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Libere di abortire con una pillola

Annalisa
Camilli
, Internazionale, 13 aprile 2018

“Non mi
sentivo in colpa. Anzi pensavo che fosse una fortuna vivere in un paese che mi
permetteva di scegliere. Abortire per me è una scelta, esattamente come fare un
figlio”.
L’ospedale
Mangiagalli di Milano, 2013. (Francesco Rucci, Luz)

Francesca
ha 35 anni, non ha figli ed è serena, mentre ripensa al giorno in cui in un
ospedale romano si è sottoposta a un intervento per interrompere una gravidanza
non desiderata. Aveva deciso insieme al suo compagno che non era il momento di
avere un figlio e si era rivolta al consultorio familiare vicino a casa, che
poi le aveva fissato un appuntamento per l’intervento in un ospedale pubblico.

Aveva già
abortito un’altra volta una decina di anni prima. Tutte e due le volte la cosa
più negativa non era stata tanto l’operazione, quanto tutta la procedura per
accedere al servizio. In particolare la seconda volta avrebbe voluto prendere la pillola
RU486
– cioè il mifepristone,
introdotto in Italia nel 2009 – perché nel primo aborto non aveva tollerato
bene l’anestesia. Ma gli ospedali che in Italia offrono questa possibilità sono
pochi e aveva dovuto rinunciare.
L’interruzione
di gravidanza rimane ancora un terreno di scontro in Italia
Un’inchiesta
pubblicata nel 1999 dal New York Times Magazine definiva la pillola RU486 “la
piccola bomba che può riscrivere la politica e la percezione dell’aborto”. Il
farmaco, infatti, puntava a far diventare l’interruzione di gravidanza un fatto
normale e privato, non più soggetto a forme di controllo, perché può essere
prescritto da qualsiasi medico di base e preso a casa, come succede per esempio
in Finlandia, dove gli aborti farmacologici sono il 98 per cento del totale; in
Francia, dove sono il 60 per cento; e in Portogallo, dove sono il 70 per cento
del totale.

“In
Italia ci sono grosse reticenze sull’uso di questa pillola che potrebbe
permettere alle donne di abortire senza essere ricoverate”, spiega Giovanna
Scassellati, 66 anni, dirigente del reparto Day hospital-day surgery 194
dell’ospedale San Camillo di Roma, quello dove si fanno più interruzioni
volontarie di gravidanza nella capitale (2.133 nel 2016) e uno dei pochi in cui
è possibile accedere all’aborto farmacologico con la pillola Ru486.
Gli
aborti di questo tipo rappresentano ancora solo il 15 per cento del totale,
secondo i dati diffusi nel dicembre 2017 dal ministero della salute, in netta
controtendenza rispetto agli altri paesi europei. In Italia per il momento la
pillola abortiva può essere assunta solo in ospedale entro la settima settimana
di gravidanza, e nella maggior parte delle regioni è previsto un ricovero di
tre giorni per la sua assunzione.
“Nel
Lazio abbiamo fatto una battaglia per permettere che la pillola fosse
distribuita in day hospital e ora ci stiamo impegnando perché si possa prendere
anche nei consultori”, sottolinea la dottoressa, che ha sempre interpretato il
suo lavoro come una missione. In Italia la legge che autorizza e regola
l’aborto (legge 194) quest’anno
compie quarant’anni
e, secondo i dati diffusi dal ministero della
salute, dopo la sua approvazione nel 1978 gli aborti sono gradualmente
diminuiti.

Ma
l’interruzione di gravidanza rimane ancora un terreno di scontro ideologico: il
7 aprile un gruppo di militanti del partito neofascista Forza nuova ha fatto
irruzione
nella sede della Casa internazionale delle donne a Roma e
ha appeso uno striscione di fronte all’edificio con la scritta: “194, strage di
stato”.
Solo
qualche giorno prima, sempre a Roma, il gruppo antiabortista Provita aveva affisso
un cartellone pubblicitario
in una strada centrale della città in
cui era rappresentato un feto con la scritta: “Tu sei qui perché tua mamma non
ti ha abortito”. Il cartellone è stato rimosso, dopo aver scatenato molte
polemiche. Ma l’11 aprile la stessa associazione antiabortista, appoggiata da
Fratelli d’Italia e Lega, ha convocato
una conferenza
stampa in senato per discutere “delle gravi
conseguenze dell’aborto sul piano fisico e psichico”.
Durante
la conferenza stampa del movimento Provita, nell’ambulatorio al piano
seminterrato dell’ospedale San Camillo la dottoressa Giovanna Scassellati ha
ricevuto molti messaggi sul telefono da colleghi che commentavano la nuova
offensiva degli antiabortisti: “Usano l’argomento del benessere delle donne per
criminalizzare le loro scelte. Il problema è che stiamo facendo dei grossi
passi indietro nella salute riproduttiva delle donne, nella loro libertà ed
emancipazione”, esclama.
La
maternità come destino

