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Cosa vuol dire ospitare (a Milano) un migrante

Lettera Donna, 21 giugno 2018

La
psicoterapeuta Elisa Accornero e suo marito Francesco hanno aperto la loro casa
per sei mesi ad Asad (nome di fantasia), all’epoca 18enne, grazie a un progetto
del Comune. Ecco la loro storia.

La vicenda della
nave Aquarius è amara, amarissima
. Però forse potrebbe essere utile.
È stata come uno schiaffo in piena faccia non solo per l’Italia, ma per tutta
l’Europa e in particolare per i Paesi che, a causa della loro collocazione
geografica, sono inevitabilmente meta di sbarchi. Dopo l’iniziale fase, inutile
e affatto costruttiva, caratterizzata da uno scambio di accuse anche molto
pesanti, pare sia
finalmente giunto il tempo di un confronto concreto sulla gestione dei flussi
migratori
.
Intanto,
il 13 giugno la nave Diciotti
della Guardia costiera è arrivata nel porto di Catania con a bordo oltre 900 profughi

e l’immagine di quei due ragazzi abbracciati, e morti, è diventata non uno
schiaffo in piena faccia ma un fortissimo pugno nello stomaco. Per tutti. Un
pugno che può essere attutito soltanto con una solidarietà autentica. E da qui
arriviamo al sistema di accoglienza italiano, composto in primis dagli hotspot,
dai Cara, dai Centri di permanenza per il rimpatrio, dai Centri di accoglienza
straordinaria e dalla rete Sprar. Quest’ultima, insieme alla Caritas, a diverse
amministrazioni regionali e comunali, associazioni e cooperative, svolge fra
l’altro un compito molto particolare, che consiste nella mediazione tra
richiedenti asilo e famiglie disposte ad ospitarli in casa propria.
Secondo i dati
recentemente forniti dalla Fondazione Migrantes
, sono oltre 400 le
famiglie che negli ultimi anni hanno dato la loro disponibilità e accolto
migranti sia minorenni che maggiorenni. Fra queste famiglie c’è anche quella
composta da Elisa Accornero, psicoterapeuta, e da suo marito Francesco, che
nell’ambito di un progetto messo in campo dal Comune di Milano hanno ospitato
per sei mesi un ventenne fuggito dalla Libia. Elisa ci ha raccontato
quest’esperienza, raccomandandosi però di utilizzare per il giovane un nome di
fantasia: «Ora lavora in un locale, a contatto con molte persone, e coi tempi
che corrono davvero non voglio che si possa risalire a lui». Lo chiameremo
quindi Asad.
DOMANDA:
Sia Lei che suo marito avete fatto volontariato in Italia e all’estero: quanto
questo ha influito sulla decisione di ospitare un rifugiato?

RISPOSTA: Sì, abbiamo partecipato a diversi campi di volontariato
internazionale. E, al di là di questo, abbiamo sempre condiviso la nostra casa
con viaggiatori tramite il sistema del couchsurfing; allo stesso modo, siamo
stati ospitati più volte. Non abbiamo mai pensato che accogliere persone in
casa fosse un rischio, se dietro c’è un’organizzazione che garantisce. Quindi
accogliere un ragazzo rifugiato ci è parsa un’occasione, siamo stati mossi
prima di tutto dalla curiosità e in secondo luogo dal desiderio di offrire
ospitalità a qualcuno che ne avesse bisogno per un periodo.
D: C’è
stato un episodio che vi ha convinto definitivamente?

R: Nell’estate precedente avevamo fatto un’esperienza in Messico in un centro
di accoglienza per i migranti lungo il cammino verso gli Usa. Eravamo molto
provati, soprattutto per le condizioni in cui avevamo lasciato le persone
incontrate, che avrebbero proseguito il viaggio con la sola speranza di
sopravvivere. Abbiamo conosciuto le loro storie di disperazione e la forza d’animo
che li spingeva a continuare. Accogliendo nella nostra casa una persona che
aveva vissuto una storia analoga, ci è sembrato di sentirci un po’ meno
impotenti di fronte all’enormità di quella sofferenza.
D: Qual è
stato l’iter che avete seguito per passare dall’idea alla sua concretizzazione?

R: Dopo una serie di colloqui di selezione e incontri di formazione, abbiamo
incontrato il ragazzo con l’assistente sociale e infine siamo andati a
prenderlo.
D: Cosa
ricorda del primo incontro con Asad?

R: Il ricordo è l’immagine di un ragazzo di 18 anni, vestito da rockettaro,
appena uscito da scuola, un po’ imbarazzato per la situazione. Era desideroso
di conoscerci, timoroso nell’affrontare questo percorso. Ci ha subito chiesto,
schiettamente, cosa ci spingesse a ospitarlo.
D: Qual è
la sua storia?

