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Le prove Invalsi e la libertà d’insegnamento in pericolo

Carlo
Scognamiglio, MicroMega, 4 aprile 2018

Se le
prove invalsi fossero solo uno strumento di rilevazione statistica, poco male.
Ma essendo invece usate come strumento di valutazione delle istituzioni
scolastiche, e dei singoli allievi, esse forzano i docenti a una revisione del
proprio metodo, di fatto violando il principio costituzionale della libertà
d’insegnamento.


1. Nell’ultima settimana di marzo l’invalsi (Istituto Nazionale per la Valutazione
del Sistema Educativo e di Istruzione) ha pubblicato un documento intitolato: “Le prove
invalsi secondo l’invalsi”, una sorta di excusatio non petita, che
rafforza, piuttosto che attenuare, alcune perplessità serpeggiate tra i docenti
più accorti.

La procedura di somministrazione dei test standardizzati, nei vari ordini di
scuola, ha incontrato in passato non poche difficoltà, dovute all’approssimazione
iniziale con cui erano state originariamente proposti (oggi riconosciuta dallo
stesso invalsi, che dichiara giustificabili le prime reazioni di protesta degli
insegnanti), ma anche a problemi di affidabilità dei quesiti.

Siamo di fronte a una questione spinosa e capace di chiamare in causa non
soltanto il mondo della scuola, ma l’intero dibattito politico. Troppo spesso è
stato frainteso il ruolo e il significato delle prove invalsi. E questo
recentissimo documento, prodotto dallo stesso istituto, nella sua ambiguità
strutturale lascia intravedere un fondo coerente, da interrogare.

L’incipit è immediatamente rivelatorio. Si afferma infatti che compito della
scuola è quello di attenuare le differenze sociali (con tanto di citazione
testuale dell’articolo 3 della nostra Costituzione). A questa premessa,
evidentemente cautelativa, si aggancia – senza alcun connettore logico – l’idea
che una misurazione standardizzata e oggettiva possa far emergere con chiarezza
come e quali gruppi di studenti siano meno bravi ad utilizzare le conoscenze
che posseggono. Detto in soldoni, il ragionamento proposto è il seguente:
poiché dobbiamo fare in modo che tutti abbiano le medesime opportunità
formative, in difesa del diritto all’istruzione, occorre un ente che misuri in
modo oggettivo se oltre a possedere delle conoscenze, queste ultime siano
“mobilitabili” in contesti problematici non ancora noti. Qual è il rapporto tra
l’articolo 3 della Costituzione e questa iniziativa di controllo? Proviamo a
scavare, forse troveremo qualcosa.

Se l’invalsi misurasse alcune competenze specifiche possedute dagli studenti
italiani in forma completamente anonima e senza riferimento alcuno alle singole
classi, alle singole scuole, o alle diverse regioni, tale informazione assumerebbe
i connotati di un dato statistico generale, capace al massimo di certificare
quanto in un determinato tipo di prove gli studenti italiani siano più o meno
in grado di trovare soluzioni. Questo feedback apporterebbe un contributo
trasformativo rispetto al sistema delle disuguaglianze? Non vedo come.

Facciamo un’ipotesi diversa. Poniamo invece il caso che l’invalsi decida di
misurare con lo stesso sistema i risultati delle prove, limitandosi a comparare
tra loro le diverse aree geografiche. Questo dato potrebbe avere un significato
se implicasse maggiori investimenti nella spesa per l’istruzione nelle regioni
più deboli scolasticamente, ma a questo punto le varie realtà farebbero a gara
per fallire le prove, pur di ottenere maggiori risorse. In ogni caso, se anche
venissero premiate le più virtuose, nulla accadrebbe rispetto alle differenze
sociali all’interno di ciascuna area geografica. Non stiamo parlando di questo,
dunque.

Terza ipotesi: se l’invalsi perseguisse esclusivamente l’obiettivo di comparare
gli esiti scuola per scuola, cosa implicherebbe la scoperta di un grande
divario tra una scuola del centro di Roma e un plesso periferico? Incrementi di
organico a favore di quest’ultima? Iniezione di risorse economiche per il
potenziamento dell’offerta formativa? No, anzi, oggi i dirigenti scolastici
sono valutati e “ispezionati” sulla base del cosiddetto “effetto scuola”, cioè
su quanto – al netto del background socio-economico degli allievi e del tasso
di boicottaggio delle prove – il singolo istituto abbia contribuito al
miglioramento o peggioramento dei risultati. Ma ribadiamo il nostro quesito
iniziale: sollecitare i dirigenti che hanno ottenuto risultati più bassi, o
motivare i docenti a risalire la china, costituisce – in sé – una misura contro
la dispersione scolastica? Sfido chiunque a costruire una qualsiasi ricerca
scientifica capace di corroborare una relazione di questo tipo.

