General

La mezzaluna sopra Torino

Internazionale,
21 giugno 2018

Questi
articoli fanno parte di un reportage realizzato dalla classe di Reporting
2016-2018 della Scuola Holden
Una
preghiera collettiva per il ramadan nel parco Dora, Torino, 17 luglio 2015. (Giulio
Lapone, Agf)

Un po’ di
storia e geografia dell’islam a Torino

di
Giovanni Barbato, Andrea Costantino Levote, Giorgio Penna
Dire
quante sono le moschee a Torino è tutt’altro che semplice, perché il numero può
oscillare tra zero e diciotto. Tecnicamente le moschee torinesi hanno la
ragione sociale di “associazione”, con all’interno un luogo di culto, dato che
le moschee propriamente dette in Italia sono solo due, quella di Roma e quella
di Catania.
In tutti
gli altri casi si parla di sala di preghiera, poiché la religione musulmana non
ha un’intesa con lo stato italiano e non possiede nemmeno il riconoscimento in
qualità di ente morale. Il quadro normativo prevede che siano gli enti
territoriali a occuparsi dell’inquadramento giuridico in città delle sale di
preghiera. Nel caso torinese si è individuato nella personalità giuridica
dell’associazione di promozione sociale un buon compromesso per l’esercizio
della libertà del culto musulmano.
Come
dichiara l’ex assessora alle politiche dell’integrazione del capoluogo
piemontese Ilda Curti, “la legge permette che un soggetto privato, in luogo
privato, attraverso il dispositivo dell’atto unilaterale d’obbligo, dichiari di
svolgere attività di pubblico servizio, instaurando una convenzione con
l’amministrazione locale che riconosce l’esistenza di questo servizio”.
Ma non
bisogna pensare che si tratti di moschee dalla tradizionale architettura, con
vistose cupole e minareti che si stagliano in cielo. Come buona parte dei
luoghi di culto islamici in Italia e in Europa, le sale di preghiera torinesi
sono frutto non tanto di edificazioni ex novo quanto di interventi di recupero,
ristrutturazione e riadattamento di locali in edifici preesistenti: molte
sorgono in magazzini, ex palestre, garage, negozi, spesso all’interno di
cortili condominiali, difficili da trovare o vedere se non si conosce l’esatta
posizione. Nell’ambiente spoglio di un garage ci si riunisce scalzi, immersi
tra odori di incenso, il freddo pavimento ricoperto da distese di tappeti
colorati che allietano il cammino e permettono di poter eseguire comodamente le
preghiere.
Le prime
moschee hanno aperto nel quartiere di San Salvario, storicamente
rappresentativo della diversità culturale della città
I luoghi
di culto dell’islam torinese sono divisi in modo eterogeneo sul territorio
della città.
Le prime
moschee hanno aperto nel quartiere di San Salvario, storicamente
rappresentativo della diversità culturale e religiosa della città. Si tratta
della moschea di via Saluzzo, gestita dall’Associazione culturale islamica in
Piemonte, e della moschea Torino di via Baretti, che fa riferimento all’omonima
Associazione moschea Torino. Entrambe le strutture sono state fondate nel 1992.
L’associazione
Delle Alpi, con il centro Taiba al suo interno, è invece la moschea più
frequentata. Nasce nel 1998 e nel 2006 apre il luogo di culto. Lavora sulla
formazione spirituale, ma anche sul legame con la città. “Il venerdì, il giorno
di preghiera, siamo circa in mille”, racconta Brahim Baya, portavoce
dell’associazione. “Da noi registriamo una prevalenza d’affluenza marocchina,
ma qui vengono anche egiziani, bangladesi, pachistani, più o meno mantenendo le
proporzioni dei dati comunali. Il numero significativo è che il 40 per cento
delle persone che vengono da noi ha la cittadinanza italiana. Sicuramente siamo
riusciti ad arrivare a questo risultato anche grazie ai rapporti che abbiamo
con le istituzioni. Di certo Torino è a un livello più avanzato d’integrazione
rispetto al resto dell’Italia”.
