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Marielle Franco e le altre: il Brasile non è un paese per donne

Di David
Lifodi, Micromega, 16 aprile 2018

Lo scorso
14 marzo il mondo intero si è commosso di fronte all’omicidio dell’attivista
femminista Marielle Franco, uccisa da nove colpi di pistola. Ma il caso di
Franco è solo la punta dell’iceberg. In Brasile la violenza contro le donne in
generale, e contro le donne nere in particolare, è dilagante.

Pochi
giorni fa Bárbara Querino, giovane modella brasiliana di venti anni, dalla
pelle nera, è stata incarcerata con prove debolissime per due presunte rapine a
mano armata compiute il 10 e 26 settembre 2017. Il 10 settembre la giovane si
trovava a San Paolo per il suo lavoro di modella, come testimoniato dalle
fotografie sul suo cellulare, che la polizia ha però deciso di resettare,
mentre il 26 settembre, al momento della rapina, era in casa. Il suo caso è
emblematico del salto di qualità compiuto dalla violenza statale e parastatale
in Brasile, che da sempre prende linfa dalla discriminazione razziale e di
genere. Lo scorso 14 marzo il mondo intero si è commosso di fronte all’omicidio
dell’attivista femminista Marielle Franco, la consigliera municipale del Partido
Socialismo e Liberdade (Psol) uccisa da nove colpi di pistola esplosi da
un’automobile all’uscita da un incontro con un gruppo di giovani donne nere dal
titolo Mulheres negras movendo estruturas.




In
Brasile, secondo il Forum Brasileiro de Segurança Pública, ogni undici minuti,
una donna è vittima di abusi, ma solo il 10% di coloro che subiscono le
violenze trova il coraggio di sporgere denuncia. L’omicidio di Marielle Franco,
che il governo si è affrettato a derubricare come un crimine comune, assume in
realtà dei connotati politici sotto molteplici punti di vista. Marielle, la
quinta più votata alla Camera municipale di Rio de Janeiro con 46mila
preferenze, si batteva contro la militarizzazione delle favelas imposta dal
presidente Michel Temer. La giovane consigliera (era nata nel 1979) proveniva
lei stessa da una favela carioca, quella di Maré, e conosceva bene i soprusi e
le violenze commesse da quella polizia a cui sono risultati appartenere i
proiettili calibro 9 che l’hanno uccisa. Al tempo stesso, Marielle era
un’attivista femminista, dalla pelle nera, impegnata in primo luogo sul fronte
della questione di genere, lei che era lesbica e aveva sperimentato cosa
significasse ogni giorno dover convivere con il razzismo di Stato, l’esclusione
e i pregiudizi. Sou mulher negra, sou militante política, sou anticapitalista,
sou lésbica, sou feminista, sou defensora dos direitos humanos, amava ripetere.




Nella
graduatoria dei paesi dove maggiore è il numero di violenze commesse contro le
donne, il Brasile è preceduto soltanto da El Salvador, Colombia, Guatemala e
Russia, ma viene prima della Siria, dove da anni gli abitanti vivono in uno
scenario di guerra permanente. Più in generale, in America latina e nel Caribe,
le donne afrolatinoamericane sono vittime di una doppia discriminazione, di
genere e di razza. Eppure, Marielle Franco non è stata uccisa soltanto per
essere donna, nera, di origini umili, per il suo impegno in politica e per le
sue battaglie in favore dei diritti umani, ma per la violenza insita in uno
Stato, quello brasiliano, che disprezza i suoi cittadini provenienti dalle
classi sociali più basse. Agli oppressi delle favelas, a maggior ragione se
donne, per di più lesbiche, come nel caso di Marielle, non è permesso occupare
spazi pubblici e il suo omicidio risulta come un sinistro avvertimento per
quelle tante Marielle che abitano nelle sterminate baraccopoli delle megalopoli
brasiliane.



Il
rapporto denominato “Mappa della
violenza – omicidi di donne in Brasile
”, curato dall’Instituto de
Pesquisa Econômica Aplicada e dal Forum Brasileiro de Segurança Pública
riflette la mentalità di una società patriarcale e razzista. Oltre il 52% degli
omicidi è commesso dai familiari, il 33,2% da amici o compagni. I responsabili
delle violenze, spesso anche di matrice poliziesca, in gran parte dei casi
rimangono impuniti. È per questo motivo che Marielle Franco aveva espresso fin
dall’inizio la propria contrarietà all’invio della polizia militare nelle favelas
di Rio de Janeiro da parte del presidente Temer (che ha assunto la presidenza a
seguito dell’impeachment sfruttato dall’opposizione per far cadere la
presidente Dilma Rousseff), il cui unico scopo era quello di sottoporle ad una
militarizzazione che gli stessi favelados avevano apertamente criticato. Di
recente, proprio la giovane era stata scelta dal suo partito per controllare gli
abusi della polizia nella favela di Acari, ma da tempo il razzismo gioca un
ruolo fondamentale nella violenza contro le donne afrobrasiliane. Era il 2014
quando Claudia Ferreira da Silva, trentottenne dalla pelle nera, uscì dalla sua
casa, situata in una favela di Rio, per fare la spesa e rimase uccisa dalle
cosiddette balas perdidas, i proiettili vaganti sparati dalla polizia. In quel
caso, come in molti altri, i responsabili non furono nemmeno incriminati.

Marielle Franco non si stancava mai di ripetere che essere donna, nera e
lesbica significava dover combattere ogni giorno per resistere e sopravvivere.
Nella favela di Acari, dove la madre di uno degli undici adolescenti spariti in
un giorno di luglio del 1990 era stata giustiziata in pieno giorno per aver
chiesto informazioni sugli assassini del figlio, Marielle denunciava il ritorno
della polizia militare e la incolpava di aver assassinato due giovani.



Marielle
Franco è stata uccisa perché era riuscita a raggiungere dei traguardi che lo
stato brasiliano fa di tutto pur di precludere ai suoi cittadini provenienti
dalle fasce sociali più povere. La ragazza aveva frequentato il liceo e nel
1998, pur avendo una bambina, era riuscita a superare l’esame di ammissione per
frequentare l’università. Si era laureata in Sociologia e aveva conseguito un
master in Pubblica amministrazione. Di recente, si era impegnata nel sostenere il progetto
di legge dedicato a rendere l’aborto legale
e invitava le donne ad
occupare quegli spazi pubblici da cui erano sempre state lasciate fuori per
protestare contro quell’oppressione di stato fondata sull’esclusione razziale,
di classe, di genere, sull’orientamento e sull’identità sessuale.


Nel 2015
la Primera Cumbre de Lideresas Afrodescendientes de las Américas, poi nota come
dichiarazione politica di Managua, aveva l’obiettivo di porsi come una sorta di
dichiarazione d’intenti contro le discriminazioni e la negazione dei diritti
più elementari. Sono trascorsi tre anni, ma in tutta l’America latina, a
partire dal Brasile, le politiche pubbliche a favore delle donne e di quelle
nere in particolare continuano a latitare.