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Università sotto le bombe

Ugo Tramballi, ISPI, 22 aprile 2018
Poche settimane fa l’ennesima statistica europea ha rivelato che l’Italia ha il minor numero di giovani che si laureano e il maggiore di studenti che abbandonano prematuramente le università. Forse è per questo che Salvini vuole uscire dalla UE: perché la nostra mediocrità non venga spiattellata. Alta è anche la dispersione scolastica alle superiori. Come al solito, solo la Romania – Santa Romania! – è peggio di noi.

Con questa statistica in mente, la settimana scorsa sono andato a Bruxelles, invitato da UNIMED, l’Unione delle Università del Mediterraneo. L’obiettivo di questa organizzazione fondata dal compianto Franco Rizzi e ora diretta da Marcello Scalisi, è moltiplicare i legami fra le accademie delle due sponde del Mediterraneo. A Bruxelles ho avuto l’onore (lo dico senza retorica) di moderare un seminario intitolato “Il ruolo dell’educazione superiore in contesti di crisi”. In questo caso per crisi non s’intendeva l’abbandono universitario come in Italia, le orribili immagini dei ragazzi di Lucca o i genitori che picchiano gli insegnanti che rimproverano i loro figli ciuccioni.
No, i “contesti di crisi” erano le guerre, le bombe, i massacri, il cancro dell’Isis. I tre relatori che dovevo moderare erano il presidente dell’Università di Mosul, quello dell’Università di Tripoli e il professore di un ateneo siriano. Quando Obay Sa’id al-Dewachi ti spiega che ogni mattina lui e i suoi 35mila studenti (dico, 35.000, solo nove mesi dopo la cacciata dell’Isis dalla città!) sopravvissuti o rientrati dall’esilio, vanno all’Università di Mosul “circondati da un odore di morte come a Hiroshima dopo la bomba”, chi avrebbe il coraggio di parlargli delle statistiche italiane?
Un lungo articolo uscito un paio di settimane fa su “The Atlantic”  spiega che “I combattimenti urbani iniziati a Mosul il 16 ottobre 2016, sono stati descritti da un ufficiale americano come i più intensi dalla II Guerra mondiale. In sostegno alle forze irachene sul terreno, la coalizione guidata dagli Stati Uniti composta da una dozzina di paesi, ha condotto più di 1.250 bombardamenti aerei nella città, colpendo migliaia di obiettivi con più di 29.000 munizioni”. Nove mesi di combattimenti hanno causato la morte di un numero di civili stimato fra i 9 e gli 11mila.
I due milioni di libri, manoscritti e documenti dell’Università di Mosul, la biblioteca più grande del Medio Oriente dopo Alessandria, li aveva già bruciati il cosiddetto califfato. La distruzione del 90% dei laboratori e delle aule è stata causata un po’ dall’Isis un po’ dai liberatori, perché è all’Università di Mosul che era partita la conquista degli estremisti e lì è finita la loro resistenza.
Che dopo tutto questo l’ateneo abbia 10mila studenti meno dei 45mila che aveva prima, è un miracolo. Ma, ammette al-Dewachi, dopo tanta mostruosità l’atmosfera è mutata: non c’è più il melting pot di etnie e fedi di prima; e la maggioranza delle studentesse oggi porta il velo che prima disdegnavano.
Il professor Nabil Enattah, di Tripoli, spiega che “in Libia i soldi ci sono per sistemare le cose in pochi mesi se i combattimenti finiscono e smettiamo di avere due paesi, con due governi, due eserciti, due banche centrali e due sistemi universitari”. Migliaia di studenti di Bengasi erano fuggiti a Tripoli senza i documenti che certificavano la loro attività universitaria. Sono stati comunque accettati ma ora la loro laurea in Tripolitania non è riconosciuta in Cirenaica. Il siriano Sulaiman Mouselli racconta che le 22 università private e le 7 pubbliche nelle zone ora controllate dal regime in questi anni si muovevano, fuggendo, a seconda delle avanzate dell’Isis. Altre università continuano a funzionare allo stesso modo nel resto del paese controllato dalle opposizioni. Come ad Aleppo e Idlib. Chiudono quando si spara e riaprono nella speranza che la tregua momentanea regga.
Indipendentemente dalla loro fede religiosa e dal credo politico, il preside di Mosul, quello dell’Università di Tripoli e il prof siriano a loro modo sono degli eroi. Stanno cercando d’impedire che una generazione venga perduta. O quanto meno cercano di limitare i danni del vuoto causato dai conflitti, nella speranza che i loro studenti un giorno siano migliori dei padri.