L’unica possibile relazione tra la lotta alle diseguaglianze e le prove invalsi
è la seguente: fornendo ai docenti un’informativa sui punti di difficoltà che i
loro studenti incontrano nell’affrontare alcune prove, preparate con criteri
scientifici accurati, si consente al personale educativo di ricalibrare metodi
e contenuti del proprio lavoro per provare a garantire a tutti – anche ai più
svantaggiati – una formazione migliore sulle competenze fondamentali. Questo
naturalmente sottendendo il dubbio che i metodi e gli strumenti utilizzati
ordinariamente dai docenti (o da alcuni di questi) siano insufficienti a intercettare
le difficoltà individuali e a porvi rimedio. Le prove standardizzate, al
contrario, sarebbero capaci di far emergere ciò che al docente sfugge, e dunque
renderebbero possibile la compensazione, offrendo al futuro scolastico degli
allievi quel che i suoi insegnanti non sarebbero in grado di garantire.
Ipotizziamo per assurdo di condividere questa impostazione, riusciremo comunque
a seguire il ragionamento soltanto fino all’emersione del dato numerico. Ma non
è dato di sapere quanto e come quel nudo dato possa innescare la promessa
trasformazione.

Con lo stesso procedimento astratto alcune funzioni strumentali, nelle singole
scuole, promuovono ossessivamente la costruzione di prove comuni obbligatorie,
ribadendone la necessità per “armonizzare” l’offerta formativa. In realtà,
impiantare una macchina così complessa, con il solo fine di sollecitare il
singolo docente a rivedere le proprie strategie, e confidando sul suo spirito
di collaborazione, è un’inconsapevole ipocrisia, una razionalizzazione di un
bisogno più profondo, che è forse l’esigenza di esercitare uno stringente
controllo sociale. Nelle singole scuole, c’è sempre qualche insegnante che
coltiva il sogno represso di mettere in riga i propri colleghi, analogamente ai
vertici delle istituzioni educative statali domina una sostanziale diffidenza
nei confronti dei docenti, ma è una sorta di profezia che si auto-avvera. Dopo
anni di delegittimazione e proletarizzazione dei lavoratori della scuola,
troppo facile diventa evidenziarne limiti e lacune.

Tra l’altro, detto per inciso, le politiche ministeriali in campo scolastico e
universitario hanno dato prova, negli ultimi anni, di discutibile sensibilità
per le tematiche legate al diritto allo studio. Le motivazioni di questo
iperattivismo valutativo, dunque, andranno cercate altrove.

2. In realtà l’invalsi si è attrezzato per misurare non solo i risultati di
ciascuna singola classe, ma addirittura di ogni singolo allievo, rilasciando
alla fine del percorso di scuola secondaria (di primo e di secondo grado) una
vera e propria certificazione delle competenze acquisite, rispetto alla quale i
docenti non hanno alcun potere di intervento o giudizio. È del tutto evidente,
allora, che quel passaggio sull’eguaglianza è strumentale, e costituisce una
sorta di captatio benevolentiae, per far ingoiare ai docenti il boccone più
amaro. Il documento, infatti, è soprattutto al personale della scuola che si
rivolge.

Sempre nel quadro delle giustificazioni preliminari, gli estensori di quel
testo precisano – bontà loro – che le prove non possono “misurare tutto”,
poiché “ci sono competenze importanti – ad esempio quelle di comunicazione
verbale e scritta, affettive e relazionali, – che non sono valutabili con una
prova standardizzata ma solo attraverso il contatto quotidiano che l’insegnante
ha con i suoi allievi” (p. 9). Anche qui, gli estensori del documento pare
abbiano voluto mettere le mani avanti, anticipando come propria tesi una
prevedibile obiezione; operazione cautelativa, dunque, che serve a predisporre
il terreno ed evitare che venga messo a nudo l’effetto più importante della
scelta politica che si è deciso di portare a compimento.

È del tutto naturale che con la concessione di ampi spazi di autonomia alle
scuole, si sia resa necessaria, a livello centrale, l’istituzione di un
organismo di controllo. In altri termini, se lo Stato cede alle scuole lo
spazio utile per singolarizzare i percorsi formativi e in parte anche le
programmazioni (che ora possono variamente accomodarsi nelle più generiche
Indicazioni Nazionali), lo Stato deve anche garantire in qualche modo che i
titoli di studio posseggano valori reali, prima di certificarli. Nulla da
eccepire. Finché sopravvivono gli Stati nazionali, questo tipo di passaggio è
ineludibile. Il punto è che siamo impantanati in una zona ambigua. Infatti
l’esito della prova invalsi non incide sulla possibilità di conseguire quei
titoli. Non ancora. Per il momento siamo arrivati soltanto all’obbligatorietà
della partecipazione. L’
invalsi non può bocciare; può però valutare i singoli,
e può farlo indipendentemente dal processo di valutazione definito dal
Consiglio di classe.

