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La verità in mezzo alle menzogne di Israele

Ilan
Pappe, Nena News, 18 giu 2018

“Un’analisi
più profonda di altre fonti aperte getterebbe luce sulla natura strutturale del
progetto di colonialismo d’insediamento in corso in Palestina, la Nakba in corso”,
scrive lo storico israeliano Ilan Pappe a partire da un libro del 1949 scritto
da un militare e politico israeliano
“Una
tristezza e una sofferenza immense hanno riempito le strade – un convoglio dopo
l’altro di profughi che si fanno strada [verso il confine libanese]. Lasciano i
villaggi della loro terra e la terra dei loro antenati e si spostano in una
terra straniera, sconosciuta, piena di problemi. Donne, bambini, neonati, asini
– tutti in cammino, in silenzio e tristemente, verso nord, senza guardare né a destra
né a sinistra.

Una donna
non riesce a trovare suo marito, un bambino non riesce a trovare suo padre…
Tutto ciò che può camminare si muove, fuggendo via senza sapere che fare, senza
sapere dove sta andando. Molti dei loro effetti personali sono sparpagliati
lungo i lati della strada; più camminano e più sono esausti, quasi non riescono
più a camminare – sbarazzandosi di tutto quello che avevano provato a salvare
mentre sono sulla via dell’esilio…
Ho
incontrato un bambino di 8 anni che si dirigeva a Nord e conduceva davanti a sé
due asini. Suo padre e suo fratello sono morti nella battaglia, e ha perso la
madre… Sono passato sulla via tra Sasa e Tarbiha, e ho visto un alto uomo,
piegato, che strofinava qualcosa con le mani sul terreno roccioso e duro. Mi
sono fermato. Mi sono accorto di una piccola incavatura nel terreno che era
stata scavata a mani nude, con le unghie, sotto un ulivo. L’uomo vi ha riposto
il corpo di un bambino che era morto nelle braccia di sua madre, e lo ha
seppellito con della terra e [coprendolo] con piccole pietre. Poi è tornato
indietro sulla strada e ha continuato a dirigersi verso nord, sua moglie
camminava curva pochi passi dietro di lui, senza guardare indietro. Mi sono
imbattuto in un uomo anziano, che era svenuto su una roccia sul lato della
strada, e nessuno dei profughi osava aiutarlo… Quando siamo entrati a Birim,
tutti sono corsi, spaventati, nella direzione della valle che guardava a nord,
portando i loro bambini piccoli e quanti più abiti potevano. Il giorno dopo sono
tornati indietro, perché i libanesi non avevano permesso loro di entrare. Sette
bambini sono morti di ipotermia”.
Questa
commovente descrizione non è stata scritta da un attivista dei diritti umani,
un osservatore Onu o un giornalista interessato. E’ stata scritta da Moshe
Carmel (militare e politico israeliano, membro del parlamento, ndt.) e compare
nel suo libro Northern Campaigns – pubblicato per la prima volta nel 1949.
[Carmel, ndt]
viaggiò per la Galilea a fine ottobre del 1948, dopo aver comandato
l’operazione Hiram, in cui le forze israeliane commisero alcune delle atrocità
peggiori nella Nakba, la pulizia etnica della Palestina. I crimini furono così
gravi che alcuni dirigenti sionisti le descrissero come azioni naziste.
Il libro
di Carmel, e decine come esso – libri di brigata, diari, e storie militari – si
potevano trovare sugli scaffali delle librerie nelle case di ebrei israeliani
dal 1948 in poi. Riesaminarli, a 70 anni di distanza, rivela una verità
elementare: sarebbe stato possibile scrivere la “nuova storia” del 1948 senza
un solo nuovo documento declassificato, ma semplicemente se si fossero lette
queste fonti aperte, come le chiamo io, con una lente non sionista.
L’espressione
famosa – e ormai abusata – secondo cui la storia è scritta dai vincitori può
essere confutata in molti modi. Un modo è quello di smontare le pubblicazioni
dei vincitori in modo da rivelare le menzogne, le falsificazioni e le
interpretazioni errate, nonché le loro azioni meno consapevoli.
Una
rilettura di queste fonti aperte sulla Nakba, scritte per lo più dagli
israeliani stessi, sblocca delle nuove prospettive storiografiche sul quadro
generale di quel periodo – mentre i documenti declassificati ci permettono di
vedere tale quadro in una più alta risoluzione. Questo recupero si sarebbe
potuto svolgere in qualsiasi momento tra il 1948 e oggi – se gli storici
avessero utilizzato la lente critica necessaria per una tale analisi.
