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Asia centrale, jihadisti: pedina sfruttata da governi locali e Cremlino

Cristin
Cappelletti, L’Indro, 27 giugno 2018

L’Asia
centrale e il pericolo del diffondersi del jihadismo. Ne parliamo con Fabio
Indeo, Asia analyst al NATO Defense College Foundation e Frank Maracchione,
ricercatore dell’Università di Bologna e contributore per l’ISPI

A partire
dal 2016, parallelamente a l’intensificarsi degli attentati dello Stato
Islamico in Europa, con gli attacchi a Parigi e Bruxelles, diverse azioni
terroristiche hanno visto il coinvolgimento di jihadisti provenienti dall’Asia
centrale. Il 31 ottobre del 2016 l’attentatore dei ciclisti a Manhattan Sayfullo
Saipov aveva passaporto uzbeko. Il 2017, invece, si era aperto con l’attentato
dell’uzbeko Abdulkadir Masharipov al night club ‘Reina’ di Istanbul, dove
avevano perso la vita 39 persone. Il 7 aprile dello stesso anno a Stoccolma,
un altro uzbeko, Rakhmat Akilov si era reso protagonista di un attacco con il
proprio automezzo contro dei passanti.
Un filo
conduttore che ha convogliato l’interesse mediatico verso l’Asia centrale come
terreno fertile per l’espansione ed il reclutamento
jihadista
. Sarebbero 4.000 i foreign fighters centro asiatici che
dal 2012 al 2016 sono arrivati in Siria ed
Iraq
per combattere tra le fila dello Stato Islamico e di Jabhat al-Nusra, l’ala
armata di Al-Qaeda nel conflitto siriano.
I motivi
per cui l’Asia centrale
si è mostrata fino ad ora ‘hub’ per il reclutamento jihadista sono vari e
molteplici. La forte componente religiosa musulmana è uno dei primi, è una fede
che, tuttavia, è stata sostanzialmente congelata nel periodo sovietico. L’URSS,
per mantenere il controllo del territorio, ha cercato di reprimere tutte quelle
istanze di manifestazione religiose che però restavano sostanzialmente vive,
soprattutto nelle aree rurali. Come ci conferma Fabio Indeo, Asia analyst al
NATO Defense College Foundation.
I cinque
Stati sovrani nati dopo la caduta dell’Unione Sovietica nel 1991, ovvero
Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan, Kirghizistan e Kazakistan, hanno portato
avanti “politiche ancora più repressive nei confronti di un’espressione libera
della religione, in Stati dove inoltre il multipartitismo era, ed è,
 soltanto formale”. Inoltre, con la fine della Guerra Fredda, le nuove
leadership delle Repubbliche centro asiatiche non hanno portato un vero
cambiamento, “sono persistiti problemi di sottosviluppo, disoccupazione,
problemi che rendono un Paese più permeabile al radicalismo in sostanza”,
dichiara Frank Maracchione, ricercatore dell’Università di Bologna e
collaboratore ISPI.
Un
malcontento politico, il cui principale canale di sfogo era diventato
obbligatoriamente quello religioso. ”Il capillare controllo sociale e
securitario posto in essere dalle polizie dei singoli Stati ha impedito
l’esplosione di grossi gruppi islamico radicali nel territorio, ad eccezione
del Movimento
Islamico dell’Uzbekistan
. Di conseguenza, quando vi è stata la
possibilità, hanno visto nei successi dello Stato Islamico una sorta di brand
che poteva rafforzare internamente le istanze islamico radicale, e allo stesso
tempo, essere una sorta di palestra per questi foreign fighters che poi
tornavano in patria per cercare di portare avanti le loro richieste”, commenta
Indeo.