Lo Stato ha rinunciato a monitorare le condizioni di salute delle diverse
scuole per mezzo esami affidati a Commissari esterni con chiamata nazionale: in
parte per ragioni di risparmio, ma anche per sfiducia nei confronti degli
insegnanti, e soprattutto per adesione a un sistema ideologico e di cultura
statistico-gestionale che ha inebriato tutti i paesi del turbocapitalismo.

Certamente in futuro l’unica valutazione utile ai fini del rilascio di un
titolo di studio sarà legata alle cosiddette “certificazioni esterne”, cioè
alle prove invalsi. La strada è questa.

Assegnare una certificazione individuale produce l’effetto sociale immediato di
allarmare i genitori, i quali vivono nella società di mercato, e intuiscono
immediatamente il rischio che in futuro l’unico numero preso in considerazione
dalle facoltà a numero chiuso o da eventuali prove concorsuali, sarà l’esito
della prova invalsi, e non la valutazione interna della scuola. Possiamo dar
torto a questi genitori? Assolutamente no. La loro preoccupazione e
responsabilità dev’essere ricondotta alla creazione di tutte le condizioni
utili per non procurare ai propri figli elementi di rischio nell’integrazione
sociale. I dirigenti invalsi lo sanno, e anche se alla fine del documento
raccomandano agli insegnanti di spiegare ai genitori il “vero” spirito dei
test, in realtà credo si augurino proprio quella reazione parentale. Ogni ente
istituzionalizzato, infatti, trova in sé stesso e nella propria replicazione,
insieme alla creazione della propria indispensabilità, la sua ragion d’essere.

3. Tutto questo accadrà, perché è nella cultura dominante, è il cuore della società
della prestazione, dove i danni sono prodotti socialmente, ma i costi ricadono
sull’individuo, e ogni fallimento personale si potrà sempre attribuire alla
mancanza di problem solving o di spirito d’iniziativa, deresponsabilizzando chi
amministra o dovrebbe amministrare i processi globali. Anche le istituzioni,
come ogni frammento di società, stanno assumendo l’imperativo del potenziamento
individuale nella definizione di nuove procedure operative e soluzione dei
problemi. Lo preannunciava Ehrenberg nel 1999: “le regole appaiono radicalmente
mutate, qualunque sia il settore – impresa, scuola, famiglia – preso in esame.
Non più obbedienza, disciplina, conformità all’etica corrente, bensì
flessibilità, spirito di cambiamento, rapidità di adattamento, ecc. Padronanza
di sé, duttilità psichica e affettiva, capacità di azione/reazione fanno in
modo che ciascuno si senta in dovere di adeguarsi in permanenza a un mondo che
sta appunto perdendo la sua permanenza, un mondo instabile, provvisorio, con
flussi e traiettorie sobbalzanti” (A. Ehrenberg, La fatica di essere sé stessi.
Depressione e società, Torino 1999, p. 257).

Con questo gioco statistico, gli insegnanti vengono analogamente inghiottiti
dallo schema della competizione rispetto agli esiti. Lo stesso vale per i
dirigenti scolastici. Tutte le componenti della scuola, in modo non
necessariamente armonico né omogeneo, correranno a cercare il risultato più
performante. Ma per fare questo sarà necessario un arbitro oggettivo, cioè
l’invalsi, appunto, che emetterà la sentenza sui livelli di competenza grazie
alle prove computer based, con valutazione tempestiva e inoppugnabile.

Il documento pubblicato insiste nel precisare che non si tratta di una seconda
pagella, e che dev’essere integrato con la valutazione interna. Ma tutto lascia
pensare a un gioco di prestigio. Facile intuirne, infatti, l’effetto sociale.
Fatta accezione per i più avveduti, infatti, gran parte delle persone sono
indotte a ritenere – ad esempio – che la valutazione emersa da un esame
linguistico per l’ottenimento delle certificazioni Cambridge attesti meglio e
più oggettivamente la preparazione di un allievo, rispetto a un bel 9 in
pagella, assegnato dal docente di inglese. Accadrà esattamente la stessa cosa
per le altre aree disciplinari. Il mito dell’oggettività è un ingombrante
feticcio nei processi docimologici. E come si è ben evidenziato da Valeria
Pinto in Valutare e punire: verso una cultura critica della valutazione (Cronopio
2012), lo strumento rischia di distruggere ciò su cui esercita la propria
funzione.