Rileggere
le fonti aperte, specialmente accostandole alle numerose storie orali della Nakba,
rivela la barbarie e la disumanizzazione che hanno accompagnato la catastrofe.
La barbarie è comune alle comunità di coloni negli anni della formazione del
loro progetto di colonizzazione e può, talvolta, essere oscurata dal linguaggio
secco ed evasivo dei documenti militari e politici.
Non
intendo con questo sminuire l’importanza dei documenti di archivio. Sono
importanti nel dirci cosa è successo. Tuttavia, le fonti aperte e le storie
orali sono cruciali per capire il significato di ciò che è accaduto.
Una tale
rilettura mette in luce il DNA di colonialismo d’insediamento del progetto
sionista e il ruolo della pulizia etnica del 1948 insito in esso.
Disumanizzazione
su scala di massa
Prendete
ad esempio il passaggio citato da Carmel. Come poteva qualcuno che stava
sovrintendendo a tali atrocità scrivere con tale compassione?
L’indizio
sta in un’altra frase all’interno della stessa citazione che sembra quasi una
digressione: “E poi, mi accorsi di un ragazzo di 16 anni, totalmente nudo, che
ci sorrideva mentre gli passavamo accanto (strano, quando l’ho sorpassato non
ho saputo dire, a causa della sua nudità, a che popolo appartenesse, e l’ho
visto solamente come un essere umano).”
Per un
momento totalmente eccezionale, quel ragazzo palestinese è stato umanizzato
(all’interno delle parentesi del testo). Tuttavia la disumanizzazione avveniva
su una scala che si osserva solo in crimini di massa come la pulizia etnica e
il genocidio. La regola era che i bambini venivano considerati come parte
del nemico, che dovevano essere eliminati in nome dello Stato ebraico, o, come
la metteva Carmel – un giorno dopo aver terminato il suo tour nella Galilea –
in nome della liberazione.
Mandò
questo messaggio alle sue truppe: “L’intera Galilea, l’antica Galilea israeliana,
è stata liberata tramite la potente e devastante forza dell’Idf [l’esercito
israeliano] … Abbiamo eliminato il nemico, lo abbiamo distrutto e lo abbiamo
costretto alla fuga … Abbiamo [conquistato] Meiron [Mayrun], Gush Halav [Jish],
Sasa e Malkiya … Abbiamo distrutto i nidi del nemico a Tarshiha, Eilabun, Mghar
e Rami … I castelli del nemico sono crollati uno dopo l’altro.
Settant’anni
dopo la Nakba, la lingua ebraica è uno strumento importante quanto lo è
l’accesso agli archivi israeliani chiusi. Il testo ebraico ci dice chiaramente
chi era il nemico – il nemico che era fuggito, era stato eliminato ed espulso
dai suoi “castelli”. Queste erano le persone che Carmel aveva incontrato. E per
un momento, egli si era commosso per la loro sofferenza.
Redenzione?
Gli
elementi discorsivi più importanti in questo tipo di relazioni sono i concetti
di liberazione ed eliminazione (shihrur e hisul). Il significato di ciò, in
realtà, era un tentativo di indigenizzare gli occupanti della Palestina tramite
la de-indigenizzazione dei palestinesi. Questa è l’essenza di un progetto di
colonialismo di insediamento, e il libro di Carmel – e quelli di altri – lo
rivelano in pieno. Carmel vedeva l’occupazione del 1948 come una redenzione
della Galilea romana.
Questi
atti violenti contro i palestinesi avevano molto poco a che fare con il trovare
un rifugio dall’antisemitismo. Il progetto sionista era, ed è ancora, un
progetto di de-indigenizzazione della popolazione palestinese e di sua
sostituzione con un’altra composta da coloni ebrei. Costituiva, in molti modi,
l’implementazione di un’ideologia nazionalista romantica, simile a quella che
aveva nutrito i nazionalismi fanatici di Italia e Germania alla fine del XIX
secolo e oltre.
Questo
collegamento è chiaro in libri che trattano le brigate nell’esercito
israeliano. Uno di questi libri, The Alexandroni Brigade and The War of
Independence, è un caso esemplare.
La
brigata Alexandroni fu incaricata di occupare la maggior parte della costa
palestinese, a Nord di Jaffa, per un totale di quasi 60 villaggi. Prima
dell’occupazione dei villaggi, le truppe furono istruite sul contesto storico
delle loro operazioni. La narrazione fornita dagli ufficiali è ripetuta nel
libro in due capitoli. Il primo è intitolato “The Military Past of the
Alexandroni Space” (Il passato militare del fronte Alexandroni, ndtr.), e
comincia dicendo: “il fronte in cui la brigata Alexandroni combatté nella
guerra di indipendenza è unico nella storia militare della regione e di Eretz
Israel [il Grande Israele] in particolare.”
