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La geisha, retaggio di un Giappone che sta scomparendo

Carlo Terzano,
Lettera 43, 02 aprile 2018

Il
significato della parola. Le radici storiche risalenti al 1600. E i miti da
sfatare. Evoluzione di una figura entrata nell’immaginario collettivo e ora
finita ai margini della società nipponica.

Rappresentano
il retaggio di un Giappone che sta sparendo, vere e proprie vestali di una
cultura misteriosa, oggi in parte incomprensibile agli stessi giapponesi.
Sopravvivono in qualità di custodi di valori e tradizioni minacciati dalla
globalizzazione e sono tra le poche persone laiche a vestire ancora secondo i
dettami della moda orientale in un Paese che ha dismesso gli antichi abiti
(wafuku) per indossare giacche, cravatte, gonne e tailleur (y
ōfuku, i vestiti occidentali). Sono le geisha, o geishe (plurale del
sostantivo italianizzato), donne che votano la propria esistenza all’arte e al
bello, nella cui compagnia, spesso silenziosa, sono stati formati governi,
costruiti imperi e sollevate le fortune di molte aziende.

1. La
parola: traducibile come “persona portatrice di arte”
Quando si
parla superficialmente di Giappone vengono in mente i ciliegi in fiore, i
kimono e, inevitabilmente, le geishe. Fanno infatti parte di quell’immaginario
ridotto a mero luogo comune attorno al quale sono germinate parecchie
incomprensioni. Per capire anzitutto cosa sia una geisha, occorre andare alle
radici della parola che potrebbe essere tradotta come “persona portatrice di
arte”. Infatti, le geishe sono intrattenitrici raffinate specializzate nelle
arti della danza, della musica e della retorica. Contrariamente alle credenze,
dunque, il loro mestiere non ha nulla a che fare con quello della prostituta.

2. La
storia: inizialmente erano… uomini
Le prime
geishe comparvero nel 1600 e, almeno inizialmente, il loro era un mestiere
svolto da artisti di sesso maschile che intrattenevano con balli, canti e
battute forbite gli ospiti delle feste di corte. Con l’arrivo sul mercato delle
prime geishe donna, non ci fu competizione: potendo scegliere, i nobili e i
ricchi mercanti dell’epoca preferirono la compagnia del gentil sesso. Il
mestiere divenne centrale all’interno della rigida società feudale nipponica:
nacquero così vere e proprie scuole di formazione nelle quali le giovani erano
educate al culto dell’estetica. Sorsero anche gli hanamachi (letteralmente
“città dei fiori”): quartieri costellati dalle case da tè (ochaya) e dalle case
delle geishe (okiya) nelle quali queste donne vivevano e continuavano a
studiare, come vere e proprie vestali, lontane da sguardi indiscreti e,
soprattutto, dalla compagnia maschile che non fosse quella dei clienti.

3. Il
destino: una vita al servizio della “madre”
Molto
presto, le okiya divennero piccoli ma significativi potentati, spesso in accesa
concorrenza. Le tenutarie, chiamate “madri”, erano di fatto manager:
organizzavano gli incontri con i clienti delle geishe, li sceglievano per
assicurarsi che fossero sufficientemente prestigiosi così da non recare danno
all’immagine della casa, trattavano sul prezzo di ogni prestazione (che
raramente aveva natura sessuale) e, soprattutto, erano alla continua ricerca di
bambine di bell’aspetto che potessero essere instradate verso questo mestiere
così esclusivo. Chi voleva diventare geisha doveva iniziare dalla più tenera
età e prepararsi ad affrontare una vita quasi monastica di studio e sacrificio.
Vitto, alloggio e le salatissime rette delle scuole delle geishe erano
supportati dalle madri delle okiya, verso le quali ciascuna geisha contraeva un
debito che difficilmente sarebbe riuscita a ripagare. Perciò, di fatto,
raramente le geishe erano libere ma restavano per tutta la vita al servizio
della stessa madre, nella speranza di diventarne la prediletta e, alla sua morte,
ereditare l’attività.

