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Israele: e se cade Netanyahu? Netanyahu rischia davvero di cadere? Con quali conseguenze? L’opinione di Eric Salerno (Il Messaggero)

Francesco
Snoriguzzi, L’Indro, 22 giugno 2018

La
notizia della messa in stato di accusa di Sarah Netanyahu, moglie del Primo
Ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, riporta in primo piano i guai che
questi sta avendo da alcuni mesi a questa parte e che rischierebbero di
affossare la sua carriera politica.
Sarah
Netanyahu è accusata di aver addebitato allo Stato il costo di pasti privati
per una somma corrispondente all’incirca a settantamila euro: nonostante si
tratti della moglie del Primo Ministro, secondo la legge israeliana si tratta
di un reato.
La
vicenda non tocca direttamente il Primo Ministro, il cui nome non compare
nemmeno una volta negli atti, ma si somma ad una serie di altre vicende che lo
riguardano in prima persona. Benjamin Netanyahu è infatti coinvolto attualmente
in tre inchieste giudiziarie per corruzione: le tre inchieste riguardano un
caso di raccomandazioni, un caso di intervento indebito per favorire un
giornale a scapito di un altro e, per finire, il caso delle tangenti relative
alla vendita di sottomarini tedeschi ad Israele. 

I procedimenti sono ancora in
corso ed è difficile fare delle ipotesi sugli esiti e, soprattutto, sui tempi;
in ogni caso, l’accumularsi di causa che lo coinvolgono, direttamente o
indirettamente, rende verosimile lo scenario sua uscita dalla scena politica.

Già Primo
Ministro di Israele tra il 1996 e il 1999, Netanyahu è a capo del Likud (in
ebraico, Consolidamento), il partito della Destra nazionalista e liberale
israeliana. Nuovamente Primo Ministro nel 2009, ha guidato il Paese per quasi
dieci anni, dando alla politica israeliana un’impronta piuttosto personale ed
aggressiva e, nonostante il parziale isolamento internazionale che ne è
derivato, è riuscito a mantenersi saldo al potere. Non è strano, quindi, che le
opposizioni vedano nei suoi guai giudiziari una possibilità per accelerare la
fine di un avversario che sembra in grado di restare ancorato al comando del
Paese per molti anni ancora. 

In Israele, mentre le inchieste sul Primo Ministro
venivano alla luce, si succedevano manifestazioni guidate soprattutto dai
partiti più progressisti; secondo molti sondaggi, però, la gran parte
dell’opinione pubblica sembra continuare a gradire l’azione di Netanyahu.