Si
trattava del Sharon – la costa della Palestina nella narrazione sionista – che
è un termine inventato senza radici nella storia. Lo Sharon, come ci dice il
libro sulla brigata Alexandroni, era “una terra ricca e alquanto fertile” che “attraeva”
gli eserciti durante i loro “viaggi di occupazione” all’interno della terra di
Israele. Questo capitolo storico è pieno di racconti di eroismo, dove si
sostiene, per esempio, [che, ndt] “quì è dove [il popolo di] Israele, sotto [la
guida, ndt] [del profeta] Shmuel aveva affrontato i Filistei”.
Gli ebrei
erano sempre svantaggiati nella battaglia contro i loro nemici, ma “allora come
oggi, fu lo spirito superiore a far spostare l’equilibrio a favore di Israele.”
Sotto
Baibars, il sultano mamelucco, sostiene il libro, lo Sharon fu distrutto come
terra agricola e “da allora in poi [lo Sharon] non avrebbe recuperato la sua
vitalità economica fino al suo riassestamento con l’immigrazione sionista
[aliya]”. Baibars, tra l’altro, era stato là nel 1260. Quindi il libro sulla
brigata Alexandroni dice ai suoi lettori che lo Sharon era rimasto senza
popolazione per più di 600 anni, che è l’interpretazione sionista della storia
al suo meglio.
Durante
il periodo ottomano, lo Sharon “era in totale devastazione, pieno di discariche
e di malaria”, aggiunge il libro. “Solo con la aliya e l’insediamento ebraico
alla fine del XIX secolo, cominciò un nuovo periodo di prosperità [nella storia
dello Sharon].”
I
sionisti “restituirono” lo Sharon alla sua precedente gloria, e esso divenne
una delle aree più ebraiche nell’ “Eretz Israele Mandatario” – come il libro
chiama la Palestina quando era amministrata dal mandato britannico.
“I
villaggi devono essere distrutti”
La
pulizia etnica della costa ebraica cominciò mentre la Palestina era sotto il
controllo britannico. La Gran Bretagna era, sotto molto aspetti, un alleato
cruciale del movimento sionista. Tuttavia non facilitò la colonizzazione della
Palestina rapidamente quanto i sionisti avrebbero voluto. Il libro sulla brigata
Alexandroni dipinge perciò la Gran Bretagna come un ostacolo a volte disumano
per la “redenzione” ebraica.
Lo Sharon
aveva ancora [abitanti, ndt] arabi al suo interno. Il libro rappresenta la
regione come un’ancora di salvezza per la comunità ebraica, e tuttavia
suggerisce allo stesso tempo che la vita ebraica era disturbata dai molti
villaggi arabi circostanti. Era soprattutto la parte orientale dello Sharon ad
essere “puramente araba e a costituire il principale pericolo per gli
insediamenti ebraici; un pericolo che doveva essere preso in considerazione in
qualsiasi pianificazione militare.”
Il
“pericolo” fu “preso in considerazione” prima tramite attacchi isolati ai
villaggi. Il libro dice che fino al 29 novembre del 1947 il rapporto tra ebrei
e palestinesi era buono e che continuò ad essere tale dopo quella data.
Tuttavia, una frase successiva nel libro ci dice che “all’inizio del 1948, il
processo di abbandono dei villaggi arabi cominciò. Si possono vedere i primi
segni di questo nell’abbandono di Sidan Ali (al-Haram) da parte dei suoi 220
abitanti arabi e di Qaisriya da parte dei suoi 1100 abitanti arabi a metà
febbraio del 1948.” Ci furono due espulsioni di massa che ebbero luogo mentre
le forze britanniche, che avevano la responsabilità di mantenere l’ordine e la
legalità, guardavano e non interferivano. Poi “a marzo, con l’inasprirsi dei
combattimenti, il processo di abbandono si intensificò.”
L’“escalation”
iniziò con l’ attuazione del piano Dalet – un progetto per la distruzione dei
villaggi palestinesi. Il libro sulla brigata Alexandroni riporta un riassunto
degli ordini emanati dal piano. Gli ordini includevano il compito di
“individuare i villaggi arabi di cui ci si doveva impadronire o che dovevano
essere distrutti”.