La
minaccia del ritorno dei foreign fighters dal Siraq in Asia centrale è stata
più volte sollevata come pericolo per la stabilità delle Repubbliche
ex-sovietiche, soprattutto a seguito degli attentati che negli ultimi anni
hanno coinvolto jihadisti provenienti dalla regione centro asiatica. Tuttavia,
tale preoccupazione potrebbe essere stata ingigantita più del dovuto. “Molto
spesso, non che non esista la minaccia dell’islamismo radicale in Asia
centrale, tale minaccia viene alimentata ad arte dai Governi”, commenta Indeo,
“soprattutto agli occhi degli occidentali e in particolare dopo il 2001 se,
come ha fatto Islom
Kharimov
in Uzbekistan, mi pongo come baluardo verso l’Occidente di
fronte alla deriva dell’islamismo radicale ottenendo supporto politico, armi,
cooperazione militare, all’interno del Paese posso sfruttare questa
preoccupazione per avere un controllo capillare da un punto di vista sociale e
per reprimere movimenti d’opposizione”.
Una paura
rivolta al diffondersi del jihadismo centro-asiatico che non riguarda solo
l’Occidente, ma che è stata sfruttata anche dalla Russia che nella regione,
insieme alla Cina, costituisce  una tra le potenze più influenti in chiave
politico-economica. Come spiegatoci da Indeo, Uzbekistan e Turkmenistan,
confinanti con l’Afghanistan, non aderiscono al Trattato di
Sicurezza Collettiva
, ovvero un’organizzazione di cooperazione
regionale securitaria guidata da Mosca. “La Russia continua a far pressione sui
governanti affinché entrino  a farne parte, garantendo loro protezione e
sicurezza dalla minaccia islamico radicale”, commenta Indeo. Una mossa che
ancora non sembra convincere i Governi di Tashkent e Ashgabat, memori del
passato sovietico: “vogliono condurre una politica indipendente da Mosca dal
punto di vista della sicurezza regionale, e quindi la Russia continua a
spingere con minacce, dichiarando che i militanti islamici nella regione
sarebbero più di 5000 a cui vanno sommati i Talebani e al-Qaeda; un modo
insomma per cercare di sensibilizzare questi Governi locali ad aderire ad
un’organizzazione che non ha soltanto fini securitari, ma anche di tipo
geopolitico”.
Ed è
proprio la Russia ad aver aiutato, indirettamente, il radicalizzarsi di questi
gruppi. Le migrazioni dai Paesi più poveri dell’Asia centrale, Uzbekistan,
Kirghizistan e Tagikistan, verso Kazakistan ed in particolare la Russia dove, “sradicati,
oppressi dalla popolazione locale, sfruttati economicamente, vittime di
xenofobia, questi migranti hanno visto ancora una volta nell’appartenenza
religiosa un rifugio, venendo quindi facilmente reclutati”, afferma Indeo. Ma
la posizione della Russia a riguardo del terrorismo in Asia centrale rimane
ambigua. Nonostante il mantra dell’intervento in Siria sia spesso alimentato
dalla necessità di evitare il diffondersi di gruppi islamico radicali dentro i
suoi confini, “Mosca non si oppone ai talebani in Afghanistan in
modo tale che questi, destabilizzando la regione, e rappresentando una minaccia
per le regioni confinanti, possano spingere questi Paesi asiatici verso la
Russia in termini di cooperazione militare”, dichiara Indeo. Una Russia che,
insieme alla Cina, sembra usare il terrorismo per far avanzare interessi
personali, come ci racconta Maracchione, “per esempio la SCO,
la Shanghai Cooperation Organization, dal 2005 porta avanti peace mission,
esercitazioni in funzione anti-terrorismo comuni a tutti gli Stati che, in
realtà, risultano essere operazioni anti-insurrezione”.
