni politiche, inizialmente previste per il novembre
2019 ma anticipate da Erdo
ğan lo scorso aprile: si
rinnoveranno i 600 membri del Parlamento e si eleggerà il nuovo presidente, che
molto probabilmente sarà di nuovo Erdo
ğan. La carica di presidente,
inoltre, ne uscirà rafforzata: dopo il voto, infatti, entreranno in vigore le
modifiche al sistema istituzionale approvate con il referendum
dello scorso anno
, che di fatto trasformeranno la Turchia in una
repubblica presidenziale. Il referendum, ampiamente sostenuto da Erdo
ğan, ha sancito un processo già in atto da tempo e accelerato dopo il
tentato colpo di stato dell’estate 2016: la graduale
trasformazione
della Turchia da stato democratico a stato
autoritario, con l’arresto di diversi parlamentari di opposizione, il
licenziamento di migliaia di insegnanti, militari e altri dipendenti pubblici
e, per l’appunto, la chiusura di decine di giornali, radio e televisioni.