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Il quinto anniversario delle rivolte di Gezi Park: un ricordo

Giustina
Selvelli, East Journal, 28 giugno 2018

Era fine
maggio del 2013 quando le proteste di alcune decine di ambientalisti in difesa
del centralissimo parco di
Gezi ad Istanbul
si trasformarono in uno degli eventi più importanti
della storia turca recente, catalizzando l’attenzione del mondo intero.
La
facciata dell’AKM in piazza Taksim. Autore: Giustina Selvelli

Le rivolte
di Gezi Park scoppiarono in risposta al piano di riqualificazione di piazza
Taksim con il quale si prevedeva l’abbattimento di numerosi alberi e la
costruzione del 49esimo centro commerciale della città. Già durante i primi
scontri avvenuti a cavallo fra fine
maggio e inizio giugno
, la polizia impiegò quantità massicce di lacrimogeni
ed idranti pieni di pericolosi repellenti chimici. Il 2 giugno i manifestanti
riuscirono a disperdere e respingere la polizia, dando avvio a un vero
esperimento sociale di vita comunitaria, che sarebbe diventato parte di una
nuova “narrazione epica” nella coscienza collettiva di buona parte della
popolazione. Il 15 giugno, l’occupazione del parco venne spezzata dalla
violenta irruzione delle forze dell’ordine, intervenute a porre fine alle quasi
due settimane di resistenza ininterrotta nel cuore di piazza Taksim.
A cinque
anni dal sogno di Gezi Park, ben poco sembra sopravvivere in Turchia di quel
periodo di azione sovversiva, libertà ed energia espressiva, di quel coro
polifonico la cui eco riuscì a risuonare a livello internazionale come
messaggio di incoraggiamento alla lotta per la difesa di valori irrinunciabili.
Eppure, chi ha vissuto quell’esperienza non potrà mai dimenticare l’utopia
della molteplicità restituita, visibile, pacifica, espressa nei gesti
quotidiani, nella riappropriazione degli spazi, nella ridenominazione
metaforica delle coordinate del parco liberato, nella coesistenza inaspettata
di una varietà di componenti. Come riuscire a seppellire il ricordo, o anche
solo l’illusione del dialogo realizzato durante quegli intensi momenti di vita
comune al parco?
Una nuova
organizzazione dello spazio
L’occupazione
di Gezi Park avviata il 2 giugno trasformò l’area in uno spazio liberato dalle
pressioni delle autorità e dal potere della polizia. Per due settimane, il parco venne vissuto
come una cornice autonoma per la sperimentazione di inedite forme di relazioni
sociali, diventando una sorta di “città nella città”, grazie a delle nuove coordinate
simboliche, e alla creazione di veri e propri “confini” dell’area di azione
mediante l’impiego di barricate protettive. Tale spazio autogovernato incarnava
allo stesso tempo un simbolo utopistico di resistenza ed un luogo materiale di
pratica e di sfida, ospitante fra l’altro un centro di assistenza sanitaria,
una caffetteria, una biblioteca, una galleria fotografica, un palcoscenico per
eventi musicali, nonché un orto. 
Il parco “liberato” offriva ai suoi visitatori
od occupanti la possibilità di fare esperienza diretta di condivisione e solidarietà,
mobilitando le energie necessarie per la distribuzione delle risorse (tra cui
tende, coperte, cibo, medicine, maschere antigas e libri) e per la gestione
delle attività vitali (pronto soccorso, pulizia del parco, preparazione dei
pasti, comunicazione interna e con i media). Non deve pertanto stupire come
l’esperienza del parco di Gezi sia stata associata alla forma della comune in
vari modi.
Un
mosaico di identità diverse
Per
quanto riguarda il fattore sociale, l’esperimento di rivolta di Gezi Park
veniva portato avanti da un insieme eterogeneo di persone, unendo soggetti
politici con identità piuttosto distanti e talvolta persino antagoniste: al
parco accorrevano i sostenitori dell’opposizione kemalista del CHP così come i
gruppi appartenenti alla sinistra radicale o al partito curdo (all’epoca BDP,
non ancora HDP). Il carattere delle proteste non era esclusivamente ecologista,
dal momento che il contesto di Gezi si prestava anche a fungere da palco per
l’espressione del malcontento di alcune tra le minoranze più marginalizzate,
tra cui armeni, curdi, e comunità LGBT. Il messaggio proveniente da Gezi Park
assomigliava così molto più ad un coro polifonico, in opposizione alle politiche
omogeneizzanti e “neo-ottomaniste” del nuovo “Sultano”. 
Fra le forze presenti
più interessanti, spiccavano di certo i cosiddetti “musulmani
anticapitalisti
”, i quali mettevano in discussione il modello di
sviluppo economico messo in atto da Erdo
ğan da un punto di vista religioso.
La critica ed il dialogo costituivano i fattori più visibili che rendevano
questa resistenza una sorta di contesto sociale utopistico. Sembrava infatti
che tutte le componenti perseguissero gli stessi obiettivi di difesa di uno
spazio di giustizia e l’immaginario di un paese in cui poter vivere in maniera
equa, libera e solidale.
Il ruolo
delle minoranze: armeni e curdi
Nel
giustificare il progetto di riqualificazione di piazza Taksim, il governo
dell’AKP faceva riferimento ad una specifica volontà di ristabilire la “memoria
storica” del luogo, promettendo di ricostruire le caserme militari (demolite
