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La desertificazione demografica dei Balcani

Vittorio
Filippi, East Journal, 7 giugno 2018

“Sconvolgimento
demografico in Europa” titola Le Monde diplomatique di giugno.
Let’s
pretend we’re stealing the car.

Nel 1900
in Europa risiedeva un abitante della terra su quattro, oggi uno su dieci, nel
2050 saremo a malapena il 7% del mondo. Un’Europa che non cresce
demograficamente dal 1993, pur con velocità differenti. C’è infatti un’Europa
del nord-ovest vitale sia come saldo naturale che come saldo migratorio. C’è
poi un’Europa tedesca e meridionale in cui il saldo naturale insufficiente è
compensato da quello migratorio. C’è infine l’Europa centrale ed orientale
(Russia esclusa) in cui giocano gli effetti perversi di denatalità ed
emigrazioni.

I Balcani
sono l’epicentro di questa desertificazione demografica (ed umana in senso
antropologico) europea che già negli anni settanta Pierre Chaunu aveva predetto
chiamandola “peste blanche”. Della ex Jugoslavia da questa “peste” si salva per
ora solo la Slovenia, anche se le ultime elezioni, com’è noto, hanno premiato
gli anti-immigrati. Per il resto è un disastro condensabile in quel 20% (cioè un
quinto della popolazione!) di abitanti perduto dalla Bosnia negli ultimi
trent’anni.
E’ vero
che già nella Jugoslavia socialista l’emigrazione era una realtà rilevante ed
il gastarbajter era sinonimo di emigrato. Poi le guerre degli anni novanta, le
pulizie etniche e lo sfacelo dell’economia hanno accelerato denatalità ed esodi
(i due fenomeni sono notoriamente connessi). Anche in Croazia, eccetto la
capitale e la zona costiera baciata dal turismo, la desertificazione
demografica corre ed investe aree come la Slavonia in cui la presenza di
piccole imprese austriache, italiane ed ungheresi non riesce comunque a
trattenere i giovani. Dall’indipendenza del 1991 la Croazia ha perso 627 mila
abitanti, cioè il 13% della popolazione dell’epoca. Va messo in conto anche
l’esodo forzato di 200 mila serbi durante l’operazione “Tempesta” del 1995, per
cui – se le tendenze denatalistiche e migratorie dovessero continuare – il
paese potrebbe veder sparire un quarto della sua popolazione in un decennio. E
lo stesso avviene dall’altra parte del confine, in quella Posavina bosniaca in
cui i salari da 200 euro ed una flessibilità che rende del tutto teorici i
diritti lavorativi risultano ben poco attrattivi nei confronti della domanda di
lavoro delle imprese tedesche o scandinave.
I flussi
migratori balcanici seguono rotte tortuose, in cui – specie per le professioni
sanitarie, edili, alberghiere e dei servizi – bosniaci, macedoni e serbi vanno
a lavorare in Croazia ed in Slovenia mentre croati e sloveni prendono la strada
per la vicina Germania. Naturalmente l’emorragia dei giovani qualificati non
solo mette in difficoltà le economie locali, ma affossa ulteriormente la
natalità.
Solo
nell’inverno 2014-2015 centomila persone – cioè il 7% del paese – hanno
lasciato il Kosovo dirigendosi verso la Vojvodina serba da cui entrare poi
illegalmente in Ungheria e da qui in Germania; addirittura il 7 settembre dello
scorso anno le autorità kosovare bloccarono la stazione delle corriere di
Pristina per “eccesso” di emigranti in fuga. Gli stessi movimenti migratori
investono anche il nord depresso del Montenegro ed il sud-est povero della
Serbia; da questa repubblica 160 mila persone se ne sono andate tra i
censimenti del 2002 e del 2011.
Per ora
le uniche politiche demografiche messe in cantiere da Croazia e Serbia per
combattere spopolamento ed invecchiamento si limitano ad accorati e patetici
inviti pro-life antiabortisti, mentre le delocalizzazioni industriali presenti
(spesso all’insegna del dumping sociale) non appaiono in grado di correggere il
disastro demografico dei Balcani. Un quarto di secolo dopo gli esodi violenti
degli anni novanta, un’altro esodo – silenzioso e non cruento – sembra voler
mantenere i Balcani in un perenne destino di Europa sempre marginale, di eterna
“altra Europa”.