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L’ idea russa: il particolare rapporto fra Stato e Chiesa ortodossa

Di
Gianmarco Cenci, L’Indro, 6 aprile 2018

In
prossimità della Pasqua ortodossa, Rosa Maria Parrinello dell’Università degli
Studi di Torino, ci illustra come il rapporto fra i due poteri si sia
sviluppato nei secoli e come questo vada a comporre l’identità nazionale russa.

La Pasqua
cattolica è ormai alle spalle: il 1 aprile i credenti hanno celebrato la
Resurrezione di Gesù Cristo. Ogni anno, questa festività cade in un giorno diverso,
essendo il calcolo della data basata sul calendario lunare: tradizionalmente,
la data prescelta è la domenica successiva al primo plenilunio dopo l’equinozio
di primavera, che avviene il 21 marzo. Tuttavia, così come avviene in occasione
del Natale, non vi è coincidenza fra le Pasque di tutto il mondo cristiano. Gli
ortodossi, infatti, si apprestano in questi giorni a celebrare la propria
Pasqua, che si terrà la domenica prossima ventura, in data 8 aprile.
Questo dà
l’occasione per una analisi di quella che è la Chiesa ortodossa, con una
particolare attenzione a quella russa. Infatti, lungi dall’essere un unico
monolite, il mondo ortodosso si compone di varie Chiese autonome (o, come si
preferisce dire, autocefale) suddivise, tendenzialmente, su base nazionale. La
prima Chiesa ortodossa, a cui viene riconosciuta una sorta di primazia, è
quella bizantina (o greco-ortodossa, da non confondere con la chiesa ortodossa
greca), guidata dal Patriarca di Costantinopoli, oggi Istanbul. Fu questa la
sede patriarcale con cui Roma entrò nel conflitto che, nel 1054, portò al
cosiddetto scisma d’oriente, il quale comportò la prima grande separazione
all’interno della cristianità, quella fra cattolici e ortodossi. Oggigiorno, la
sede patriarcale costantinopolitana può contare su un relativamente ristretto
seguito di fedeli, essendo su un territorio a netta prevalenza musulmana dal lontano 1453, anno
della caduta di Costantinopoli in mano ottomana. Proprio pochi anni dopo, nel
1459, Mosca si rese autonoma da Costantinopoli e pose così le basi per
l’istituzione della Chiesa ortodossa russa. Iniziò così il rapporto con lo
Stato russo, che va a comporre uno delle più particolari relazioni fra Stato e
Chiesa. Un rapporto fatto più di incontri, che di scontri, più di
avvicinamenti, che di allontanamenti, e che rende Stato e Chiesa i due pilastri
su cui fondare l’identità della nazione russa e della propria missione nella
Storia.
È
difficile, per chi non è addentro alle complesse dinamiche dell’ortodossia
russa, comprendere come questo rapporto si sia sviluppato nel corso della
storia. Abbiamo perciò chiesto alcuni chiarimenti a Rosa Maria Parrinello
dell’Università degli Studi di Torino, docente e autrice di numerosi testi di
Storia del Cristianesimo. Tutto cominciò con la caduta di Costantinopoli:
“Mosca venne costituendosi come metropoli autocefala a partire dal 1459. Tra la
fine del XV e gli inizi del XVI secolo, in un clima di forte tensione
escatologica e sulla spinta di speculazioni storico-teologiche relative
all’apostasia di Costantinopoli nell’unione fiorentina (la temporanea
ricomposizione fra Chiesa cattolica e ortodossa del 1439) e alla caduta della
città in mano turca, tra i dotti moscoviti vi fu chi scorse nel dominio dello
zar l’ultima definitiva manifestazione dell’impero ortodosso, con capitale la
Terza Roma, cioè Mosca”. Investita del ruolo di guida del mondo cristiano un
tempo appartenuto a Roma e a Costantinopoli, la Seconda Roma, Mosca e l’Impero
russo devono essere pronti alla grande missione che è stata loro assegnata e si
dotò pertanto di un forte impianto teorico: “Fondamentale fu, nella
teorizzazione del rapporto tra Chiesa e potere politico, l’igumeno Iosif di
Volokolamsk, sostenitore della cosiddetta «diarchia sinfonica»: egli affermava
che lo zar per natura è simile agli uomini, ma per potenza è simile a Dio.