R: Quella dei tanti che arrivano in gommone dalla Libia.
D: Non
avete avuto il minimo timore, nessuna forma di diffidenza?

R: No. Eravamo due 35enni con un 18enne: cosa avrebbe dovuto farci? Camminando
per strada da sola, la sera, penso di correre più rischi.
D: E lui,
Asad, non aveva paura?

R: Un po’, credo. In fondo era la prima volta che veniva ospitato in una
famiglia straniera. Il giorno in cui è arrivato ci ha pulito tutta la casa,
chissà cosa temeva! Credo però che le sue paure si siano dissolte in fretta. Sì
è armonizzato con noi perfettamente.
D: Il
Comune di Milano vi ha supportato durante quei sei mesi?

R: Moltissimo. Gli operatori competenti sono sempre stati disponibili e ci
hanno sostenuto quando ne abbiamo avuto bisogno. Abbiamo anche fatto incontri
periodici con le altre famiglie per confrontare le nostre esperienze.
D: Quali
difficoltà avete incontrato?

R: Per noi non è stato difficile avere a che fare con una persona così giovane,
anche perché prima di arrivare da noi Asad aveva trascorso due anni in una
comunità per minori, quindi era già pienamente integrato. In più è un ragazzo
intelligente e brillante, molto volitivo. C’è da dire che la lontananza della
sua famiglia, i traumi che ha vissuto prima di arrivare a Milano hanno reso il
nostro rapporto qualcosa di più di una semplice convivenza: si sono instaurate
delle dinamiche familiari e non posso negare che ci siamo sentiti un po’
genitori. Ma è stata un’esperienza di crescita anche per noi, indubbiamente
positiva. Forse.
D: Quali
sono gli errori da non fare quando si affronta un simile percorso?

R: Non credo ci siano a priori delle regole di comportamento. Credo piuttosto
che l’importante sia non sottovalutare l’esperienza e chiedere aiuto, quanto
meno un confronto, ogni volta che si hanno dei dubbi. Gli esperti messi a
disposizione ci hanno supportato non solo da un punto di vista pratico: avere
degli spazi in cui poter riflettere e pensare insieme a qualcuno ci ha permesso
di fare tesoro di questo percorso.
D: Come
si è evoluta la convivenza con il vostro ospite?

R: Si è evoluta in termini di affetto e confidenza. Ci siamo aperti
reciprocamente, abbiamo trascorso dei momenti molto divertenti insieme, anche
con i nostri familiari: qualche piccola vacanza e molte serate con amici. Non
lo abbiamo mai forzato ad aprirsi con noi: se valutavamo che potesse fargli
bene, prima riflettevamo su come creare la situazione giusta. Per il resto,
abbiamo cercato di essere schietti e spontanei, magari aprendoci noi per primi
con lui e ribadendo sempre che c’eravamo e ci saremmo stati ogni volta che ne
avesse avuto bisogno.
D: I
momenti più critici?

R: Quelli in cui lo vedevamo in difficoltà e non sapevamo come aiutarlo.
D: E
quelli più belli?

R: Tanti. La vacanze fatte insieme, appunto, anche se brevi. La visita
all’acquario di Genova. Quella volta che l’abbiamo accompagnato a fare il
provino per un film. Quando invitava un amico a casa e cenavamo tutti insieme.
Ricordo quando abbiamo improvvisato una gita in Liguria: stavamo ospitando un
ragazzo brasiliano col couchsurfing, lui doveva recuperare una chitarra da un
conoscente e siamo partiti tutti alla ricerca di questa chitarra. Un gruppetto
improbabile e multietnico, abbiamo riso come pazzi per l’intera giornata.
D: Che
vita ha condotto Asad mentre abitava con voi?

R: Una vita normale: andava a scuola, lavorava, suonava la batteria. Nel poco
tempo libero usciva con gli amici. La domenica spesso veniva con noi dalla mia
famiglia in campagna.
D: Com’è
stato il momento dei saluti?

R: Sofferto. Ci dispiaceva tanto che se ne andasse, si era creata un’atmosfera
familiare. È rimasto con noi qualche mese in più, ci ha anche aiutato tanto
badando ai cani e alla casa in un periodo in cui siamo stati in India. Poi però
abbiamo concordato che andasse a vivere per conto suo, ci è sembrato giusto che
la sua vita proseguisse in modo autonomo.
D: Siete
ancora in contatto con lui?

R: Sempre. Quando è libero dai molto impegni di lavoro, ci vediamo. L’anno
scorso abbiamo trascorso insieme un week end da alcuni amici, è stato molto
bello ritrovarci.