La
comunità più presente sul territorio torinese è quella marocchina (circa il 51
per cento). Questo è un dato fondamentale per capire il contesto in cui si
trovano le moschee del capoluogo piemontese. Va detto innanzitutto che l’islam
dell’immigrazione è prevalentemente sunnita, come in generale nel mondo
islamico, e una delle sue principali caratteristiche è quella di non avere un
centro religioso gerarchizzato che detti regole per tutti i fedeli. Come
sostiene Renzo Guolo esiste “una pluralità di posizioni intestine che produce
concorrenza interna e orientamenti molto diversi. Non esiste un islam monolitico
e dogmatico, né come correnti di pensiero né dal punto di vista organizzativo o
socioreligioso”.
In questo
senso prende forma una pluralità di correnti organizzate che fanno capo a
soggetti diversi. In Italia si può parlare di due tipologie: islam degli stati
e islam delle moschee. Il caso torinese è emblematico per quanto riguarda la
comunità marocchina. “Tra il 2006 e il 2009 si è assistito a un processo in cui
il governo marocchino ha favorito la scissione all’interno dell’Ucoii invitando
i suoi cittadini affiliati a lasciarla, per crearne una di soli marocchini”,
prosegue Guolo. “Cosa hanno ottenuto in cambio? Finanziamenti per l’intervento
nella cultura, finanziamenti per la costruzione della moschea, per le
manifestazioni, eccetera”. Dall’altra parte invece c’è il cosiddetto islam
delle moschee, autorganizzato e indipendente sia nei finanziamenti (che spesso
provengono dalle offerte dei fedeli) sia nella direzione del culto.
Se la
configurazione generale è chiara, difficile è arrivare a numeri precisi. “La
religione non è un dato formale”, spiega l’ex assessora Curti. Non tutti gli
arabi sono musulmani, non tutti i musulmani sono arabi e – come avviene sul
territorio nazionale – è complesso tracciare con precisione la presenza di
religione islamica in città. Indicativamente, incrociando le diverse fonti, si
può ipotizzare che a Torino ci siano circa 35mila persone di religione islamica
e che l’8,5 per cento di questi siano italiani convertiti (che fanno capo
prevalentemente alla Comunità religiosa islamica Coreis).
Ragionare
sulla presenza musulmana nel capoluogo piemontese, città con un’importante
presenza maghrebina (e in particolare marocchina), significa anzitutto
sottolineare come tale realtà sia un elemento strutturale e strutturante per i
quartieri, perché crea un impatto sociale sia a livello demografico sia
economico, grazie anche agli esercizi commerciali (dai classici piccoli
alimentari ai negozi di abbigliamento, ai ristoranti, a tutte quelle realtà
economiche e finanziarie protagoniste del periodico Turin islamic economic
forum). Cruciale è anche il ruolo esercitato dalle moschee – soprattutto nelle
periferie – in fatto di integrazione e di attività svolte per aiutare le
persone a comprendere meglio il proprio culto (soprattutto le nuove generazioni
che crescono lontane dalla loro terra d’origine).
Da questo
punto di vista, la città di Torino si è caratterizzata nel tempo come un
laboratorio d’integrazione in numerosi ambiti: accoglienza, inserimento
lavorativo, pratiche per l’inclusione scolastica, iniziative per la coesione
sociale all’interno dei quartieri (esempi emblematici i quartieri di San
Salvario e di Porta Palazzo). In un terreno di confronto e di incontro
favorevole ha preso forma una variegata realtà di presenze legate all’islam, in
cui il ricco tessuto associativo rappresenta un fattore basilare per
incoraggiare il dialogo tra le realtà di origine straniera, l’amministrazione
comunale e la cittadinanza.
L’iftar,
il pasto serale consumato nel mese di ramadan, durante la manifestazione
Moschee aperte, Torino, giugno 2017. (Giovanni Barbato)
Generazioni
a confronto
di
Rebecca De Fiore
Come
Azzedine, sono tanti i ragazzi musulmani che cercano la loro strada in Italia.
Sono i ragazzi della cosiddetta seconda generazione, nati da almeno un genitore
immigrato e cresciuti in Italia. Per loro la vera sfida è proprio qui: a metà
tra il mondo dei genitori e quello del paese in cui sono nati o dove sono
arrivati da piccoli.
