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Intervista alla regista Yuko Kaseki, che porta in scena uno spettacolo con attori disabili

di Amelia Massetti, Il Mitte, 11 aprile 2018. Il teatro Thikwa è un teatro per persone diversamente abili e non. È un esperimento artistico con artisti disabili avviato in Germania nel 1991. Tutte le produzioni del Thikwa hanno in comune la ricerca di un’estetica che esprima sia la particolare diversità dei partecipanti sia le loro somiglianze

Vengono espresse le aree artistiche di dramma, performance, musica, lingua e danza e la loro adiacenza. L’obiettivo è affrontare queste discipline artistiche in modo produttivo. Tutte le produzioni di Thikwa sono co-prodotte da attori disabili e non, e portate sul palcoscenico. Attori esterni, musicisti, ballerini o altri artisti e registi o coreografi vengono assunti per le singole produzioni.
Ho intervistato la regista e coreografa Yuko Kaseki dello spettacolo:”Ur*Kunft all’inizio era PEN BIG BANG” in scena dal 10 Aprile presso il Teatro Thikwa. Le repliche si protraggono fino al 20 di Aprile. Ur-jump esplora un mondo primordiale e propone una serie di domande esistenziali. L’inizio della terra si riconduce al Big Bang o alla creazione di Dio? La Terra ha la forma di un guscio di tartaruga o di un uovo? E poi la grande domanda: è nato prima l’uovo o la gallina? Le madri o noi? Ci sono poi domande più semplici, ma non meno fondamentali: per colazione è meglio un uovo fritto, una frittata o un uovo a sorpresa? E da dove viene il pollo di KFC o di McDonald’s? Con immaginazione visivamente sbalorditiva, Thikwa sogna un mito di creazione sospeso tra iperrealismo e fantascienza. I collage delle immagini sono densi e si mescolano con enigmi personali e ipotesi, creando un nuovo mondo.

La prima domanda è: che cosa significa Ur * Kunft, perché questo titolo?

Ho parlato con Antonis Anissegos, un musicista greco, quando abbiamo immaginato il pezzo. Poi ho avuto un’idea che si articolava sul genere fantascientifico, e intorno ai concetti di “tempo” e di “esaurimento”. Abbiamo poi considerato quale potesse essere il titolo migliore: ricorrevano i temi dell’orologio, dell’inizio e del primitivo, quasi sospeso tra passato e futuro. E poi il presente, la storia della fatica di nascere in questo mondo, che è diverso per ogni paese. Volevamo comunicare un nuovo futuro attraverso il Thikwa Theatre, per far uscire di nuovo le persone dalla storia, questa era l’idea.

Da quanto tempo lavori con il Teatro Thikwa?

Da 10 anni

Ho visto molti dei tuoi spettacoli teatrali nel Teatro Thikwa e li trovo sempre molto interessanti. Come madre di Lia, che lavora anche in questo spettacolo teatrale, la mia domanda è come fai a lavorare come coreografa con le persone disabili?

All’inizio lo trovavo difficile. Prima di lavorare con Thikwa, non ho mai lavorato con persone disabili. Sulle prime ero totalmente distrutta, perché è diverso, ognuno è diverso, non si può dire: “facciamo così” e basta. Non funziona. Quindi ho pensato che fosse un’assurdità, che il mio pensiero fosse totalmente privo di senso e che io non potessi comunicarlo in modo definito. Poi ho provato a usare le immagini come se fossero semi, che lascio crescere attraverso l’intuito degli interpreti, e ogni fase è molto interessante. Io non sono la coreografa, ma la regista: trovo che, quando si lavora più liberamente, improvvisando, si riesca a costruire insieme il pezzo.

Vuoi dire che hai un’idea originale approssimativa di quello che vuoi fare, che poi cresce insieme agli attori? Dopo tanti anni di lavoro, trovi che gli attori del Thikwa riescano a mettersi in gioco più rapidamente, oppure l’inizio di un nuovo progetto è sempre ostico?

Naturalmente i colleghi ora mi conoscono e il teatro Thikwa si sta sviluppando artisticamente. Ci sono sempre più persone che capiscono il senso del mio lavoro e con esso anche il teatro stesso cresce. Di conseguenza anche gli attori entrano con molta più facilità nella creazione di un pezzo teatrale.

L’anno scorso avete partecipato al festival internazionale di Kiada, a Seoul, con Ur*Kunft. Come è stata questa esperienza?

C’era un forte entusiasmo e moltissima emozione. È stato molto divertente. C’era la curiosità di scoprire un nuovo paese. Non abbiamo avuto alcun problema, nonostante ci fosse pochissimo tempo per le prove generali. È andato tutto bene, tutto ha funzionato immediatamente, considerando che abbiamo lavorato in un altro teatro. È stato straordinario.

Oltre che la regista dello spettacolo, sei anche coreografa e la tua specialità è la danza Butõ. Puoi spiegare cosa significa?