Dunque, per assicurare la verità e la giustizia nell’operato dello zar, doveva
dispiegarsi nella vita sociale l’azione della gerarchia ecclesiastica, cioè la
necessità di una collaborazione. Con questa teoria egli determinò in Moscovia
una forte solidità alle istituzioni ecclesiastiche, dando origine a un regime
sostanzialmente diarchico. La diarchia sinfonica di ispirazione iosifita aveva
poi superato indenne il periodo di dispotismo di Ivan IV il Terribile e aveva
trovato ratifica nell’istituzione del patriarcato russo del 1589, quando il
metropolita Iov venne intronizzato patriarca di Mosca e di tutta la Rus’ da
Geremia II di Costantinopoli”.
Non fu
sempre un rapporto sereno, come dimostrano le spinte occidentaliste che si
avvertirono nell’Impero russo a partire del XVII secolo. Parrinello spiega
infatti che: “Pietro I alla fine del XVII secolo, volendo inserire la Russia
nella vita politica e culturale europea, cominciò un’attività di riforma della
vita dell’impero, volta far assumere ai suoi sudditi abbigliamento e usi
occidentali: il trasferimento della capitale da Mosca a Pietroburgo segnò il
mutamento radicale della vita istituzionale e delle consuetudini sociali della
Russia. Egli mise in crisi l’identificazione società-chiesa, arrivando nel 1702
alla proclamazione della libertà di coscienza: l’impero cessava di concepirsi
come suprema istituzione politica della comunità ecclesiale ortodossa e
affermava la sua autorità secolare, cui anche le istituzioni ecclesiastiche
avrebbero dovuto soggiacere: era, questa, la liquidazione della diarchia
iosifita”. Si tentò dunque di subordinare l’autorità religiosa a quella
statale, spiega Parrinello: “Nel 1721 si ha l’abolizione del patriarcato e
l’istituzione, al suo posto, della Santa Sinodo Governante, un collegio
ristretto di ecclesiastici, cui spettava di occuparsi dell’intera vita e
disciplina della Chiesa russa, composto di membri scelti dallo zar e che lo zar
poteva allontanare in qualsiasi momento. Ne sorvegliava l’attività un
funzionario laico, «l’occhio vigile del sovrano», che presentava allo zar i
deliberati per l’approvazione. La Chiesa russa sarebbe vissuta in questo regime
fino al 1917, quando la Rivoluzione pose fine allo zarismo”. Questa politica
continuò anche sotto Caterina II, despota illuminata, che soppresse buona parte
dei monasteri ed estese l’influenza della cultura occidentale in Russia.
Con
l’avvento del XIX secolo, la tendenza cambiò. Nell’epoca in cui fioriscono i
nazionalismi, la Russia coniò la propria identità nazionale facendo della
religiosità una parte essenziale. Come ci spiega Parrinello: “Nel corso
dell’Ottocento la Santa Sinodo Governante riflette la sostanziale consonanza
tra la Chiesa ortodossa e la politica degli zar, poiché lo stato russo si
appoggia all’ortodossia ufficiale e quest’ultima sfrutta lo spazio concessole
dal regime: tra nazionalismo russo e fede ortodossa si crea una connessione
inestricabile. L’attitudine degli zar verso l’ortodossia si stabilizza:
l’ortodossia è un vero e proprio fattore di identità, che garantisce coerenza
interna all’impero. Con l’avvento ottocentesco delle nazioni e dei nazionalismi
gli zar abbandonarono la politica ecclesiastica del secolo di Pietro il Grande
e di Caterina II”. Quello che è alla base della definizione dell’identità
russa, è anche il secolo di quel grande dilemma che accompagna, ancora oggi, il
dibattito culturale, quando non politico, della Russia. Il grande impero deve
avvicinarsi al modello occidentale o deve seguire la propria strada? È la
questione russa, che animava i confronti fra gli intellettuali del XX secolo e
che dava una propria lettura del ruolo della Chiesa ortodossa in Russia.