4. Il
mito da sfatare: nulla a che vedere con le meretrici d’epoca romana
Le geishe
sono entrate nell’immaginario collettivo occidentale anche per via del trucco
pesante che ne cancella i lineamenti del viso, rendendole, soprattutto alla
luce fioca delle candele o della luna, eteree. E, in effetti, il loro ruolo
ricorda quello delle etère dell’Antica Grecia: donne di classe che si
accompagnavano a uomini facoltosi con lo scopo di fornire uno svago di natura
intellettuale. Perciò, nulla di più lontano dalla figura della meretrice
d’epoca romana. Poteva accadere, almeno in passato, che le geishe iniziassero a
intrattenere relazioni di tipo carnale con un cliente particolare: il danna.
Letteralmente significherebbe “padrone” ma, di fatto, era lo sponsor: colui
che, in cambio di una relazione sessuale in genere esclusiva, finanziava tutte
le attività della donna, saldandole i debiti contratti con la “madre” e
aiutandola a mettersi in proprio.

5. Il
rossetto: tinta ottenuta dal fiore Carthamus tinctorius
In epoca
feudale il successo delle geishe fu tale da spingere alle stelle il prezzo del
Carthamus tinctorius, il fiore dal quale veniva estratta la tinta del rossetto
che dipingeva la caratteristica boccuccia a cuore. Dato che il fiore del
Cartamo è ricoperto da spine, la leggenda vuole che le sue raccoglitrici,
pungendosi e versando il proprio sangue sui petali, rendessero il colore
particolarmente vivido e intenso. Servivano almeno 60 fiori per ogni rossetto e
il Cartamo arrivò a costare quanto l’oro, arricchendo in modo smisurato i
signori feudali che possedevano le piantagioni. Al contrario, le raccoglitrici
vivevano come schiave, per di più era vietato loro di truccare il viso.

6. I
clienti: in cerca di una “comunione spirituale”
Per
capire perché le geishe fossero tanto apprezzate bisogna allargare lo sguardo
alla società nipponica dell’epoca nella quale i matrimoni, soprattutto tra i
potenti, erano combinati e difficilmente frutto di una reale comunione
spirituale tra i coniugi. Le mogli dovevano tollerare l’ingombrante presenza
delle accompagnatrici anche quando il marito si invaghiva di loro e ne
diventava il danna. Ancora oggi i loro clienti, sempre più rari, sostengono che
con la propria consorte si possa, al più, discutere dei problemi della casa e
della famiglia, mentre con le geishe sia invece possibile svagarsi parlando di
teatro, di economia e di politica. La verità è che gli uomini d’affari
giapponesi, spesso frustrati e in fuga da un lavoro opprimente, arrivano a
rovinarsi pur di trascorrere qualche ora in compagnia di queste donne che li
fanno sentire coccolati e riveriti come gli antichi sh
ōgun (signorotti locali).
7. Le
gheishe oggi: trasformate in ragazze-immagine
Oggi le
geishe sono hostess paragonabili a quelle ragazze-immagine che, nelle fiere
occidentali, rappresentano i grandi marchi negli stand, assicurando un sorriso
a ogni avventore. Sono ingaggiate in occasione di meeting e di cene di lavoro,
ma difficilmente cantano, ballano e servono il tè. Soprattutto, le nuove
generazioni sono poco interessate al suono struggente dello shamisen (una
antica chitarra) o al lamento dello shakuhachi (un flauto di bambù) o a sentire
declamare antiche poesie magari in ky
ō-kotoba, l’aulico dialetto della
vecchia capitale, Kyoto, preferendo distrarsi nelle sale giochi o nei cinema.
Attualmente in Giappone sopravvivono meno di 500 geishe. È ancora possibile
vederle camminare, soprattutto al tramonto, nell’antico quartiere di casette
basse e in legno di Gion, a Kyoto, stretto tra il tempio di Yasaka e la sponda
orientale del fiume Kamo. I cartelli in doppia lingua (giapponese e inglese)
tradiscono la vera natura del luogo lasciando intendere di visitare non uno
spaccato del Giappone tradizionale ma una sorta di Disneyland tematico.
Infatti, le scuole non hanno più mecenati, ma sono finanziate dal Comune, che
ovviamente tenta di ricavarne un ritorno di immagine. È dunque questo il destino
delle geishe, trasformarsi da donne al servizio dell’arte a meste impiegate del
settore terziario?