C’erano
55 villaggi, secondo il testo, nell’area occupata in base al Piano Dalet. Lo
Sharon ebraico fu quasi completamente “liberato” nel marzo 1948 quando la costa
“fu ripulita” dei villaggi arabi, tranne quattro. Nelle parole del libro: “La
maggior parte delle zone vicino alla costa furono ripulite dai villaggi arabi,
tranne… un ‘piccolo triangolo’ in cui c’erano i villaggi arabi di Jaba, Ein
Ghazal e Ijzim – che spiccavano come un pollice dolente, sovrastando la strada
Tel Aviv-Haifa; c’erano arabi anche a Tantura sulla costa.”
Un’analisi
più profonda di questi testi e di altre fonti aperte getterebbe luce sulla
natura strutturale del progetto di colonialismo d’insediamento in corso in
Palestina, la Nakba in corso.
La storia
della Nakba perciò non è solo una cronaca del passato, ma un’analisi di un
momento storico che continua nel tempo dello studioso di storia. Gli scienziati
sociali sono lontani dall’avere gli strumenti per occuparsi di “obiettivi in
movimento” – cioè per analizzare fenomeni contemporanei – ma gli storici, così
ci viene detto, hanno bisogno di distanza per riflettere e per vedere il quadro
completo.
Si
potrebbe sostenere che 70 anni dovrebbero offrire una distanza sufficiente, ma
d’altro canto, sarebbe simile al tentativo di comprendere l’Unione Sovietica,
oppure le Crociate, da parte di contemporanei, e non di storici.
I luoghi
della memoria, per usare il concetto di Pierre Nora, così come i passi avanti
accademici degli anni recenti, sono stati suscitati non dalla declassificazione
in sé, ma dalla loro rilevanza per le lotte contemporanee.
I
progetti di storia orale, così come i libri di brigata, sono tutti risorse
cruciali e accessibili che penetrano gli autentici e cinici scudi di inganno
sionisti, e più tardi israeliani. Aiutano a capire perché il concetto di uno
stato coloniale democratico o illuminato è un ossimoro.
La storia
approvata di Israele
Una
decostruzione della storia approvata di Israele è il miglior modo per sfidare
un processo che trasforma le parole: da pulizia etnica a auto-difesa, da furto
di terra a redenzione, e da pratiche di apartheid a preoccupazioni per la
“sicurezza”. C’è una percezione, da un lato, che dopo anni di negazione il
quadro storiografico sia stato rivelato in giro per il mondo con chiari
contorni e colori. La narrativa israeliana è stata messa in discussione con
successo sia nel mondo accademico che nello spazio pubblico.
Tuttavia,
rimane un sentimento di frustrazione, dovuto all’accesso limitato per gli
studiosi, anche israeliani, ai documenti declassificati in Israele, mentre gli
studiosi palestinesi non possono nemmeno sperare, nel clima politico
contemporaneo, di avervi alcun accesso.
Andare
oltre i documenti di archivio sulla Nakba è, perciò, necessario non solo per
una migliore comprensione dell’evento. Potrebbe anche essere una soluzione per
i ricercatori nel futuro, date le nuove politiche israeliane di
declassificazione.
Israle ha
chiuso la maggior parte della documentazione del 1948. Le risorse alternative e
gli approcci suggeriti in questo articolo sottolineano diversi punti. Una
conoscenza dell’ebraico può essere di aiuto, e la necessità di continuare con i
progetti di storia orale è essenziale.
Il
paradigma del colonialismo di insediamento rimane anche rilevante per
analizzare da capo sia il progetto sionista che la resistenza ad esso. Tuttavia
ci sono ancora problemi con l’adattabilità del paradigma – come, per esempio,
se possa essere applicato agli ebrei provenienti da paesi arabi che si sono
spostati in Palestina – e questi dovrebbero essere ulteriormente esplorati.
Ma più di
qualsiasi cosa dobbiamo insistere che l’impegno per la Palestina non sia un
ostacolo per buoni studi, ma un elemento di potenziamento per essi. Come
scrisse Edward Said: “Dove sono i fatti, tuttavia, se non radicati nella storia,
e poi ricostituiti e recuperati da attori umani mossi da qualche narrativa
storica percepita o desiderata o sperata, il cui scopo futuro è quello di
ristabilire la giustizia per gli oppressi?”
La
giustizia e i fatti, le posizioni morali, l’acume professionale e l’accuratezza
accademica non dovrebbero essere messi l’uno davanti all’altra ma intesi,
piuttosto, come tutti elementi che contribuiscono ad un’attività storiografica
integra. Pochi progetti storiografici hanno bisogno di un tale approccio integrativo
come la ricerca sulla Nakba in corso.