Parrinello è molto precisa su questo punto: “Due furono le principali correnti
di pensiero: l’una, occidentalista, sosteneva l’arretratezza della nazione. Non
si trattava di disprezzo per quanto è russo, ma di esterofilia. In generale,
gli occidentalisti attribuivano alla civiltà russa scarsa rilevanza storica e
ritenevano l’ortodossia una sventura per la Russia, perché legata alla
tradizione bizantina, priva di creatività. L’altra corrente, detta slavofila,
contava su pensatori che seppero toccare la sensibilità russa: essi sostenevano
che la cultura russa fosse svalutata dalle correnti occidentaliste e credevano
che la Russia avesse un suo contributo da offrire all’umanità. L’ortodossia è
fondamentale nel loro pensiero, poiché può condurre al più autentico
cristianesimo, di contro al cattolicesimo, autoritario e scolastico, e al
protestantesimo, razionalista e individualista”.
La
questione culturale era centrale per comprendere gli sviluppi di quello che
sarebbe stato lo sviluppo della Russia dei decenni successivi e che, per quella
particolare composizione quasi olistica del dibattito russo, investiva ogni
campo. Parrinello ci illustra come: “la polarizzazione occidentalisti-slavofili
continua sotto altre forme e troviamo una nuova classe intellettuale,
l’intelligencija, di cui fanno parte persone provenienti da tutte le classi
della società e della cultura. Essa consiste nell’amalgama di tutti i Russi
favorevoli alle riforme, da quella del sistema agrario a quella del sistema
autocratico. Le idee politiche occidentali sono le predilette: l’intelligencija
è avversaria della Chiesa ortodossa, compromessa con il regime zarista
autocratico. Altri intellettuali russi si oppongono all’intelligencija:
Dostoevskij, Soloviev e Tolstoj esprimono nelle loro opere una coscienza
cristiana ortodossa russa non dottrinaria e non schematica, conducendo l’élite
russa e la stessa intelligencija a interrogarsi sulla religione. Agli inizi del
Novecento, l’intelligencija positivista e socialista si confronta con una
rinascita religiosa al suo stesso interno. Di pregnante significato è la
conversione all’ortodossia di quattro marxisti, filosofi ed economisti, tra i
più noti e rappresentanti dell’intelligencija, di cui ricordiamo almeno Nikolaj
Berdjaev, autore di un saggio che è ormai diventato un classico tra gli studi
su Dostoevskj (‘La concezione di Dostojevskij’) e punto di riferimento
putiniano”.
La
Rivoluzione di Ottobre
, tuttavia, incombeva e si annunciavano tempi
duri per la Chiesa ortodossa russa. I bolscevichi miravano a eliminare
l’influenza della Chiesa sullo Stato e a rompere dunque il rapporto che legava
i due poteri. Infatti, come spiega Parrinello: “la separazione tra stato e
chiesa fu formalizzata con il decreto del 23 gennaio 1918 dai bolscevichi come
rottura con la secolare tradizione dell’alleanza tra potere imperiale e
ortodossia: scopo dei bolscevichi era quello di eliminare l’influenza nella
società russa della Chiesa ortodossa e di ogni altra comunità religiosa. Vi
furono divieti dell’insegnamento religioso, sequestri di beni di istituti
ecclesiastici, per arrivare al divieto della catechesi, del possesso di
qualsiasi bene e struttura, alla manifestazione di pubbliche opinioni: fu però
ammessa la libertà di culto”. Mentre gran parte dell’intelligencija si
rifugiava all’estero, la Chiesa ortodossa – che nel frattempo aveva
ripristinato la figura del patriarca – si ritrovava a fronteggiare la più
grande sfida alla propria sopravvivenza. I problemi iniziarono subito: “Quando
Stalin prende il potere, nel 1924, è patriarca Tichon, che muore l’anno
successivo, e il governo sovietico non permette alla Chiesa l’elezione di un
successore, in linea con il proprio obiettivo che è l’eliminazione
dell’ortodossia dalla società, da realizzarsi attraverso la lotta antireligiosa
nelle sue manifestazioni ideologico-propagandistiche e repressivo-persecutorie.