Butõ è il nome di varie tecniche e forme di danza contemporanea ispirate dal movimento “danza tenebrosa” attivo in Giappone negli anni 50, sviluppatasi con diverse generazioni. La danza Butõ si è diffusa anche in altri paesi, fra cui la Germania, ed è cresciuta e si è sviluppata in diverse direzioni. Si basa su un concetto completamente nuovo del movimento, che ha radici profonde nel nostro modo di essere.

Mi sembra di capire questo movimento lento faccia emergere, attraverso una performance di danza, ciò che si cela nell’intimo di ogni persona.

Io lavoro in diversi ambiti. La danza Butõ è un tipo di performance, un’altra via per esprimersi. Su questa base si innestano gli altri pezzi di una performance.

Quando sei arrivata in Germania?

Nel 1991

Quasi come me. Ti senti tedesca?

No, non potrei

Neanche io. Nello spettacolo c’è una bellissima scena con molti cavi, dei quali tu cerchi di sbarazzarti. Mi fa pensare a internet, come se volessi dimostrare che tutto il mondo può comunicare via Wi-Fi, ma allo stesso tempo ne è prigioniero. Sembra quasi che tu voglia liberarti da questa comunicazione, che è anche una prigione. È giusta la mia interpretazione?

Il bello è che in ogni danza si può leggere quello che si vuole. In questo caso i cavi rappresentano quei cicli di vita e morte, che portano alla fine e alla rinascita in modo circolare. C’è un annodarsi, per poi ricongiungersi, connettersi e continuare a girare, fino a dissolversi di nuovo, come una storia circolare.

Quindi come se l’uomo non fosse libero, ma prigioniero di un ciclo.

Ho molte idee diverse a riguardo. Ad esempio, un microfono può rappresentare un incontro diverso, con una connessione che si attiva e si disattiva, portando il tutto in una nuova dimensione.

C’è anche un passaggio che coinvolge l’altro ballerino, che interpreta il movimento di un uccello. Questa scena richiama il tema dell’uovo? Oppure è riferita a quello della libertà?

Il riferimento è a un mito giapponese, nel quale due divinità creano un bambino, simbolo dell’incompiuto, che è il contrario della perfezione. Questo concetto mi ha affascinato. Volevo rappresentare il potere che viene da ciò che non è definito, che non è perfetto. Nella cultura greca, per esempio, l’ideale del divino è un ideale di perfezione, che è simbolo di forza. Io volevo dimostrare che anche un modello di esistenza alternativo può incarnare la forza.

Quando stai preparando una nuova esibizione, ovviamente, costruisci lo spettacolo insieme agli attori del Teatro Thikwa. Come lo fai? Quando ne parli, condividi con loro il significato della scena? Discuti il pezzo con loro?

Abbiamo un processo creativo. Io chiedo loro come rappresenterebbero un certo concetto e poi scegliamo insieme l’idea più appropriata.

A volte chiedo a mia figlia: “Sai cosa significa quello che fai?”. E la maggior parte delle volte non può rispondermi. Spesso ripete l’ordine delle sequenze a casa, l’intero movimento. È molto concentrata nel periodo in cui presenta un nuovo pezzo sul palcoscenico. Hai difficoltà a discutere l’argomento dello spettacolo con gli interpreti?

Non parliamo molto, comunichiamo attraverso il movimento. Le nostre esibizioni non vogliono essere esattamente come quelle tradizionali, dove tutti sanno esattamente cosa fare e che significato ha ogni azione.

Facciamo un esempio: come puoi interpretare la nascita?

Per esempio con l’immagine di un uccello che esce da un uovo. Lascio una grande libertà di interpretazione in termini di movimento.

Agli attori viene richiesto un allenamento particolare?

Ci alleniamo ogni mattina e ogni giorno a condurre l’allenamento è una persona diversa. Non sono sempre io a fornire l’input, a fare da leader. Oggi è stata Anne Sophie, ieri era Stefan.

È un processo semplice?

Non sempre! A volte di più, altre volte meno. Ognuno ha un’idea diversa del movimento e della comunicazione, ci sono alcune interpretazioni personali interessanti e molto belle. I ragazzi sono fortemente motivati a esprimersi con il corpo e a interpretare, in questo sono molto sicuri, come dei veri e propri attori teatrali.

Lavorare con persone disabili è, nel complesso, un’esperienza soddisfacente? I ragazzi che lavorano con te diventano più indipendenti, più sicuri di sé?

Mi piace pensare che riescano a confrontarsi con se stessi.

Come si rapportano alla necessità di ricordare le diverse sequenze del pezzo? Quanto tempo ci è voluto per costruire l’intero spettacolo? Come vanno le prove?

Si sentono molto forti e sicuri e dopo un anno le emozioni sono ora più profonde. Da una settimana stiamo riprovando, il risultato è un costante miglioramento. All’inizio hanno bisogno di tempo per ricordare tutte le sequenze. Ma ieri, dopo la prima settimana di ripetizione, erano molto più concentrati, tutto era profondamente più fluido.

Quanto tempo hai impiegato a montare lo spettacolo l’anno scorso?

Due mesi. Le prove ora durano due settimane e poi torniamo sul palcoscenico.