La
questione della ricerca dell’identità è più sentita dai giovani perché la prima
generazione è assorbita da problemi pratici e urgenti di sopravvivenza,
lavorare, farsi accettare, non creare attriti. Tra tutti, secondo Oumaima,
spicca il problema della lingua. “Forse la differenza più tangibile tra la
prima e la seconda generazione è proprio quella della lingua. Loro avevano
bisogno di impararla per comunicare, il nostro problema invece è quello di
trovare un’identità cercando un bilanciamento tra le origini familiari e il
contesto sociale in cui ci troviamo”. Oumaima è una ragazza di 21 anni,
arrivata in Italia dal Marocco quando ne aveva nove. Non lascerebbe l’Italia ed
è riuscita a trovare un equilibrio senza dimenticare le sue origini.
C’è chi,
invece, si sente italiano a tutti gli effetti. Ussama, 25 anni, è nato in
Italia da padre libanese e mamma siriana. Non gli piace essere definito di
seconda generazione, lui è italiano e basta: “A un certo punto mi sono detto
che dovevo capire chi sono e ho cominciato a chiedermi: quale lingua parlo di
più? Dove ho passato più tempo? E alla fine ho capito di essere italiano”.
Gli
adulti istruiscono i figli su un piano culturale e religioso, i giovani portano
una maggiore apertura con l’occidente
Anche
Fareal è nata in Italia 24 anni fa, ma per lei le cose sono state meno scorrevoli.
“Per i miei genitori non c’è stata una ricerca dell’identità perché ne avevano
già una. Si sentivano profondamente egiziani, essendo nati e cresciuti in
Egitto. Io invece ho cominciato a cercarla nella religione, poi ho capito che
io sono io, la religione è la religione”. I genitori volevano che crescesse
seguendo i precetti della religione musulmana. Per questo ha cominciato a
portare il velo da bambina, ad appena undici anni, ma, spiega, “se prima lo
indossavo come affermazione della mia personalità, ora lo faccio solo per
abitudine”.
Per
Ghoufran, originaria di Bejaad, un piccolo paese marocchino lontano dal mare,
invece, non mettere il velo sarebbe come uscire di casa senza pantaloni. Se
avesse potuto lo avrebbe indossato fin da piccola, ma la mamma le ha detto di
aspettare fino a che non fosse stata in grado di spiegare consapevolmente vuole
indossarlo. Adesso ha 20 anni, ma sa benissimo chi è. Determinata, fiera delle
sue origini, esprime il suo punto di vista con grande chiarezza. “Tra generazioni
ci si viene incontro per scambiare i punti di vista gli uni con gli altri: gli
adulti istruiscono i figli su un piano culturale e religioso, i giovani portano
una maggiore apertura con l’occidente. La seconda generazione è proprio il
punto di contatto tra i padri e il mondo occidentale”.
Alcune
famiglie, però, hanno paura di non riuscire a trasmettere la cultura del paese
d’origine. È il caso dei genitori di Hassan, un ragazzo di 23 anni, che è nato
a Torino ma ha fatto le scuole elementari in Egitto. Quando aveva quattro anni
era tornato a Fayoum, una città vicino al Cairo, con la mamma e la sorella
piccola, per imparare le tradizioni egiziane, l’arabo e la religione. È
rientrato in Italia a undici anni e non ha avuto problemi a inserirsi e a
costruire una rete di amicizie. Secondo lui, è proprio questa la grande
differenza tra le generazioni: “I nostri genitori avevano come primo obiettivo
quello di trovare un lavoro, per questo hanno tralasciato l’aspetto sociale.
Noi siamo nati e cresciuti con i ragazzi italiani, comunichiamo con l’esterno”.