nel 1940), in cui ospitare il nuovo centro commerciale. In realtà, quelle
stesse caserme avevano in precedenza distrutto un cimitero
armeno
, un fatto che veniva sottolineato dalla rappresentanza armena della città durante
le proteste. E così, alla versione “ufficiale” della storia si contrapponeva
ora la voce delle comunità minoritarie, che nello spazio liberato delle rivolte
riuscivano ad esprimere la loro presenza anche attraverso svariate forme di scrittura
pubblica, prima fra tutte i graffiti. 
Di base in Turchia ogni scelta di
esprimersi in una lingua diversa da quella ufficiale turca rappresenta un modo
per riappropriarsi simbolicamente di uno spazio, dal momento che le lingue
minoritarie sono altamente
discriminate
e godono di ben pochi diritti alla visibilità pubblica.
Così, accanto alla “Via Hrant Dink”, nominata in onore del giornalista armeno
ucciso nel 2007, agli striscioni e ai segnali scritti in varie lingue, il
centro della città si riempiva in quei giorni di graffiti, specialmente in lingua
curda, tra cui spiccavano messaggi che ricordavano il massacro di Roboski
risalente al dicembre 2011, quando aerei militari turchi avevano attaccato un
villaggio al confine con l’Iraq, uccidendo 34 civili curdi, in buona parte
adolescenti. Certi slogan inneggiavano al PKK, altri alla libertà per il popolo
curdo, così come al processo di
pace.
La nuova
identità “Çapulcu” e il contesto di comunicazione
Con il
passare dei giorni, negli spazi concreti, simbolici così come virtuali, la
gente si identificava in maniera crescente con una parola insolita che era
sulla bocca di tutti: quella di “Çapulcu”. L’etichetta affibbiata ai
dimostranti da Erdo
ğan, con il senso dispregiativo di “bandito”,
era infatti stata riappropriata e risignificata attraverso la coniazione di un’identità
nuova di resistenza e di lotta. Questa veniva indossata con orgoglio, anche grazie
al celebre video
di Noam Chomsky, in cui il linguista e filosofo lanciava il suo messaggio di supporto
al parco tenendo accanto a sé un cartello recante la scritta “I am also a
Çapulcu”. Nella “via” ribattezzata in onore di Chomsky, così come in via Hrant
Dink, la sensazione di costituire parte di un sistema più grande riceveva
continue conferme ogni qual volta giungeva notizia delle svariate forme di solidarietà
provenienti dai vari angoli del mondo: “Qualcuno ci ha appena donato una pizza
dalla Nigeria!”, “Nelle città brasiliane stanno iniziando delle proteste per il
diritto ai mezzi pubblici!”, “In Bulgaria si stanno mobilitando per le strade
contro la corruzione!”. 
La facciata del palazzo dell’AKM (Atatürk Kültür
Merkezi), l’ex Centro Culturale Atatürk che era stato a sua volta occupato dai
dimostranti, si riempiva di ora in ora di striscioni colorati dei gruppi o
movimenti politici che sostenevano le rivolte. Si era così creata
un’incredibile superficie di espressione e scrittura il cui potere visivo
esercitava un’attrazione innegabile per qualsiasi “spettatore”, a validare la
realtà condivisa e multipla dello spazio riappropriato.
Echi da
un passato poetico
In quel momento
storico di “utopia collettiva”, quell’unica, indimenticabile parentesi
spazio-temporale, in parallelo alle lotte per un futuro di cambiamento sembrava
trovare voce e legittimarsi anche una relazione più sana con il passato. In
merito a ciò, vale la pena menzionare il ruolo esercitato in tali giorni da una
figura cruciale della cultura turca, ovvero Nazım Hikmet. Il 3 giugno 2013 (il
secondo giorno della “liberazione di Gezi”) ricorreva infatti il cinquantesimo
anniversario della morte del poeta, avvenuta nell’esilio a Mosca. Per i suoi
lettori ed estimatori, Hikmet rappresenta da sempre un potente simbolo di
resistenza, in virtù della sua sensibilità poetica verso le comunità più
marginalizzate del paese alle quali si sforzava di restituire voce nelle sue
opere. A causa delle sue vedute politiche, Hikmet divenne vittima di
persecuzione e trascorse molti anni in carcere prima di allontanarsi
definitivamente dalla Turchia, senza potervi più fare ritorno. 
Nei giorni
dell’occupazione di Gezi Park, era impossibile non notare i numerosi graffiti,
striscioni e cartelli che inneggiavano alla sua memoria, attraverso slogan come
i seguenti: “Haziranda ölmek zor” (“È difficile morire a giugno”), “3 Haziran
1963” (“3 giugno 1963”), “Nazım Usta” (“Nazım Maestro”), o “Nazım Hikmet vatan
hainli
ğine devam ediyor hala” (“Nazim Hikmet continua a
tradire la sua patria”). I manifestanti rendevano inoltre omaggio alla sua
opera, affiggendo i versi di alcune sue poesie sugli alberi che così
tenacemente si battevano per difendere. La celebre poesia “Ceviz a
ğacı” (L’albero di noce) sembrò così assumere una sorta di significato
profetico, offrendo intensa ispirazione ai guardiani del parco, che spesso
sostituivano nel famoso verso all’originale “parco di Gülhane” quello di “parco
di Gezi”, per ovvi motivi:
(…) Le
mie foglie sono le mie mani, centomila mani verdi,
 

centomila
mani io tendo, e ti tocco, Istanbul.

Le mie
foglie sono i miei occhi, e vedo con meraviglia

con
centomila occhi ti guardo, Istanbul.

Le mie
foglie battono, battono come centomila cuori.

Io sono
un albero di noce nel parco di Gezi,

ma né la
polizia né tu lo sapete.