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Trump vuole punire Assad per l’attacco chimico, ma come?

Di Elena
Zacchetti, Il Post, 11 aprile 2018

Ci sono
almeno quattro opzioni militari, che però sono tutte o molto rischiose o poco
efficaci: gli Stati Uniti ci stanno pensando
Donald
Trump (Mark Wilson/Getty Images)
Nella
notte tra lunedì e martedì per qualche ora si è pensato che il presidente
americano Donald Trump stesse per
annunciare
da un momento all’altro una nuova azione militare in Siria.
Alla fine non è successo, ma la questione potrebbe essere stata solo rimandata.

La
tensione era molto alta dal pomeriggio, quando la Casa Bianca aveva fatto
sapere che Trump non avrebbe
partecipato
al viaggio ufficiale in America Latina previsto per
questo fine settimana, «per monitorare la risposta americana in Siria». Per
tutto il giorno si erano susseguite notizie di una possibile ritorsione
militare contro il regime del presidente Bashar al Assad per il bombardamento
chimico
compiuto contro la popolazione di Douma, città controllata
dai ribelli vicino a Damasco, nel quale sono state uccise più di 70 persone.
L’attacco chimico aveva provocato durissime reazioni dal governo americano –
Trump aveva definito Assad un «animale» – e da alcuni governi europei, come
quello francese guidato dal presidente Emmanuel Macron. Si era parlato di
rispondere usando la forza, colpire Assad militarmente, per convincerlo a non
usare più le armi chimiche contro la popolazione civile siriana. Ricorda
qualcosa? In effetti sì.
Non è la
prima volta che Trump si trova a dover decidere cosa fare di fronte a un
attacco chimico quasi certamente compiuto dal regime di Assad. Era già successo
ad aprile dello scorso anno, dopo che Assad aveva usato
armi chimiche per attaccare la città di Khan Shaykhun
, in provincia
di Idlib, uccidendo decine di persone. In quel caso Trump aveva risposto bombardando
la base militare siriana da dove erano partiti gli aerei usati per l’attacco
chimico: era stato un attacco mirato, preciso e limitato, per evitare di
iniziare una nuova escalation di violenze e di invischiare ancora di più gli
Stati Uniti nella guerra siriana. Trump aveva fatto quello che si era rifiutato
di fare il suo precedessore Barack Obama, nonostante fosse stato
proprio Obama
ad annunciare che la cosiddetta “linea rossa”
sarebbero stati gli attacchi chimici del regime di Assad contro la popolazione
civile. Trump era stato applaudito da molti per l’azione militare, anche da
diversi suoi critici.
Il
problema è che pochi giorni fa Assad è tornato a usare le armi chimiche contro
la popolazione siriana, per costringere i ribelli di Douma, la principale città
della regione di Ghouta orientale, ad arrendersi. Quindi la domanda è: cosa non
ha funzionato nella strategia iniziale di Trump? E cosa può essere fatto ora?
È
complicato rispondere a queste domande, perché è complicata
la guerra in Siria
. Da una parte non fare niente, quindi lasciare
impunito l’ennesimo superamento della linea rossa da parte di Assad, rischia di
lasciare campo libero al regime siriano, che in questi anni di guerra ha
dimostrato di non avere alcun timore a usare la violenza e la brutalità come
arma strategica per vincere il conflitto e garantirsi la propria sopravvivenza.
Dall’altra parte optare per un’operazione militare significa rischiare di
scontrarsi direttamente con la Russia, uno dei principali alleati di Assad, con
il pericolo di arrivare a combattere una guerra ancora più intensa ed estesa di
quella attuale. Proprio per queste ragioni, e per molte altre ancora, non è
facile stabilire come e se rispondere all’attacco chimico di cui è accusato
Assad: non esiste un’opzione senza rischi, o una che garantisca con certezza il
raggiungimento del proprio obiettivo. In linea di massima, come ha scritto
il giornalista del New York Times Max Fisher, le opzioni sul tavolo sono tre,
oltre a quella di non fare niente.
Prima.
Fare un attacco limitato e mirato simile a quello dello
scorso anno
dopo il bombardamento chimico compiuto da Assad nella
provincia siriana di Idlib. Questa opzione avrebbe il vantaggio di essere poco
rischiosa: i danni per Assad sarebbero estremamente limitati e non si
rischierebbe uno scontro frontale con la Russia, che probabilmente verrebbe
avvisata in anticipo. Come ha scritto
Roland Oliphant, giornalista del Telegraph esperto di Russia, il governo di
Mosca non si opporrebbe a un attacco mirato, che vedrebbe come una ritorsione
«all’interno delle regole» del gioco e certamente non in grado di minacciare la
posizione di Assad.
Il
problema è che questa soluzione potrebbe essere completamente inefficace per
diverse ragioni. Anzitutto perché non cambierebbe di una virgola i calcoli di
Assad, che vede la violenza – e quindi anche l’uso di armi chimiche – come
un’arma strategica fondamentale per vincere la guerra e sopravvivere: «Se Assad
crede che le armi chimiche siano necessarie alla sua sopravvivenza, le
abbandonerà solo se messo di fronte a una minaccia superiore ai benefici che
pensa che le armi chimiche gli offrano», ha scritto Fisher sul New York Times.