Naoual ha
una storia diversa. È nata in Marocco, a Khouribga, e da piccola ammirava la
zia, emigrata in Italia, che quando tornava a casa indossava vestiti che le
sembravano bellissimi. Pensando al suo futuro, i genitori hanno deciso di
mandarla a vivere in Italia e a otto anni ha raggiunto la zia a Ivrea. Naoual
non si è mai trovata a dover mediare tra le due culture: “Mia zia è sposata con
un italiano, non è mai stata contraria all’occidentalizzazione. Giusto una
volta abbiamo discusso, quando ho messo la minigonna a capodanno. Per il resto
è aperta, anche più di me a volte. Durante l’ultimo Ramadan ero in piena
sessione d’esame e lei insisteva perché mangiassi. Io non volevo, ma alla fine
ho ceduto”.
Naoual è l’esempio
perfetto di chi vive l’islam “all’italiana”, cercando una sintesi tra gli
elementi religiosi e culturali di provenienza e la realtà del nostro paese. Ha
scelto, per esempio, di non portare il velo: “In un paese islamico serve per
non attirare l’attenzione, ma qui in Italia è diverso. Se lo indossi lo notano,
paradossalmente otterrei l’effetto contrario”. Dunque, “sono praticante, ma a
metà. Lontana sia dalla laicizzazione a cui l’occidente può portare, sia dalla
rigidità marocchina”.
Naoual
non ha la cittadinanza italiana e la cosa che più le dispiace è proprio non
aver potuto votare lo scorso 4 marzo
Questi
ragazzi combattono per la loro affermazione nel contesto italiano e per il
riconoscimento dei loro diritti. Per farlo, seguono anche la politica. Naoual
non ha la cittadinanza italiana e la cosa che più le dispiace è proprio non
aver potuto votare lo scorso 4 marzo. “Sono una grande appassionata di
politica, ma per ora tutto quello che posso fare è convincere mia zia ad
ascoltarmi”. Ussama conferma che la prima generazione non ha la stessa
sensibilità: “Alcuni arrivano da paesi in cui c’è una dittatura, non sanno
neanche com’è fatta una scheda elettorale”. Lui, invece, alle ultime elezioni è
andato a votare: “Avrei votato il Partito democratico, ma dopo la questione
dello ius soli non ho proprio potuto farlo”.
È Adil,
20 anni e origini marocchine, arrivato neanche un anno fa a Torino dalla
Sicilia per cercare lavoro, a confermare le ambizioni della seconda
generazione. “Vogliamo farci vedere dalla società, lasciare un segno. Tocca a
noi costruire qualcosa per i nostri figli”. Come sarà, infatti, la terza
generazione in Italia? Hassan crede che un allontanamento dall’islam sia
inevitabile: “Già la seconda generazione è molto più occidentalizzata rispetto
alla prima, credo sia difficile che le prossime generazioni vogliano
riconoscersi in un’identità araba”.
Naoual,
che ha l’esempio dei cugini nati in Italia e non praticanti, è ancora più
sicura: “Se dovessi immaginare i miei figli? Li vedo interamente
occidentalizzati. Mi piacerebbe insegnargli la lingua perché è una ricchezza,
ma credo sia molto difficile trasmettergli la religione. Svilupperanno le loro
idee vivendo qui”. Oumaima, invece, è ottimista. “Secondo me hanno fatto molta
più fatica i miei genitori a trasmettere i precetti religiosi di quanta ne farò
io. Traducendo la fede come una pace interiore e desiderando il bene dei miei
figli, è inconcepibile non cercare di fare il possibile per tramandare i
precetti religiosi. Noi ora facciamo parte della società e sapremo tramandare
sia i valori italiani sia quelli musulmani”. Ai suoi figli, infatti, farà
leggere il Corano in italiano.
Durante
la manifestazione Moschee aperte, Torino, giugno 2017. (Giovanni Barbato)

Vivere la
sessualità secondo il Corano

Elisa
Bellino, Benedetta Petroni
“L’amore
abita da protagonista il Paradiso, luogo assai diverso dall’asessuato regno dei
cieli cristiano. L’erotismo arabo è rafforzato dallo stesso Corano, che
sostiene la sessualità umana sia una dotazione originaria concessa all’uomo da
Dio; nonché uno dei segni attraverso cui si riconosce la potenza divina di
creazione e rigenerazione”, afferma Abdelwahab Bouhdiba in La sessualità nell’islam.