Un
pericolo jihadista esistente, la cui gravità e capacità di destabilizzazione
dell’area non sembra essere rispecchiata dalla realtà dei fatti, offuscata
dalla propaganda politica delle grandi potenze dell’area. “Ad eccezione del
MUI, il Movimento
Islamico dell’Uzbekistan
,  e del Jamaat
Ansarullah
in Tagikistan, gran parte di questi gruppi non hanno una
forza tale da poter rovesciare un Governo costituito. Molto spesso la loro
forza viene accresciuta ad arte dai governanti proprio per enfatizzare la
minaccia ed avere supporto esterno”, afferma Indeo. “Molti di questi gruppi non
sono neanche fisicamente in Asia centrale, a causa della forte repressione dei
Governi”, commenta Maracchione. Ad oggi, dunque, o almeno fino al 2015, è il
MIU ad aver rappresentato il gruppo più forte. Formatosi verso il 1997-98, ci
racconta Indeo, aveva due grosse personalità, quelle più riconosciute
dell’Islam radicale in Asia centrale, Juma Namangani e Tohir
Yo’Idosh
. Avevano origine nella Valle del Fergana, ovvero
quell’area condivisa tra Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan che prima non
esisteva, ma che è nata con la creazione delle Repubbliche indipendenti. “È
un’area densamente popolata, è la culla dell’islam radicale. I conflitti sorti
in quest’area sono legati al possesso dell’acqua e al controllo della terra,
perché essendo sovrappopolato vi sono conflittualità tra le diverse popolazioni
per accaparrarsi queste risorse”. Inoltre, Il passaggio nel 2001 con al-Qaeda
ha permesso al MUI di beneficiare di un canale di armi, economico e di un
supporto logistico notevole.
Ad oggi,
però, sembra che la più importante organizzazione jihadista dell’Asia centrale
sia stata decimata, a riprova, forse, di quanto il pericolo jihadista benchè
esistente abbia delle forme assai ridotte. “In effetti oggi si dibatte
sull’effettiva esistenza del MUI. Nel 2015, la sua adesione allo Stato Islamico,
 lo mette in seria difficoltà nelle relazioni con i Talebani ed al-Qaeda
che rappresentano in realtà la visione più tipica del jihadismo centro asiatico”,
commenta Maracchione. “Ad oggi si legge che sarebbe possibile che il MUI sia
stato ridotto a poche persone, proprio a causa di questi scontri interni che
avrebbero decimato le sue file. Si dice che la maggioranza dei cittadini uzbeki
in Siria siano per l’80% con al-Qaeda e quindi combattano con Jabhat al-Nusra,
e che afferiscano anche ad altre due organizzazioni il Katibat Tawhid wal Jihad
(KTJ) e Imam Buhari Brigade (IBB) e che quindi il MUI non sia più
l’organizzazione focale dell’Asia centrale”.
Anche
riguardo a recenti esplosioni di violenze legate a Jund al-Khilafa in
Kazakistan rimangono molti punti interrogativi, come confermato da Indeo, il
quale afferma che se da una parte queste attività sono giustificate dalla
mancata redistribuzione delle ricchezze con l’adesione di alcuni kazaki
all’Islam radicale, dall’altra la questione sembra molto strumentale. “Se in
Uzbekistan e Tagikistan”, continua Indeo, “vi è una tradizione lunghissima di
cultura islamica, di approfondimento dei testi islamici e di adesione ai
principi originali dell’islam, è un pò difficile vedere questo in Kazakistan. Non
vi è un attaccamento alla religione pari alle aree rurali uzbeke e tajike”.
L’uso
dell’Islam radicale, anche in regioni come l’Asia centrale, nonostante
l’effettiva presenza sia passata che presente di diversi gruppi jihadisti che
hanno condotto diversi attentati, sembra essere diventato lo strumento più
facile per i Governi locali per far avanzare pretese di politica interne e per
le potenze vicine per esercitare influenza sulla regione. “La discriminante
quando si parla di jihadismo in Asia centrale, nonostante la minaccia
terroristica eista, dipende sempre come questa venga strumentalizzata e
manipolata per ottenere un risultato differente da un punto di vista politico.
È facile parlare di rivolte islamiche, se non hai la possibilità di convogliare
il tuo dissenso da un punto di vista politico, ed è chiaro che una persona che
si ribella contro il sistema la puoi far passare come un terrorista islamico”,
conclude Indeo.