Se in
effetti ci trovassimo prossimi alla fine politica di Netanyahu, però, è lecito
domandarsi quali potrebbero essere le conseguenze dell’uscita di scena di un
personaggio che è stato il protagonista indiscusso della politica israeliana
degli ultimi dieci anni.
Prima di
tutto, bisognerà capire se un’eventuale caduta del Primo Ministro porterebbe ad
elezioni anticipate o se si troverebbe una soluzione parlamentare; soprattutto,
però, non è chiaro se, allo stato attuale esista un candidato altrettanto
carismatico che possa prendere il posto di Netanyahu (nel suo partito o nei
partiti rivali).
Per
quanto riguarda la politica interna, il rapporto di Netanyahu con i palestinesi
è sempre stato improntato ad una dura intransigenza, specie per quanto riguarda
l’atteggiamento nei confronti della Striscia di Gaza, attualmente gestita da Hamas
(si parla di una nuova vasta operazione militare che starebbe per essere
lanciata sulla città per rispondere al lancio di aquiloni incendiari verso i
terreni israeliani): se il primo Ministro dovesse uscire di scena, è possibile
(ma non scontato) che un suo eventuale successore prenda in considerazione
approcci più moderati.
Lo stesso
può dirsi per quanto riguarda la politica estera. La questione in cui Netanyahu
ha mantenuto la linea più aggressiva è certamente il rapporto conflittuale con
l’Iran che, a catena, ha coinvolto in momenti differenti la Siria e il Libano.
Il conflitto politico con Teheran, poi, ha avuto ripercussioni differenti con
altri Paesi, avvicinando sempre di più Israele all’Arabia Saudita (che è la
principale rivale dell’Iran all’interno del mondo islamico. L’approccio
decisionista e spesso provocatorio di Netanyahu, ha poi favorito una stretta
collaborazione con il nuovo Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, la cui
politica è caratterizzata, come quella del collega israeliano, da un sostanziale
disinteresse per le istituzioni internazionali: l’uscita degli USA dall’accordo
sul nucleare iraniano, faticosamente raggiunto sotto la presidenza del
predecessore di Trump, Barak Obama, può essere letta certamente come una
convergenza tra le posizioni del Presidente statunitense e del Primo Ministro
israeliano. È infatti chiaro che, mentre la politica di Trump isola sempre di
più gli USA dai loro storici alleati, l’intesa tra Washington e Tel Aviv sembra
non essere mai stata così salda (si veda la questione di Gerusalemme Capitale):
allo stesso tempo, Netanyahu ha allontanato sempre di più Israele dall’Unione
Europea, proprio come ha fatto Trump con gli USA.
Per
tentare di capire se siamo effettivamente di fronte alla fine dell’Era
Netanyahu e quali conseguenze potrebbe avere questo eventuale passaggio sulla
politica israeliana, abbiamo parlato con Eric Salerno, ex-corrispondente per Il
Messaggero da Tel Aviv, ottimo conoscitore di Israele.
L’ipotesi
di una caduta del Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, a causa degli
scandali che hanno coinvolto lui e sua moglie è verosimile?
Sì, ma
non direi in tempi brevi. Per adesso c’è l’incriminazione della moglie che, dal
punto di vista legale, non lo coinvolge direttamente; fino ad ora, si è accuratamente
evitato di coinvolgerlo, tanto che non viene nemmeno nominato nei documenti
dell’incriminazione. Per quanto riguarda le altre cose, si sta ancora
aspettando l’eventuale incriminazione per vari reati: ci sono tre inchieste su
di lui per corruzione. Per adesso, però, non sappiano quando l’Autorità
Giudiziaria deciderà di muoversi. Stiamo quindi parlando di tempi ancora
lunghi: credo che non succederanno cose importanti prima dell’autunno.
Se
Netanyahu dovesse effettivamente cadere, si tratterebbe della fine di una fase
politica per Israele: quali sarebbero gli scenari politici più probabili per il
Paese?
anche qui
facciamo ipotesi a lunga scadenza perché, innanzi tutto, se lui, di fronte ad
un’eventuale incriminazione, deciderà di dimettersi, il che non è detto. Le
elezioni sono previste per l’anno prossimo, per cui, teoricamente, lui può
trascinare avanti le cose fino a quel momento. Bisogna comunque tenere presente
che lui ha, dalla sua parte, una grande parte dell’opinione pubblica
israeliana, che non è particolarmente turbata da delle accuse portate avanti
nei suoi confronti fino ad ora.
Certamente,
se lui non sarà rieletto, ci sarà un altro Governo e un altro Primo Ministro;
per quanto riguarda l’azione del prossimo Governo e del prossimo Primo Ministro
tutte le ipotesi sono valide in questo momento. Teoricamente si parla di un
progetto americano di rilancio del processo di pace e qualcuno sostiene che,
nel giro di un mese, gli americani si presenteranno in Medio Oriente con questa
proposta: non sappiamo quale sia e non sappiamo se ha qualche possibilità di
successo, ovvero se possa avviare un nuovo dialogo tra israeliani e palestinesi
oppure no. Stiamo parlando di come sarà la scena politica fra un anno e un
anno, in Medio Oriente, può essere un periodo molto molto lungo, anche perché,
