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La tragedia dimenticata: migranti morti in mare, lo Stato si autoassolve

Di
Giacomo Russo Spena, MicroMega, 4 maggio 2018

Nella
notte tra il 26 e 27 marzo 2011 partiva da Tripoli un’imbarcazione con 72
persone a bordo che, poco dopo, finiva in balia del mare. Hanno perso la vita
63 persone.
I
sopravvissuti denunciano una omissione di soccorso da parte delle autorità
competenti: la Guardia Costiera Italiana e la Marina Militare avrebbero deciso
di non mandare alcuna nave a soccorrerli. L’Europa ha aperto una indagine
conoscitiva, individuando precise responsabilità italiane, ma il Tribunale di
Roma stenta ad accertarle.

Erano in 72, 9 sono riusciti miracolosamente a sopravvivere, in 63 sono morti.
Eppure non esiste (ancora) un colpevole. Una tragedia in mare, così è stata
catalogata. Una delle tante, se pensiamo che solo nel 2017 sono oltre 3mila i
migranti – una media di 10 al giorno – annegati durante il proprio viaggio
della speranza. Il Mare Nostrum, un cimitero liquido.

Questo tuttavia non è un caso come gli altri. I sopravvissuti hanno parlato e
denunciato. La Procura Militare di Roma guidata da Marco De Paolis ha svolto
una indagine faticosa e approfondita, dovendosi solo fermare davanti al muro di
gomma opposto dalla Marina Militare Italiana, che negava i documenti interni
della Sala Operativa; una Commissione di indagine del Parlamento Europeo ha
accertato i fatti e puntato il dito contro l’Italia e la Guardia Costiera
Italiana, ree secondo la Commissione di essersi disinteressati del natante in
pericolo dopo averne raccolto il segnale di soccorso. Al contrario, la Procura
Ordinaria di Roma guidata dal magistrato Giuseppe Pignatone ha archiviato senza
svolgere alcuna indagine (come ha tentato di fare anche con il caso “Libra”) ed
il Tribunale Civile con un atto nei giorni scorsi ha ritenuto di non dover
ascoltare nessun testimone.

Molti gli interrogativi rimasti senza una risposta. Le 72 persone sono state
abbandonate in balia delle onde per giorni e giorni, morendo per il freddo, per
la fame e la sete. Una tragedia evitabile se solo ci fosse stata la volontà
politica e umana di dirottare una nave che era a sole 9 miglia marine dal
gommone, con compiti di controllo della pesca e immigrazione. Sulla vicenda è
stato girato anche il docu-film “Mare Deserto” di Emiliano Bos e Paul
Nicol, (che tra l’altro ha vinto il premio Ilaria Alpi) i quali tramite
testimonianze e documenti hanno ricostruito perfettamente quei drammatici
momenti.

Gli avvocati Stefano Greco del Foro di Roma e Gianluca Vitale del Foro di
Torino – difensori di 3 dei 9 sopravvissuti al naufragio – si sono scontrati
contro la volontà dei tribunali che non hanno inteso e non intendono accertare
cosa sia successo in un mare che pullulava di navi militari di tutti i paesi
della NATO e dove una Risoluzione dell’ONU imponeva di tutelare i civili in
fuga dalla Libia. Per i giudici non c’è un colpevole nell’abbandonare in mare
un gommone con 2 bambini, 20 donne e 50 uomini, quasi tutti morti. La verità
stenta ad emergere malgrado i racconti dei superstiti e le versioni
contraddittorie di Nato, Guardia Costiera italiana e Marina Militare Italiana.

Ricostruiamo i fatti: il 19 marzo 2011 la Nato iniziava i bombardamenti in
Libia per far cadere il regime di Gheddafi. Lo scoppio della guerra coincideva
con un’ondata migratoria; si fuggiva dalle bombe varcando le frontiere minate
di Egitto e Tunisia o attraversando il Mediterraneo verso l’Europa. Nelle
settimane successive si parlerà di migliaia di partenze di profughi. Nella
notte tra sabato 26 e domenica 27 marzo 2011 un gommone lungo circa 7 metri
prendeva il largo dalle coste di Tripoli alla volta di Lampedusa.
Sull’imbarcazione erano presenti 72 persone, di cui 50 uomini, 20 donne e 2
bambini, tutti provenienti da Paesi sub-sahariani (Etiopia, Nigeria, Eritrea,
Ghana e Sudan).

Al fine di caricare il maggior numero di passeggeri possibile, e di conseguenza
intascare più denaro, i trafficanti lasciavano a terra buona parte delle
provviste utili per il viaggio. I migranti erano anche convinti dai trafficanti
che la traversata sarebbe durata soltanto 18 ore, non sarà così. Per mantenere
la rotta i trafficanti fornivano ai migranti una bussola e un telefono
satellitare per contattare eventuali soccorsi. Una volta in alto mare,
preoccupati di non vedere la terra ferma, le 72 persone chiamavano
telefonicamente Padre Moses Zerai, sacerdote gesuita di origine eritrea
residente in Vaticano, il cui numero di cellulare circola tra chi tenta di
fuggire dal continente africano affrontando il mare.