4. La valutazione andrà sempre più a sganciarsi dal processo educativo, e
questo può essere forse apprezzato da una prospettiva ingegneristica, la quale
male e pericolosamente si applica ai fenomeni culturali e psico-sociali, che
sono – grazie al cielo – molto più complessi. Sebbene le prove invalsi
costituiscano una naturale risposta della macchina statale alla concessione
dell’autonomia, esse nella loro immanente tensione all’eccedenza rispetto
all’uso, lasciano spazio all’abuso. Gli automatismi di controllo delle
Istituzioni vanno sempre bilanciati da processi democratici. L’ideologia
dell’efficienza ha già dimostrato a sufficienza i disastri che è capace di
produrre. Non abbiamo bisogno di ulteriori dimostrazioni. Occorre pluralismo,
sempre. Eppure anche su questo il documento
invalsi sembra volersi cautelare
anticipatamente, precisando che le prove non possono dire “come” si insegna. Si
limiterebbero invece solo a evidenziare cosa non si riesce a insegnare. Ma
questo non è del tutto vero.

Le prove invalsi sono costruite per valutare alcune competenze specifiche,
nella lettura, nel calcolo e nella comprensione linguistica, e sono pensate in
modo assai serio. Personalmente trovo molto ben strutturate le prove
invalsi;
si tratta di esercizi utili e stimolanti. Ma non è affatto onesto sostenere che
non suggeriscano il “come” insegnare. Esse sono per definizione impossibili da
“preparare”. Esercitarsi sui test è del tutto inutile, se non come maturazione
di un’attitudine alla gestione dei tempi e dello stress.

Le prove esigono una ristrutturazione della metodologia didattica in chiave
costruttivista, centrata sulla didattica per competenze, e segnata dal ricorso
frequente a compiti di realtà e situazioni problematiche. Richiedono inoltre un
fortissimo irrobustimento delle capacità metacognitive, quindi spingono
naturalmente all’adozione di metodologie di studio capaci di stimolare una
riflessione sul proprio metodo d’apprendimento, come mappe mentali, mappe
concettuali e algoritmi.

Nulla di male, ovviamente. Sono tutte idee interessanti e in gran parte
condivisibili. Ma non è vero che esse non producano una trasformazione del
metodo di insegnamento. Se le prove invalsi fossero solo uno strumento di
rilevazione statistica, poco male. Ma essendo invece usate come strumento di
valutazione delle istituzioni scolastiche, e dei singoli allievi, esse forzano
i docenti a una revisione del proprio metodo. Non si può dire, come si legge
nel documento, che resta inviolata e anzi rafforzata la “libertà
d’insegnamento”. Questo importante istituto costituzionale è di fatto messo in
discussione. Il vecchio esame basato sui programmi, paradossalmente e nelle sue
rigidità, lasciava maggiore discrezione metodologica al docente. L’importante
era arrivare ai contenuti di programma, qualunque fosse la strada prescelta. La
certificazione
invalsi invece valuta prevalentemente l’assimilazione di un
metodo, e non di contenuti culturali. E il metodo, in questo caso, è la forma
mentis. Essa è utile e anzi necessaria per l’affermazione dell’individuo nella società
della prestazione, non c’è dubbio. Eppure, la costruzione precoce e scolastica
di questo dispositivo cognitivo significa riprodurre fin dall’infanzia i
modelli della società manageriale, favorendo la costituzione di un filtro
ideologico per la lettura della realtà e dei rapporti umani; invece di
promuovere il pensiero critico, rischia di far apparire come naturali e
metastoriche alcune trame sociali che sono invece il prodotto di un sistema di
mercato non più controllato; si tratta di una manipolazione della libertà di
insegnamento forse anche più stringente di una limitazione censoria sui
contenuti. Sappiamo infatti che la scuola è un’importante agenzia di
inculturazione, cioè di apprendimento di norme, valori e modelli sociali. Al posto
di un vero pluralismo culturale, rischiamo di orientare la scuola verso una
sostanziale unilateralità della cultura aziendale post-fordista. Con tutti i
rischi psicologici che questo atomismo competitivo esasperato stanno
determinando nelle nuove generazioni. Perché a prescindere dalle prove
invalsi,
il modello educativo connesso alla società prestazionale ha già iniziato a
sostituire, gradualmente, quello più strettamente agganciato alla vecchia
società salariale. Le motivazioni sono di ordine sociale. I media e il mercato
del lavoro hanno piegato negli ultimi trent’anni la mentalità collettiva, e il
suo immaginario. La scuola in parte resiste, soprattutto perché nei processi
educativi chi insegna tende inconsapevolmente a riprodurre alcuni meccanismi vissuti
molti anni prima come discente. Con questo “conservatorismo” strutturale, molti
insegnanti veicolano un modello sociale e intellettuale superato dai tempi, ma
che ha almeno il merito di mostrare l’esistenza di un’alterità, occultata
dall’immaginario competitivo dei reality show, degli youtuber e dal mito dell’ empowerment:
modelli spregiudicatamente pervasivi in tutti gli altri prodotti simbolici
della società. La scuola fa resistenza, per lo più in modo inconsapevole,
politicamente inefficace e culturalmente scomposto. Ma quella ritrosia va
piegata e forzata dal potere centrale e dai suoi apparati periferici. Ecco la
funzione degli enti certificatori esterni. In ogni caso, gli effetti sui più
giovani della cultura del rafforzamento di sé, in funzione di un’affermazione
sociale presente e futura, sono evidenti.