e non bisogna dimenticarlo, si parla ancora della possibilità di un conflitto
che coinvolga, in qualche modo, l’Iran ed Hezbollah, in Libano, da una parte, e
Israele, l’Arabia Saudita e gli stessi americani, dall’altro: è di questo che
si parla oggi in quella regione, meno della moglie di Netanyahu.
Netanyahu
è famoso per la sua linea dura nei confronti dei palestinesi: cosa potrebbe
cambiare con la sua uscita di scena, in particolare per quanto riguarda la
gestione della situazione nella Striscia di Gaza?
Gaza, per
Israele, è come un prurito in un angolo della schiena: a loro non interessa;
vorrebbero tenere tranquilla Gaza nella situazione in cui è. Se riescono in
qualche modo a convincere Hamas, che gestisce Gaza, a stare calmo e, come
propongono varie forze (compresi gli americani), finanziare la gestione di Gaza
(evitando di finanziare direttamente Hamas) in modo da migliorare la situazione
di povertà e depressione dei milioni di abitanti della Striscia, allora si
calmeranno le cose. Questa è l’unica cosa a cui punta in verità Netanyahu e,
direi, il grosso della leadership israeliana: andare avanti senza conflitti per
poter pensare di risolvere la situazione a Gaza e nella Cisgiordania occupata
tra uno, cinque, dieci o venti anni.
Per
quanto riguarda la politica estera, pensa che un cambio a Tel Aviv potrebbe
segnare un mutamento nei rapporti, attualmente molto tesi, con l’Iran? (che
riflessi potrebbe avere questo ipotetico mutamento sul rapporto con il vicino
libanese?)
teoricamente
sì, ma io credo che il rapporto con Teheran potrebbe diventare un rapporto di
grande amore se c’è un cambiamento di regime in Iran. Al momento non credo che
gli Ayatollah troveranno una formula per mettersi d’accordo con gli israeliani
(mentre la popolazione iraniana non ha problemi con Israele). Ovviamente, se la
situazione in Iran cambiasse, cosa teoricamente prevedibile però al momento
imminente, allora cambierebbe anche la situazione in Libano e cambierebbe tutto
l’assetto del Medio Oriente. Tutto sommato, oggi si può guardare ai giochi in
corso tra gli Stati Uniti, la Russia, l’Arabia Saudita, l’Iran ed Israele:
stanno tutti cercando di ridividere la regione secondo gli interessi di ognuno
e di evitare uno scontro armato. È per questo che si assiste a queste
scaramucce, a Gaza, in Siria, con Hezbollah eccetera: o si fa una guerra vera e
propria, che porterà grande devastazione prima che si raggiunga un’intesa, o
Putin, Trump, Netanyahu e gli altri, che si parlano quasi tutti i giorni,
troveranno un modo per calmare la situazione e creare un assetto politico ed
economico (non dimentichiamo il petrolio) che funzioni per tutti.
Esiste un
rapporto poco pubblicizzato ma piuttosto consolidato tra Israele ed alcuni
Paesi del mondo islamico, in particolare l’Arabia Saudita, in chiave
anti-itaniana: con un’eventuale caduta di Netanyahu potrebbero venire a
modificarsi i rapporti tra i due Paesi?
L’Arabia
Saudita, oggi, ha più bisogno di Israele di quanto Israele non ne abbia
dell’Arabia Saudita. L’Arabia Saudita oggi ha una popolazione che chiede
determinate cose, una casa reale che sta cambiando un po’ ma ancora non
abbastanza e la possibilità di uno scontro armato con l’Iran: è perciò l’Arabia
Saudita che ha bisogno della forza di Israele, che è l’unica potenza nucleare
della regione e che ha quasi ‘in tasca’ il grande alleato,dato che l’America
segue molto quello che Israele chiede
Il Primo
Ministro israeliano è stato uno dei pochi sostenitori esteri delle politiche
del Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump: l’eventuale fine dell’era
Netanyahu potrebbe comportare un mutamento dell’asse con tra Tel Aviv e
Washington?
No,
assolutamente no. Gli Stati Uniti sono un alleato fondamentale per Israele e i
rapporti si manterranno ottimi tra i due Paesi.

Un’eventuale
caduta di Netanyahu, quindi, non implicherebbe mutamenti né in politica
interna, né in politica estera?
Io credo
di no. Anche se Netanyahu dovesse sparire, il suo successore sarà costretto a
seguire una politica simile a quella che lui sta portando avanti
adesso. Il grosso dell’opinione pubblica israeliana vuole un Netanyahu:
chi sarà questo eventuale nuovo Netanyahu non lo sappiamo noi ma non lo sanno
nemmeno loro perché non hanno pensato a chi potrebbe sostituirlo, né da un punto
di vista della politica interna, né per la capacità di gestire tutti i grossi
problemi del Paese e i rapporti con l’estero. Oggi non c’è, sulla scena
politica israeliana, un personaggio come lui: deve ancora emergere. In caso di
elezioni, gli israeliani voterebbero in maniera simile perché, per la
maggioranza di loro, questo è ciò che funziona. Questo perché Netanyahu ha
aperto ancora di più il mondo ad Israele, perché l’economia va bene, perché in
questi anni non ci sono state delle guerre importanti e anche questo è
importante; lui riesce a parlare in continuazione di scontri e minacce ma, per
adesso, la maggioranza degli israeliani non vuole andare in guerra.