La mattina all’alba le donne si mettono in fila sulle scale di ferro che
portano al seminterrato del reparto di ginecologia e ostetricia dell’ospedale
San Camillo: “Vengono da tutta Italia. Dalla Sicilia, dalla Calabria, dalla
provincia di Roma”, spiega Augusta Angelucci, psicologa dell’ambulatorio.
Alcune regioni italiane infatti hanno tassi
di obiezione di coscienza
dei ginecologi superiori all’80 per cento
e così molte donne sono costrette a fare lunghe trasferte.
“Riusciamo
a vedere otto o dieci donne al giorno”, spiega. “Alle altre diamo un numeretto
per tornare il giorno successivo”. Nella prima visita le pazienti sono accolte
da un’infermiera e da una psicologa che con un colloquio valutano qual è il
loro stato psicologico e fisico. “Molte hanno sensi di colpa, si sentono male.
Allora cerchiamo di lavorare sull’autodeterminazione. Facciamo emergere per
esempio le emozioni che hanno accompagnato la scoperta di essere incinta. Di
solito le donne che decidono di abortire hanno avuto emozioni molto negative
quando hanno scoperto la gravidanza”, spiega Angelucci.
“È come
se di fronte all’aborto ogni donna dovesse fare i conti con la società, che
impone la maternità come destino e non come scelta. ‘Partorirai con dolore’ è
ancora un pensiero ricorrente nella testa di tante, oggi più che in passato,
quando il movimento femminista era più forte”, continua la psicologa mentre
mostra i questionari a cui le donne rispondono durante il colloquio. “Molte
riferiscono di avere avuto una gravidanza indesiderata dopo un lutto, dopo una
separazione dal compagno oppure dopo un avanzamento di carriera. È una specie
di evento riparatore o punitivo”. 
L’ospedale
Mangiagalli di Milano, 2013. (Francesco Rucci, Luz) 

“La
nostra generazione è cresciuta leggendo i libri delle femministe statunitensi
per imparare a prenderci cura della nostra salute. Facevamo dei gruppi di self-help
leggendo Noi e il
nostro corpo
, un libro fondamentale scritto dalle donne per le
donne, perché eravamo convinte che la salute riproduttiva delle donne e la loro
libertà andassero di pari passo”, racconta Angelucci. “Ora molte donne e
ragazze non sanno più nulla dei loro corpi e non vanno più nei consultori, che
dovevano essere delle strutture di base, nate con lo scopo di informare proprio
su questi temi”.

Anche le
donne più scolarizzate non sanno molto del funzionamento degli organi sessuali
e non parlano volentieri della sessualità. L’uso delle parole è interessante:
“Parlano di gravidanze impreviste, non di gravidanze indesiderate”. Dalle
parole si capisce che c’è un lato passivo: “Si fatica a parlare di desideri e
di scelte. Spesso subiscono forti pressioni da parte dei compagni”. E questo si
riscontra anche sulla contraccezione: “Sono spesso contrarie all’assunzione
della pillola contraccettiva e non vogliono mettere la spirale. In molti casi
sono gli uomini, i compagni, che decidono il metodo contraccettivo. Alcune
donne preferiscono rischiare di rimanere incinte, invece di usare metodi
sicuri”.
Per
Giovanna Scassellati c’è anche un fattore economico: “Le pillole contraccettive
sono tutte molto costose e non sono alla portata delle giovani donne e di
quelle della classe medio bassa”. Al San Camillo si sta sperimentando un
protocollo per promuovere l’inserimento della spirale dopo un’interruzione di
gravidanza: “Sappiamo che chi abortisce una prima volta spesso torna a farlo anche
una seconda volta, per questo insistiamo molto sulla contraccezione”, conclude
Scassellati.
Come
funziona la pillola abortiva