Sesso,
contraccezione, aborto, omosessualità: termini presenti nel dizionario
italiano, ma più complessi da analizzare alla luce dell’immenso calderone di
sapienza che è il diritto islamico. Eppure sono tante le persone che vivono
dentro di sé queste contraddizioni. Una vita trascorsa nel pallido tessuto
urbano torinese e le sue dolci colline, ma separata fisicamente da un velo
colorato e un libro sacro colmo di saggezza. Un guscio di hadd, letteralmente
limiti, divieti imposti da Dio, culturalmente accettati, spesso anche scelti,
nella convinzione di poter essere torinesi socialmente attivi pur facendo parte
di una minoranza.
“Le
vostre mogli sono un campo da arare, venite nel vostro campo quando lo
desiderate”, recita la Sura II, 33.
“La donna
musulmana è una creatura molto bella, chiusa tra le mura di casa: quando esce
deve coprire la sua bellezza”, afferma Nesha, 50 anni, sposata per tre anni
quando era ancora molto giovane. Maali, 23 anni, studente di ingegneria al
Politecnico di Torino, precisa che la moglie in casa dev’essere bella e sempre
curata solo per il proprio marito. “A volte le donne si sposano unicamente per
far contento l’uomo, credono che il matrimonio serva per completare la
religione”, prosegue Nesha.
La
sessualità ha un’importanza infinita nella pratica coranica in quanto creazione
perpetuata e funzione sacra
Hikram,
21 anni, afferma di indossare il velo con profonda convinzione da quando ne
aveva 13. “Porto spesso lunghi camicioni sopra ai pantaloni neri, non mi pesa,
per me è naturale vestirmi così. Credo comunque che sia doveroso informare la
gente sugli usi e le credenze radicate nella nostra religione”.
Il sesso
non è un tabù nella morale islamica, anzi è uno dei cardini del matrimonio. Il
bacio, il profumo, le frasi sussurrate e i giochi preliminari sono fortemente
raccomandati dal profeta, che più volte ribadisce quanto sia un bene
“assaggiare il miele dell’altro”. L’amore fisico dev’essere praticato con
costanza, è importante riconoscere l’orgasmo femminile e coltivarlo, affinché
il letto coniugale sia sempre un luogo di incontro e condivisione. Allah è
misericordioso, il sesso è una benedizione di Dio, di conseguenza è chiaro che
non può essere vincolato alla mera procreazione ma alla fantasia, alla libertà,
alla conoscenza reciproca. La sessualità ha un’importanza infinita nella
pratica coranica in quanto creazione perpetuata e funzione sacra.
“L’islam
non preclude assolutamente la contraccezione, anzi, tutto ciò che non va contro
i precetti religiosi ma permette di progredire al livello sociale e scientifico
è ben accetto. Il problema è riuscire a scindere la religione dalla cultura. La
mia generazione non ha nessun problema a usare la pillola o altri metodi
contraccettivi, non è proibito; questo lo so perché ho avuto modo di studiarlo,
ma in giro c’è tanta ignoranza. È meglio usare il preservativo invece che
ricorrere successivamente all’aborto”. Queste le parole di Sumaia, 24 anni,
studente di architettura, figlia di una ginecologa somala. “Per la
contraccezione nel mondo islamico vale il principio di necessità: è considerato
lecito usare il coito interrotto nel caso in cui la donna abbia dei problemi
fisici che potrebbero acuirsi se dovesse iniziare una gravidanza. Per analogia,
può essere considerata ragione sufficiente per utilizzare un metodo contraccettivo
l’esistenza di problemi economici”, spiega Carlo Flamigni, in Storia della contraccezione.
La
sacralità della vita

L’aborto è un tema molto dibattuto e interessa diverse correnti di pensiero;
questo perché nessun versetto del Corano ne parla. Per l’islam, così come per
le altre religioni, la vita è sacra. Prima di decidere se interrompere una
gravidanza si deve riflettere sulle fasi di creazione dell’anima del feto:
secondo alcuni si crea dopo 120 giorni dal concepimento, secondo altri dopo 40.
Questo argomento pone complesse questioni sulla trasmissione e
l’interpretazione dei testi religiosi: “Secondo me nell’islam l’aborto non è
permesso, ma è un servizio che lo stato concede e negli ospedali viene praticato
regolarmente”, dice Maali.