Quale insegnante non ha notato negli ultimi anni una moltiplicazione
incontrollata di disturbi d’ansia e attacchi di panico e stati depressivi tra
gli studenti? Prigionieri anche noi della cultura della società prestazionale,
tendiamo a dire che questi ragazzi non sono abbastanza “forti”, e facciamo
cadere sull’individuo il peso di un problema sociale. Ed essi fanno lo stesso,
ponendosi al cento per cento quali responsabili delle proprie difficoltà,
isolandosi oppure affossando chi rimane indietro. Abbiamo osservato con stupore
quel che accadeva in Giappone negli anni passati, con quel fenomeno chiamato hikikomori,
e che tuttavia inizia a comparire anche nelle nostre società: sempre più
numerosi sono i casi di adolescenti che si recludono all’interno delle proprie
stanze, riducendo al minimo il contatto vivo con la società, mantenuto attivo
soltanto per mezzo delle relazioni virtuali. In aumento costante è il dato
relativo alle prescrizioni di farmaci antidepressivi, anche in Italia (Rapporto
2015 – Agenzia Italiana del farmaco). Per ogni individuo travolto
dall’iper-attivismo ansiogeno della cultura del successo, ce ne saranno altri
che resteranno ai margini, che abbandoneranno la lotta, con comportamenti
spesso autodistruttivi.

Si obietterà che i nuovi modelli educativi suggeriscono strategie collaborative
da innestare nella didattica ordinaria, ma si noti in quale ottica: il cooperative
learning è interpretato come strumento funzionale alla costruzione di abilità
sociali e relazionali, che il singolo dovrà saper mettere in gioco in
situazioni problematiche. Imparare a collaborare è solo una delle tante life
skills. La sfera affettiva è così catturata nella logica della performance. Si
tratta di un altro dispositivo biopolitico.

L’emarginazione sociale non si costruisce esplicitamente, però, e questo è
veramente interessante: perché la società della performance assume la bandiera
dell’inclusione per incentivare invece l’esclusione e la gerarchia. È quel
processo che i sociologi definiscono “integrare per differenziare”. Per cui un
istituto come l’invalsi si adopera a stendere un documento in cui assume come
bandiera l’articolo 3 della Costituzione, ma di fatto reitera e incentiva un
modello sociale che esprime il massimo grado di diseguaglianza che la storia
del capitalismo abbia mai conosciuto. Si tratta del paradigma ben sintetizzato
da quello “spirito di iniziativa e imprenditorialità” evocato tra le
“competenze-chiave” individuate dall’Unione Europea.

Includere per escludere, dunque: un meccanismo complesso, che gli insegnanti
hanno bisogno di gestire e bilanciare con una saggia gestione della didattica,
e anche degli strumenti valutativi. Questa responsabilità pedagogica è oggi
però messa seriamente in discussione.

I vertici dell’invalsi sembrano manifestare tutta la propria sfiducia nei
confronti dei docenti attraverso l’introduzione delle prove computer based. È
evidente che lo scopo principale di questa scelta non semplice (le scuole sono
per lo più male attrezzate) è associata al desiderio di evitare il più
possibile che gli studenti si aiutino vicendevolmente o che l’insegnante
suggerisca le risposte (i quesiti sono differenti per ciascuno studente).
Soprattutto, l’insegnante è escluso dal processo di correzione delle prove.
Tagliato fuori dal processo di valutazione dei propri studenti, o almeno da
quella parte del processo valutativo che a breve diventerà preminente, e forse
l’unico.