“Dopo aver fatto le analisi del sangue per vedere se soffrono di anemia e se la
gravidanza è ancora nelle prime settimane, proponiamo alle donne la pillola
abortiva. Ma la scelta spetta a loro”, spiega Giovanna Scassellati.
Se una
donna vuole prendere la pillola abortiva, nel Lazio è ricoverata per qualche
ora: “Gli assegniamo un letto in reparto e diamo la prima pillola, il mifepristone,
che è un farmaco antagonista del progesterone e determina una riduzione dei
fattori che favoriscono la gravidanza. Sono ricoverate per tre ore e poi
tornano a casa. Spieghiamo che possono avere delle perdite ematiche simili alle
mestruazioni. Dopo 48 ore tornano per assumere altre due pillole di
misoprostolo, una prostaglandina che determina la contrazione dell’utero, la
dilatazione del collo dell’utero e quindi completano il distacco della camera
gestazionale e ne determinano l’espulsione. Nelle ore successive all’assunzione
di questi farmaci, la donna ha delle perdite simili a quelle mestruali”, spiega
Scassellati.
Nel
discorso pubblico l’aborto è ancora rappresentato come una piaga sociale
Dopo
quattordici giorni dall’aborto, viene fissata una visita di controllo per
assicurarsi che tutto sia nella norma. Il problema è che oggi paradossalmente
gli aborti farmacologici costano di più di quelli chirurgici, perché per legge
si possono fare solo in ospedale: “L’unico modo per diffondere l’uso della
RU486 è distribuirla nei consultori, per integrare di più il lavoro degli
ospedali con quello dei consultori”.

Nell’aprile
del 2017 la regione Lazio guidata da Nicola Zingaretti aveva deciso di
sperimentare per 18 mesi la distribuzione della pillola RU486 nei consultori,
ma i movimenti Provita l’hanno accusata di violare la legge 194, in cui è
previsto che l’aborto avvenga solo in ospedale. Per ora il progetto è in
sospeso. Secondo Anna Pompili, ginecologa
tra le ideatrici della sperimentazione
nel Lazio, “siamo l’unico
paese che ricovera le donne per tre giorni per dare delle pasticche. Ci dicono
che questo è per il bene delle donne, perché potrebbero avere un’emorragia. Ma
tutti gli studi confermano l’assoluta sicurezza della procedura. È uno spreco
di risorse occupare i reparti ospedalieri per una prestazione che in altri
paesi è ambulatoriale”, conclude Pompili.
“Da
quando è stata proposta in Italia, la prima volta alla fine degli anni ottanta,
la pillola abortiva è stata ostacolata anche da settori laici della società. La
chiamavano ‘il prezzemolo chimico’. Era proprio l’idea che non solo il parto,
ma anche l’aborto dovesse essere fisicamente doloroso”, sostiene Cecilia
D’Elia, autrice insieme a Giorgia Serughetti del libro Libere tutte
e consulente della regione Lazio su questi temi nella scorsa amministrazione.
“La
pillola è meno invasiva, meno costosa, meno medicalizzata e quindi dovrebbe
essere una valida alternativa all’aborto chirurgico”, spiega D’Elia. Invece nel
discorso pubblico l’aborto è ancora rappresentato come una piaga sociale: “Le
donne che oggi scelgono di interrompere la gravidanza sentono il peso di una
nuova disapprovazione. L’immagine delle donne vittime si è trasformata in
quella delle egoiste che non vogliono avere figli. O di quelle che vogliono
banalizzare la faccenda ricorrendo ai farmaci”. Ma i tentativi di restringere
le maglie del diritto per riaffermare il controllo sul corpo femminile, spiega
D’Elia, “vanno contrastati con la consapevolezza che in ambiti come la
sessualità e la riproduzione la legge deve lasciare spazio alla scelta, senza
proibire in maniera rigida”.
Da
sapere: la sindrome inesistente
Secondo
uno studio uscito nel 2009 sulla Harvard Review of Psychiatry, l’idea che per
la maggior parte delle donne abortire sia un trauma (sindrome postaborto) non
ha nessun riscontro scientifico. Nel 2013 Corinne H. Rocca dell’università
della California di San Francisco, insieme ad altri autori, ha pubblicato una
ricerca sulle condizioni emotive delle donne statunitensi una settimana dopo
aver abortito o aver ricevuto il divieto di abortire. Lo studio è stato
condotto su 843 donne che hanno abortito o non hanno potuto farlo perché
avevano superato di poco il limite gestazionale consentito. È emerso che il 90
per cento delle donne che avevano abortito si sentiva sollevato. Anche l’80 per
cento delle donne che provavano rimorso rispetto all’aborto riteneva di aver
fatto la scelta giusta. Le donne che non avevano potuto abortire, invece, hanno
provato più pentimento e rabbia e meno sollievo e felicità di chi l’aveva
fatto. — Perspectives
on Sexual and Reproductive Health, Ansirh