Molti
musulmani al giorno d’oggi scelgono di confinare la propria sfera sessuale
nell’ambito del vincolo matrimoniale, com’è stabilito dal diritto islamico,
dalla consuetudine culturale e famigliare, ma anche a causa del tessuto sociale
e morale in cui vivono. Altri scelgono di praticare liberamente la loro sfera
intima, considerando questi limiti ormai superati e di difficile applicazione,
affidandosi quindi al buon senso.
Amin, 23
anni, lavora come sarto nell’attività del padre in Borgo Dora, quartiere
multietnico di Torino. Afferma di essere praticante, anche se non ha mai
studiato realmente il Corano. “Mi comporto bene nei confronti di Dio, come fa
un buon musulmano. La mia fidanzata non indossa il velo, ma non importa. Come
potrei pretendere la verginità da una ragazza, se sono il primo ad averla
persa?”.
Mohamed,
41 anni, fa il parrucchiere da tredici anni in corso Giulio Cesare; afferma di
essersi sposato non appena giunto in Italia con una donna marocchina. “Non
posso sposare un’italiana, i matrimoni misti sono haram. Il Corano dice che è
meglio unirsi a una donna musulmana per condividere la fede in famiglia. Mia
moglie mi rispetta, prega, porta il velo. Se decidesse di toglierlo divorzierei
subito, non posso mantenere il sacro vincolo del matrimonio con una peccatrice.
La verginità non è importante, non è scritto nel Corano. Io sposo una donna
indipendentemente dal suo trascorso, l’importante è amarla. Questo fa un buon
musulmano”.
Ma come
applicare nella vita quotidiana i dogmi imposti dalla scienza islamica
attraverso i testi sacri? E quindi quando si può definire un’azione haram
(illecita) o halal (lecita)? Quanto sono importanti lo studio e la corretta
interpretazione del Corano? Secondo la studiosa di islam Serena Tolino, docente
all’università di Amburgo, nel diritto islamico classico – che si è sviluppato
dall’undicesimo secolo – gli unici rapporti sessuali leciti sono quelli
vincolati dal matrimonio. “C’è una differenza sostanziale tra islam come
principio e l’essere musulmani nella prassi quotidiana”, commenta Renzo Guolo.
“Ognuno adatta la fede al proprio contesto”.
“L’omosessualità
è una devianza, oltre a essere vietata dall’islam, è contro natura”, dice
Zakaria, 25 anni, marocchino e giunto a Torino tre anni fa. “A Casablanca ce ne
sono tantissimi, si nascondono, per me non sono dei veri musulmani”. Nei
confronti di una tematica socialmente e culturalmente complessa come l’amore, e
non solo fisico, tra persone dello stesso sesso, è difficile sapere quale sia effettivamente
la posizione coranica. Sul sito Il grande
colibrì
, la dottoressa Tolino spiega che “le fonti del diritto
islamico, in particolare il Corano e la Sunna, non condannano l’omosessualità
come identità sessuale per un motivo molto semplice: si tratta di un concetto
moderno, introdotto nel linguaggio comune solo a partire dal diciannovesimo
secolo”.
Durante
la manifestazione Moschee aperte, Torino, giugno 2017. (Giovanni Barbato)

La paura
della radicalizzazione

Nicolò
Fagone La Zita
Così come
in altre città europee anche a Torino sono presenti elementi di preoccupazione
per quanto concerne il radicalismo, anche se probabilmente si tratta di casi
isolati. Ne è la prova l’arresto del 28 marzo Halili el Mahdi, marocchino
naturalizzato italiano di 23 anni, accusato di affiliazione al gruppo Stato
islamico (Is). Il giovane perito elettronico avrebbe diffuso materiale di
propaganda del gruppo e per questo è accusato di proselitismo e apologia con
finalità terroristiche.
Secondo
le autorità operava a Torino ma viveva a Lanzo, un piccolo paese di cinquemila
abitanti, con i genitori e la sorella più piccola. Halili era già stato fermato
nel marzo 2015 all’interno dell’operazione Balkan connection, condotta dalla
Digos nel tentativo di arrestare la diffusione di materiale di sostegno all’Is.
