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Rom, la vita dopo lo sgombero

Enrico
Mugnai, Lettera43, 02 maggio 2018

L’80%
della popolazione vive ancora nelle baraccopoli. Che spesso sono
smantellate, come nel caso di Beinasco, nel Torinese. Le alternative sono
poche. E a pagare il prezzo più caro sono i bambini. 

Alessio
scende dal camper, tutto intorno capannoni industriali, poco lontano qualche
prostituta in attesa, anche se è solo pomeriggio. «La notte qui è pericoloso,
siamo isolati e non possiamo dormire tranquilli», dice. Temono di essere aggrediti
da qualche razzista o dai “protettori” preoccupati che la presenza di quella
famiglia rovini gli affari. Il piccolo Marco gioca sull’asfalto vicino alla
strada dove auto e tir sfrecciano. «In un mese abbiamo dovuto spostarci cinque
volte. Avevo parcheggiato vicino alla scuola per permettere a mio figlio di
frequentare, non c’era nessun divieto per i camper, ma ci hanno mandato via
anche da lì».




LO
SGOMBERO SOTTO LA NEVE. Domenica 4 marzo, prima che si chiudessero le urne, lui
e le sei famiglie rom che risiedevano dal 2010 nell’area di sosta autorizzata
di Borgaretto, frazione del comune di Beinasco, a Sud di Torino, avevano già
avuto il responso. La Giunta comunale aveva deciso che quel campo andava
smantellato. Lo sgombero, su un terreno reso ancor più impraticabile dalla
recente nevicata, ha costretto a spostarsi 11 adulti e 12 bambini, uno di
appena un mese e mezzo.
«LA
MANCATA INTEGRAZIONE». Maurizio Piazza, sindaco Pd di Beinasco, che il 7 marzo,
giorno dell’abbattimento definitivo, aveva voluto essere presente, ha
giustificato così la sua decisione: «Il motivo principale dello sgombero è la
mancata integrazione delle famiglie su cui abbiamo investito per otto anni. Non
hanno colto le opportunità offerte». Nel novembre 2015, ha continuato il primo
cittadino, «abbiamo tenuto un’assemblea pubblica per spiegare il percorso che
avevamo intrapreso, hanno partecipato 500 persone, molte delle quali hanno
manifestato insofferenza. Alcune con affermazioni di stampo apertamente
razzista. Per una casa popolare assegnata a una famiglia rom ho ricevuto una
petizione sottoscritta da 300 persone contrarie. Alcune famiglie italiane si
rifiutavano di mandare i figli a scuola coi rom e negli ultimi anni, insieme
alle forze dell’ordine, abbiamo dovuto monitorare il rischio di atti di
violenza verso il campo».
Nonostante
dal 2012 l’Italia abbia recepito la Strategia europea per l’integrazione di
rom, sinti e camminanti, le istituzioni continuano con l’applicazione di misure
esclusivamente emergenziali, come gli sgomberi. L’Associazione 21 Luglio ne ha
registrati 230 solo nel 2017. L’Unhcr stigmatizza queste azioni, spesso
effettuate senza il dovuto rispetto dei diritti umani, che accrescono il
disagio socio-economico delle famiglie invece di ridurlo, in aperto contrasto
con gli intenti della Strategia.
IL TRAUMA
DEI PIÙ PICCOLI. L’80% dei rom vive ancora nei campi, il 36% dei quali
illegali. Le privazioni per chi ci passa l’intera esistenza sono tali che
l’aspettativa di vita è di 10 anni inferiore a quella degli italiani. A subire
il trauma maggiore per i continui spostamenti forzati sono i bambini che, oltre
all’aspetto psicologico derivante dalla perdita della casa, si trovano a vivere
lontano dagli istituti scolastici a cui sono iscritti, con ripercussioni negative
sulla frequenza. Non stupiscono quindi i dati dell’Anci secondo i quali dal
2007 al 2014 la diminuzione dei bambini rom a scuola è stata del 5,6%, con una
percentuale maggiore per gli asili nido e le elementari. Senza la volontà
politica di superare la segregazione razziale e realizzare interventi di lungo
respiro, gli invisibili sono finiti per diventare inesistenti. Secondo la
Commissione straordinaria del Senato 15 mila bambini rom nati in Italia, per la
legge, non esistono.
L’80% dei
rom vive in campi.
Quello
che più ha colpito le famiglie di Borgaretto è stata la pressione esercitata
dalle istituzioni. «Dicevano che dovevamo andarcene altrimenti ci avrebbero
portato via i bambini. Anche ora che è stato distrutto il campo stanno facendo
di tutto per mandarci via da Beinasco», racconta Naida, moglie di Alessio, al
terzo mese di gravidanza. Molti altri rom hanno raccontato di minacce ricevute
negli ultimi mesi di residenza al campo, sia da parte delle forze dell’ordine
sia dai membri dell’amministrazione comunale, cosa che il sindaco Piazza
smentisce categoricamente.
SPAVENTATI
DAI SERVIZI SOCIALI. Anche l’avvocato Gianluca Vitale, che ha scelto di
difendere i diritti delle famiglie sgomberate, era presente il giorno
dell’abbattimento: «Si è contestato un abuso che esisteva da 10 anni, le
costruzioni erano le stesse e il Comune ne era consapevole. Avrebbero potuto
abbattere le casette e lasciarli vivere nelle roulotte o nei camper, ma hanno
aggiunto l’allontanamento dal campo per violazione del regolamento. La
motivazione dei provvedimenti era assolutamente erronea, priva di presupposti,
non corrispondente ai singoli casi dei nuclei familiari. Si è trattato di
provvedimenti collettivi e discriminatori». Nessuna famiglia ha voluto fare
ricorso contro lo sgombero, anche se avrebbero avuto buone possibilità di
vincere. «Sono molto spaventati, la minaccia di dare i bambini in affidamento
attraverso i Servizi sociali ha avuto un peso notevole», conclude Vitale.
CONDIZIONI
AL LIMITE. Le contestazioni alle singole persone si sono di fatto estese a
tutti i residenti, e lo sgombero, uno dei tanti subiti, viene vissuto dalle
famiglie come una punizione di massa. Le condizioni nel campo non erano certo
ideali né favorevoli alla proclamata “integrazione”. In otto anni non sono mai
stati realizzati punti luce per ogni famiglia, bisognava allacciarsi a un
quadro elettrico messo dal Comune. L’acqua c’era, ma i rubinetti erano fuori
dalle case e spesso col freddo si rompevano. L’acqua calda veniva ottenuta
riscaldandola nelle pentole, cosa che permetteva di alzare la temperatura nelle
casette, gelide d’inverno. Per più di un anno le famiglie hanno dovuto
arrangiarsi con un unico bagno sistemato in mezzo al cortile. Poi è stato
costruito un monoblocco con sei water alla turca e uno per le docce.
«Nonostante fosse dura viverci era una casa per 40 persone», allarga le braccia
Alessio sollevando suo figlio e issandolo sul camper.
Uno
sgombero.