Il messaggio era chiaro: il gommone stava per rimanere senza carburante e
imbarcava acqua a causa del mare e dell’eccessivo carico. In mattinata venivano
avvistati da un aereo militare francese che segnalava la posizione e la
presenza al proprio comando, alla NATO e alla Guardia Costiera Italiana. Alle
ore 18.28 del 27 marzo, Padre Zerai chiamava la Guardia Costiera Italiana
presso il Centro di Coordinamento e Soccorso Marittimo di Roma (MRCC), la NATO
a Napoli e la Marina Militare Italiana comunicando il messaggio ricevuto e
l’utenza del cellulare da cui era stato contattato chiedendo contestualmente di
attivarsi per i soccorsi. La Guardia Costiera contattava il gommone e chiedeva
al gestore delle comunicazioni satellitari le coordinate geografiche del
natante. Inoltre chiedeva alla Marina Militare Italiana quali navi operavano in
zona. Seguivano, a stretto giro, altre due chiamate dall’imbarcazione a Padre
Zerai, caratterizzate da una grande confusione, si sentivano unicamente grida
disperate di aiuto. La sala operativa della Guardia Costiera italiana, a sua
volta, chiamava ripetutamente l’imbarcazione per sincerarsi delle condizioni
dei migranti. Sempre quel giorno, secondo il racconto dei superstiti, un
elicottero militare li raggiungeva e calava a bordo una scatola di biscotti e
dell’acqua.

In pochi giorni i viveri cominciavano a scarseggiare. Le persone morivano per
ipotermia e disidratazione, per primi i bambini. C’era chi pregava, chi
delirava e chi in preda al panico moriva tuffandosi in acqua. I più lucidi si
idratavano bevendo urina mista a dentifricio e acqua marina. Sempre in quei
giorni una nave probabilmente militare si avvicinava al gommone, vi scattava
delle fotografie, mentre i superstiti mostravano i corpi dei morti, ma nessuno
andava a salvare i naufraghi. Erano tutti troppo impegnati a fare la guerra a
Gheddafi. Intanto il tempo passava e quel tratto di mare era attraversato
costantemente da navi militari italiane e non. Una in particolare, l’italiana
Nave Borsini impegnata nel controllo dei flussi migratori e vigilanza pesca, a
poche miglia dal gommone, secondo le carte fornite dalla Marina Militare
Italiana, non si avvedeva dello stesso o non veniva avvisata dai superiori
gerarchici a Roma. Così svaniva l’ultima speranza.

Ai primi di aprile, dopo svariati giorni di navigazione, il gommone,
trasportato dalla corrente, approdava a Zilten in Libia. Le condizioni di
salute dei sopravvissuti, come è facile immaginare, erano pessime, due di loro
morivano durante lo sbarco sulla spiaggia.

Questa vicenda veniva raccontata per la prima volta dal quotidiano britannico
The Guardian nel maggio 2011 poi ripresa in Italia da il Manifesto. Dopo quasi
un anno, in data 29 marzo 2012, la Commissione di inchiesta dell’Assemblea
parlamentare del Consiglio d’Europa presieduta dalla senatrice olandese Tineke
Strik ha depositato il suo dossier alla Commissione per le migrazioni, i
rifugiati e gli sfollati del Parlamento Europeo, in cui si legge che la Guardia
Costiera Italiana dopo aver raccolto il segnale di soccorso ed aver provveduto
a contattare ed individuare il gommone, l’aver allertato tutti gli attori, dopo
pochi giorni colposamente si dimenticava di quelle 72 anime.

Oggi gli avvocati dei sopravvissuti, dopo l’inchiesta della magistratura
militare, dicono che anche la Marina militare italiana è responsabile di quanto
accaduto per non aver mandato Nave Borsini in soccorso del gommone.

La pensa diversamente la magistratura ordinaria romana che ha sempre assolto i
vertici militari e della Guardia Costiera. L’Avvocatura dello Stato solo in
sede civile, dopo più di cinque anni dai fatti, e tre procedimenti penali, ha
eccepito la mancanza di prova che gli attori fossero effettivamente su quel
gommone: “Chi dice che non stiano mentendo?”. Inoltre, sottolinea delle incongruenze
nei racconti degli immigrati sulla data di partenza o il fatto che hanno
gettato in mare la bussola e il telefono satellitare proprio per non essere
arrestati come scafisti una volta individuati.

Gli avvocati Greco e Vitale insistono, invece, sulla responsabilità dello Stato
italiano e dei suoi organi: “Delle due l’una: o le Autorità italiane non
hanno trasmesso in sede operativa SAR la richiesta di soccorso di persone in
pericolo oppure l’informazione è sì pervenuta in mare a nave Borsini (nave
militare che transitava poco lontano, ndr) ma questa non ha provveduto a
soccorrerli, in entrambi i casi i vertici della Marina Militare e della Guardia
Costiera non si sono in alcun modo interessati a capire se e come l’ordine di
soccorso fosse stato ricevuto e rispettato”. Resta il fatto che, finora,
la magistratura romana, penale e civile, non abbia trovato il tempo o mostrato
il desiderio di capire come 63 persone siano morte nel “Mare Nostrum”
Mediterraneo.

La questione è politica. Salvare le vite umane in pericolo nel Mediterraneo è
un dovere o meno? Il diritto internazionale e quello interno si applicano a chi
scappa dalla tortura, dalla guerra, a donne, a bambini? L’Europa e per essa
l’Italia è ancora il baluardo mondiale della tutela dei diritti della persona?
Il Mediterraneo è ancora il Mare Nostrum o è piuttosto la nostra Guantanamo?
Tra le tante tragedie avvenute nel Mediterraneo, questa del 2011 è emblematica:
ristabilire una verità su quei drammatici momenti è il minimo che l’Europa,
l’Italia e la nostra magistratura possano fare.