I danni provocati da un attacco di questo tipo, inoltre, sarebbero così
limitati da essere facilmente assorbiti dalla Russia e dall’Iran, i due
principali alleati di Assad. Secondo Colin
Kahl
, che ha lavorato come consigliere alla sicurezza nazionale
dell’ex vicepresidente americano Joe Biden, Trump si è messo in una situazione
difficile: «Avere scelto un attacco limitato lo scorso anno nel tentativo di
stabilire una deterrenza contro l’uso di armi chimiche, ha portato Trump a
subire le pressioni di chi ora vorrebbe un attacco più esteso, visto che la
deterrenza non ha funzionato».
Seconda.
Intervenire in Siria in un altro modo, simile a quello adottato in parte da
Obama: armare i ribelli per esempio, rendendo la vita più difficile ad Assad e
costringendolo a sottostare alle richieste americane. È una soluzione che sulla
carta potrebbe avere efficacia, ma che implica grandi rischi e per come si è
messa la guerra in Siria oggi sembra difficilmente realizzabile. Quando Obama
mandò missili anti-carro TOW ai ribelli anti-governativi, l’impatto fu
notevole: così notevole che mise in seria difficoltà Assad e provocò la
reazione decisa di Russia e Iran. «Gli americani mandano armi; gli iraniani
mandano brigate di combattimento. Gli americani mandano missili; i russi
installano delle unità di artiglieria», e così via, ha scritto Fisher. Il
rischio è quello quindi di provocare una reazione degli avversari superiore di
intensità alla propria azione iniziale. rischiando di peggiorare ulteriormente
le cose.
C’è poi
la questione dei ribelli da armare, che non sono rimasti in molti. La maggior
parte dei ribelli si trova oggi nella provincia di Idlib, nel nord ovest della
Siria. Idlib è dominata dai gruppi estremisti e jihadisti, tra cui la sezione
siriana di al Qaida. Sono rimasti i combattenti dell’Esercito libero siriano
nel sud ovest, addestrati e armati dalla Giordania e dalle forze speciali americani,
che però difficilmente potrebbero diventare una seria minaccia al governo di
Assad (vengono visti
piuttosto come potenziale forza per limitare l’influenza iraniana in quest’area
del paese, che si trova vicino al confine con Israele). Oggi il regime siriano
non è più in difficoltà e preoccupato per la sua sopravvivenza come lo era tre
anni fa e i ribelli sono stati dichiarati praticamente sconfitti dopo avere
perso Aleppo
, alla fine del 2016.
Terza.
Colpire Assad con una forza che Iran e Russia non sarebbero in grado di
assorbire, ovvero approvare un attacco di un’intensità tale da mettere a
rischio la sopravvivenza del regime di Assad. Ci sono però diverse cose da dire
su questa opzione, e la prima riguarda una scelta strategica fatta dagli Stati
Uniti ormai qualche anno fa: l’obiettivo degli americani in Siria è sconfiggere
lo Stato Islamico (o ISIS), visto come una minaccia alla sicurezza nazionale
degli Stati Uniti, e non provocare un cambio di regime destituendo Assad. in
questo senso Trump ha finora seguito la strategia adottata in precedenza da Obama
e cambiarla ora sarebbe rivoluzionare l’impegno americano in Siria, una cosa
che l’amministrazione non sembra avere intenzione di fare.
Ci sono
poi altri due rischi legati a un intervento militare molto esteso. Gli Stati
Uniti rischierebbero di scontrarsi direttamente con la Russia e il collasso del
regime di Assad potrebbe aumentare ancora di più il caos in Siria, alimentando
di nuove violenze la guerra civile siriana e lasciando spazio ai gruppi
jihadisti e terroristici.
Oltre
alle tre opzioni citate da Fisher, in queste ore si sta
parlando
di una quarta: la possibilità di fare diversi attacchi
mirati contro obiettivi militari siriani, magari in diversi momenti. Potrebbe
essere un modo per mostrare di voler rispondere al nuovo superamento della
linea rossa, senza però arrivare a scontrarsi direttamente con la Russia o
cambiare le sorti della guerra in Siria. Anche questa azione, comunque,
potrebbe risultare poco efficace, soprattutto per il fatto di non poter usare
aerei da combattimento, che rischierebbero di essere abbattuti dalla contraerea
siriana. Il problema è lo stesso che si è posta
su Twitter Emma Ashford, analista del Cato Institute, riferendosi a eventuali
futuri attacchi chimici compiuti da Assad: «Per quelli che vogliono una
risposta militare: potete dirmi quale potrebbe essere una risposta da adottare
per evitarne altri, che non sia un’invasione in piena regola?». Una risposta
certa non c’è.
La
decisione su cosa fare in Siria potrebbe arrivare nelle prossime ore ed è
difficile fare previsioni: l’impressione è che al momento sia privilegiata la
via militare, anche se diversi analisti stanno
parlando
anche di provare a riprendere in mano la via diplomatica.
Nei giorni scorsi Trump ha parlato con i capi di stato di paesi alleati, che si
sono espressi altrettanto duramente contro il regime di Assad. Tra loro ci sono
anche il presidente francese Emmanuel Macron e la prima ministra britannica
Theresa May. Non è chiaro se Francia e Regno Unito siano disposte a partecipare
a un’eventuale azione militare contro Assad: probabilmente molto dipenderà da
quale delle opzioni sul tavolo si deciderà di privilegiare.