Rosi
Mangiacavallo che monitora la situazione dei rom in Italia per l’Errc (European
Roma Right Centre) è convinta che ci sia stata una aperta violazione dei
diritti delle famiglie sanciti dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo e
dalla Carta sociale europea. «La perdita della casa è la forma più estrema di
interferenza nella vita privata e familiare. La legge prescrive che gli
sgomberi debbano essere effettuati solo nei casi di forza maggiore o in
circostanze eccezionali e sempre garantendo una alternativa abitativa».
L’alternativa proposta dal Comune era una residenza per sole madri con figli, i
padri dovevano trovarsi una sistemazione altrove. Nessuna famiglia ha accettato
e i Servizi sociali non hanno preso alcuna iniziativa per alleggerire la
condizione delle persone.

«ALMENO
SIAMO VICINO A UNA FONTANA». Davanti alla chiesa evangelica del quartiere
Mirafiori di Torino, in un camper malandato e sotto sequestro, vivono altri ex
abitanti del campo, Halid, Maria e i loro tre bambini, occhi azzurri e sorriso
sbarazzino. Insieme a loro Mirko, Irma e il piccolo Antoine, che al momento dello
sgombero aveva poco più di un mese. Quattro adulti e quattro bambini in uno
spazio angusto e senza riscaldamento. «Per lo meno qui vicino ci sono un bagno
pubblico e una fontana. Purtroppo la gente non ci vuole, ma come facciamo ad
andare via e poi dove?». Vivono in un quartiere difficile e il rischio di atti
di violenza non può essere escluso. Maria è stanca, lontano da quel campo in
cui si era sposata e dove erano nati i suoi figli non trova un motivo per
sorridere. «Andavano all’asilo a Borgaretto, ora dovrei prendere tre autobus,
non ce la faccio tutti i giorni». Irma ha poca voglia di parlare, la convivenza
è dura e il bambino dorme poco la notte.
LA SCUOLA
NONOSTANTE TUTTO. Silvia è cresciuta nel campo di Borgaretto, ora vive in un
camper insieme alla madre Fatima, malata di diabete. Lei è una delle poche che
ha potuto continuare gli studi. Quest’anno sosterrà gli esami di terza media:
«Ho fatto la preiscrizione a un liceo e a un professionale, deciderò dopo
l’estate». La famiglia di Silvia si era spostata a Borgaretto dopo un
precedente sgombero dovuto all’esproprio del terreno di loro proprietà su cui
doveva passare la nuova strada statale. Il padre di Valentina aveva acquistato
quel terreno per 15 mila euro. «Quando ci hanno mandato via non abbiamo
ricevuto nessun indennizzo», aggiunge Fatima. Le famiglie si stanno
allontanando in ordine sparso da Beinasco, pochi trovano solidarietà in quel
territorio in cui hanno vissuto per anni. Il loro modo di vivere, biasimato dai
civili italiani, è una scelta imposta dalla marginalità in cui crescono da
generazioni e il nomadismo una tradizione che affonda le radici nella paura.