In quell’occasione Halili rimase in carcere dieci giorni, per poi scontare due
anni agli arresti domiciliari. La famiglia ha preso le distanze, attraverso le
parole del padre Mohamed: “Ci aveva promesso che non l’avrebbe fatto mai più.
Sono pentito, dovevo mandarlo via prima. Ci ha di nuovo rovinato la vita”.
Secondo
gli inquirenti, Halili stava progettando un attentato che potesse provocare
“più morti possibili”, attraverso l’uso di un camion bomba. “Bisogna uccidere i
miscredenti con ordigni e pallottole. Se non riesci, sgozzali con un coltello o
investili con l’auto” scriveva sotto falso nome il ragazzo sui social network.
Dopo il
primo arresto Halili è passato dall’indottrinamento al livello successivo: la
concreta ricerca di uomini disposti a commettere azioni terroristiche. Per non
farsi intercettare si recava in diversi internet point, spostandosi dal
capoluogo ai comuni della provincia. Ma negli ultimi tempi girava per lo più
nella zona di Barriera di Milano, quartiere settentrionale di Torino, in orari
sempre differenti, e frequentava i due phone center di corso Giulio Cesare. Lì
si collegava a specifici siti web, come Jiadology o Jjadwatch, e scaricava
materiali jihadisti contenenti esecuzioni, attacchi, mutilazioni e testi. In
questo modo rafforzava il suo credo e seminava odio tra i suoi contatti.
Nel
capoluogo piemontese, negli ultimi vent’anni l’intelligence è intervenuta altre
quattro volte per prevenire forme di terrorismo islamista. Nel 1998 aveva
smantellato una rete del Gruppo islamico armato (Gia), un’organizzazione
terroristica algerina alla ricerca di finanziamenti, adepti e armi per
attentati in Francia e Algeria. Nello stesso anno era stato arrestato
l’egiziano Noij Alì Khaled, un affiliato di Al Qaeda, in zona Mirafiori. Nel
novembre del 2003 è stato espulso Abdul Qadir Fadl Allah Mamom, un imam di
Carmagnola sposato con due italiane convertite, colpevole di gestire quattro
blog su cui inneggiava alla guerra santa. Infine Bouquiri Bouchta, un
marocchino proprietario di una macelleria a Porta Palazzo, è stato rimpatriato
nel 2005 con l’accusa di pronunciare prediche fuorvianti nella moschea di via
Cottolengo, d’ispirazione salafita, una visione estrema e minoritaria
dell’islam non necessariamente violenta.
Gli
obiettivi principali della propaganda jiahdista sono ragazzi delle fasce più
povere, fragili, instabili, in cerca di un’identità
Dall’inizio
del 2018 dall’Italia sono state espulse 49 persone sospettate di terrorismo,
nel 2017 erano state 105. Dalle espulsioni si è passati agli arresti, come nel
caso di Abdel Mostafa Omer, 59 anni, di Foggia, accusato di “indottrinare
giovani menti musulmane”. Gli obiettivi principali della propaganda jiahdista
infatti sono per lo più ragazzi di seconda generazione, delle fasce più povere,
fragili, instabili, mossi da una miscela d’odio e disperazione, alla ricerca di
un’identità e disposti a farsi addestrare per commettere attentati
terroristici. L’antiterrorismo monitora costantemente la situazione, che
risulta però sempre più complessa. Inoltre con la diffusione della propaganda
online queste persone si radicalizzano principalmente sul web, lontano dai
luoghi di preghiera, autoescludendosi dalla comunità di riferimento che non può
intervenire in alcun modo.