Nonostante le politiche antireligiose, il monachesimo è sopravvissuto in
clandestinità, come anche altre forme di vita religiosa: e quando il 6 gennaio
del 1937 viene fatto il censimento della popolazione (i cui dati sono stati
diffusi solo negli anni Novanta!), il 56,7% degli intervistati dichiara di
essere credente. In parallelo, all’interno del partito comunista si consolida
l’opinione circa la necessità di una completa liquidazione della religione, che
dà origine, insieme con altri fattori, a quel processo segnato da violente
ondate di repressione che ha preso il nome di «grande terrore».”. Furono anni
difficili ma, nei momenti di difficoltà, lo stesso Stalin non mancò di
appoggiarsi all’ortodossia, quale strumento di coesione nazionale. Ancora
Parrinello: “Lo scoppio del secondo conflitto bellico viene a cambiare
profondamente le cose e vede la rinascita della vita religiosa nei territori
occupati dalle truppe naziste, che non danno sostegno alla Chiesa ortodossa e
tuttavia ne canalizzano l’antibolscevismo. Ma ciò che emerge in quel periodo, e
che a Stalin non dovette passare inosservato, è il profondo patriottismo della
Chiesa russa. Stalin riconsidera i rapporti fra Stato e Chiesa, assicurando un
sostegno economico statale a quest’ultima: la clandestinità è finita, anche se
le strutture ecclesiastiche vengono centralizzate e l’episcopato controllato”.
Si arrivò addirittura a permettere, nel 1943, l’elezione di un nuovo patriarca.
Tuttavia, con la fine di Stalin, si riaprì una nuova fase di chiusura alla
religione.
Sono
passati anni da allora e la situazione, oggi, è completamente diversa. Stato e
Chiesa sono tornati, sotto Putin, a stabilire una relazione molto proficua per
entrambi e il sostegno reciproco è alla base del corso inaugurato, orami
diciotto anni fa, con l’elezione dell’attuale Presidente della Federazione
Russa. Ma qual è, in ultima analisi, la natura di questo rapporto che lega i
due poteri in Russia e che costituisce così, per citare un autore caro a Putin,
‘l’idea russa’? Parrinello ce lo spiega molto chiaramente: “Il punto chiave di
questa storia religiosa e politica è che le Chiese ortodosse non valorizzano la
differenza istituzionale tra Chiesa e Stato, ma vedono nella composizione del
possibile conflitto l’essenza stessa del messaggio cristiano. Questa visione ha
permesso di sopravvivere a settant’anni di comunismo. Con alcuni compromessi,
certo. Tuttavia il ruolo attuale che la Chiesa ortodossa ha nella società russa
e la sua relazione con lo Stato è un fenomeno normale, condizionato dallo
sviluppo storico della Russia e dalla natura stessa della Chiesa ortodossa. Il
nazionalismo russo di cui Putin è interprete autentico riconosce alla Chiesa
ortodossa il ruolo di “Chiesa Russa” o “Chiesa dei Russi”, portatrice di
valori, principi e tradizioni, che sono parte integrante dell’identità della
Nazione e che, per questo, lo Stato deve difendere”.