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“Orbán ha dato un senso all’essere ungheresi”, Argentieri spiega la vittoria di Fidesz

Claudia
Leporatti, East Journal, 10 aprile 2018

“L’Ungheria
si conferma la guida dei movimenti populisti che stanno avanzando in tutto il
mondo” Federigo Argentieri, storico e docente, si occupa di Ungheria dagli anni
Settanta.

Vi ha
vissuto a lungo per motivi di ricerca e non ha mai smesso di seguirla,
nonostante insegni a Roma. Suoi alcuni dei più centrati testi sul 1956, mentre
al giorno d’oggi viene continuamente intervistato per comprendere la politica e
la società ungheresi. 
I
risultati 
91
collegi elettorali su 106, 134 seggi su 199: la coalizione Fidesz-KDNP conquista
il 48,5% dei voti. In pratica l’Ungheria è tutta arancione, mentre Budapest
consegna 12 collegi su 18 ai partiti di opposizione.
C.L: Quanto
incide il sistema elettorale sull’ottenimento dei due terzi del Parlamento?

F.A: Influisce quanto basta, come nel 2014 quando era già in vigore. Con
la prima super-maggioranza del 2010 Fidesz ha riscritto la Costituzione e
rifatto il sistema elettorale, basandosi sulle elezioni precedenti, in
particolare sulle quelle del 2002 dove erano stati castigati (dopo il primo
governo Orbán, 1998-2002, ndr). Un’analisi dei collegi in cui l’opposizione
aveva preso la maggioranza ha permesso di ridisegnare i collegi, letteralmente
quartiere per quartiere, configurando gli attuali collegi elettorali. Questo
sistema non è illegale, ma per contrastare Fidesz ci vuole una strategia
accurata ed è davvero difficile spuntarla.
C.L: Budapest
include 18 dei 106 collegi elettorali ungheresi. Come mai Fidesz non convince
la capitale?

F.A: Storicamente Budapest non è allineata con il resto del Paese. Già
l’Ammiraglio Horthy la chiamava la “città peccatrice” (b
űnös város, ndr). In realtà stavolta Fidesz a Budapest ha preso molti
voti in più del previsto.
C.L: Cosa
ha sbagliato il fronte di opposizione?

F.A: L’opposizione soffre innanzitutto di un grosso problema: non sa come
rispondere alle mosse di Orbán. Quest’ultimo dal canto suo interpreta molto
meglio i sentimenti popolari. Sono stato al comizio di Karácsony (principale
candidato dell’MSzP) c’era pochissimo seguito e l’atmosfera era rassegnata,
diciamo pure triste. Trovo ingeneroso, ma naturale, il paragone con il discorso
del 15 marzo di Viktor Orbán davanti alla piazza del Parlamento gremita ed
entusiasta. Mi pare che ormai al seguito dei socialisti restino solo in pochi,
i vecchi kadariani e i reduci della opposizione democratica.
C.L: Con un’opposizione
così debole la democrazia è a rischio?

F.A: Certamente. Trovandosi di nuovo con la maggioranza dei due terzi e
non avendo un fronte organizzato dall’altro lato, la tentazione autoritaria può
sorgere.
C.L:
Parliamo della campagna della Fidesz, cosa ha funzionato di più?

F.A: Orbán si è confermato molto abile. Ha evitato i confronti con i
giornalisti, rifiutato di partecipare alla discussione finale con la Szél, Vona
e Karácsony (LMP, Jobbik e MSzP), come a dire che lui non si abbassa nemmeno a
dialogare con loro. La mattina partiva in sordina per recarsi in località nota
solo a pochissimi per poi visitare la scuola, la parrocchia, il villaggio e gli
anziani. Gli altri partiti sono del tutto assenti dall’Ungheria profonda e la
battaglia diventa del tutto impari.
C.L: Azioni
ben diffuse sui social e dal potere immediato sulla gente. Orbán usa i social
media con attenzione restando fedele alla tradizione; sembra questa la ricetta
che vince in Ungheria…come mai?

F.A: Gli ungheresi in maggioranza non sono razzisti, ma non vogliono i
rifugiati. Orbán ha dato loro un senso all’essere ungheresi. Alla domanda “Chi
siamo?” arriva la gradita risposta “Siamo quelli che dai margini dell’Europa
hanno respinto l’occupazione Ottomana. Oggi alla vigilia di una grande
invasione deve esserci riconosciuto questo merito. Siamo anche vittime
dell’ingiustizia del Trianon e della tragedia del 1956 e adesso siamo
finalmente sovrani. Siamo inoltre pragmatici: con la Russia non abbiamo
problemi, perché non dobbiamo rivendicare il passato, con cui abbiamo fatto la
pace. Siamo dei partner per Bruxelles, ma dei partner che non dicono sempre sì,
diciamo anche no. Quando vediamo i fenomeni dal punto di vista dei nostri interessi
e questi non si allineano alla decisione comune, non abbiamo paura di dire no.
Un popolo
che, come ce lo descrive Argentieri, finalmente riesce a mettere insieme i
pezzi del puzzle della sua identità.