Ma cosa
ne pensano i ragazzi che abbiamo intervistato? “Se si guardano le statistiche
si può notare che spesso le persone radicalizzate hanno già un passato in carcere
o con precedenti”, osserva Azzedine, aggiungendo che “sicuramente la mancanza
di una figura come quella del papa per i cattolici crea dei problemi. Con la
caduta dell’impero ottomano infatti è venuta a mancare anche un’unità religiosa
vera e propria”. Ghoufran precisa che “i ragazzi radicalizzati non conoscono il
vero islam, si chiudono in un’interpretazione fai da te. Vogliono avvicinarsi
alle proprie origini ma lo fanno in modo sbagliato”. Per Hassan, “è ingiusto
che la nostra religione sia così stereotipata. Di certo la colpa è anche della
comunità islamica che trasmette un senso di incoerenza e non sempre fornisce
spiegazioni”.
L’area
riservata alle sepolture musulmane nel cimitero Parco, Torino, marzo 2018. (Giovanni
Barbato)
La terra
dei bambini senza nome

di Luca
Forestieri e Gabriele Gentile
Le edere
rampicanti finiscono in prossimità dell’entrata, quando il muro di cinta in
mattoni rossi cede il passo a un largo spiazzo pavimentato a lastroni. Prima di
entrare, la cancellata in ferro nero introduce a un lungo colonnato di cemento
per dare ombra e riparo, durante l’afa estiva o una pioggia novembrina. Il
cimitero Parco, il secondo per estensione a Torino, è stato inaugurato nel 1972
e si ispira ai modelli di tipo nordico, immersi nel verde e minimalisti.
Nel
novembre del 2012, la giunta comunale torinese ha approvato una delibera che
assegna all’interno del cimitero un’area di sepoltura per i defunti di altre
religioni, nel rispetto delle loro tradizioni. Ad accogliere i visitatori, si
staglia in cielo un’alta croce in acciaio. Le collinette che rendono ondulato
il terreno sono artificiali, e servono a nascondere i complessi di tumulazione.
Percorrendo
il sentiero che si snoda tra le sepolture islamiche si nota che la disposizione
delle lapidi – forse per motivi di spazio – non segue una logica uniforme.
Eppure secondo la scuola sunnita malikita, dopo la morte, è necessario che il
corpo sia adagiato sul lato destro, con il viso rivolto verso la qibla, che
indica la direzione in cui si trova la Mecca. Le tombe sono estremamente
semplici, nel rispetto della tradizione islamica che proibisce l’uso di
elementi troppo elaborati sopra le sepolture, e l’usanza di deporre dei fiori è
poco condivisa dai musulmani, secondo cui la morte è qualcosa che il credente è
chiamato ad accettare integralmente, inserita nel piano provvidenziale di
Allah. Tuttavia, tra le aiuole del cimitero è visibile una divisione naturale
delle sepolture: da una parte ci sono le lapidi degli adulti, anche con delle
iscrizioni; dall’altra quelle dei bambini, scarne e talvolta senza nome.
Il riposo
possibile

In Italia, a fronte di una popolazione musulmana di circa 2,5 milioni di
persone, ci sono solo una ventina di zone dedicate alla sepoltura islamica. Nel
capoluogo piemontese, all’interno del cimitero Parco, la parte dedicata alla
comunità islamica è di circa 600 metri quadrati e ospita attualmente poco più
di trecento tombe. Nonostante il processo d’integrazione stia avanzando,
l’Unione delle comunità islamiche d’Italia (Ucoii) stima che il 95 per cento delle
salme prenda la via del rientro in patria. Spiega il sociologo Mohammed Khalid
Rhazzali nella raccolta di saggi Vedere oltre(Lindau)
che “l’esistenza di cimiteri musulmani in Italia è da molti di loro (i credenti,
ndr) ignorata, tanto da apparire una conquista remota”.
La
dottrina islamica prevede però che il defunto non debba essere spostato dal
territorio in cui è avvenuto il decesso senza una valida ragione: da un punto
di vista esteriore qualsiasi spostamento non necessario concorrerebbe a un
ritardo della sepoltura e a un conseguente decadimento del corpo; sul piano
della fede, la regola di seppellire il defunto nel luogo in cui è avvenuto il
decesso fa riferimento alla generale necessità di accettare le circostanze
provvidenziali di tempo e luogo in cui Allah decreta la fine della vita.
Secondo Rhazzali però, i migranti “non hanno dubbi che una ‘buona morte’
avvenga solo quando con essa si acceda a un riposo possibile nella terra
d’origine”.