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In Pakistan il movimento dei giovani Pashtun si ribella alla violenza dei militari

Michela
Iaccarino, LEFT, 20 aprile 2018

Pashtun
contro la guerra. Contro i talebani, contro gli islamisti, ma anche contro
l’esercito pachistano.

Un nuovo
movimento secolare si sta espandendo nel Nord del Paese, guidato da un giovane
attivista, Manzoor Pashteen, 26 anni. Molti altri ragazzi lo seguono perché
«abbastanza è abbastanza. Questa regione non è un campo di battaglia».

Si chiama
Pashtun
Tahafuz Movement
, movimento per la protezione dei Pashtun, in tre
lettere: Ptm. Nato quattro anni fa, chiedeva lo sminamento della regione del
Waziristan, Pakistan nord-ovest.

Dopo anni di
silenzio, a gennaio 2018
, è rinato, rinvigorito da un’altra scia di
lotta civile: stesso nome, forze e istanze diverse, che stanno scuotendo la
società pachistana. I membri del Ptm chiedono diritti e sicurezza, si
battono affinché i colpevoli della violenza contro la loro minoranza paghino
per quello che compiono quotidianamente. Vogliono che Islamabad metta fine ad
omicidi illegali, sparizioni forzate, arresti sommari delle forze dell’ordine.
Non ci
sono bandiere alle loro manifestazioni: solo ritratti, fotografie, nomi. Di chi
è morto, scomparso o arrestato senza accuse o prove, e non è mai più tornato a
casa. Il Ptm è un movimento rinato nel sangue, dopo la morte di un gruppo di
uomini di un’area tribale Pashtun, ammazzati a gennaio a Karachi dalla polizia,
accusata di aver messo in scena una finta sparatoria per questi assassini
extragiudiziali.
Il
movimento chiede la fine «delle sparizioni forzate, costante insulto al popolo
Pashtun, fine della violazione dei nostri diritti», dice il membro del
movimento Ali Wazir: «riceviamo minacce dalle istituzioni statali, proprio come
dai “buoni talebani”. Un altro leader del movimento, Moshin Dawar, ha detto che
parlare apertamente delle azioni «dei militari in Pakistan è un suicidio»,
definirli oppressori e condannare checkpoint e il coprifuoco imposto alle aree
tribali è più che pericoloso, come parlare dell’Isi, servizi segreti del Paese,
ad alta voce. «Abbiamo passato gli ultimi due mesi a difenderci dalle accuse di
essere agenti stranieri e di lavorare per gruppi di potere. Ma tutto quello che
possiamo fare è mantenere il morale alto, il nostro primo errore sarà anche
l’ultimo» ha detto Pashteen.
Sono
migliaia quelli che in tre mesi hanno cominciato a partecipare alle marce,
portando per le strade i ritratti dei cari morti, scomparsi o detenuti dalle
istituzioni senza prove o processo. Per quanto li tollereranno le autorità? Se
lo chiedono ogni volta che occupano le strade, hanno paura ma anche coraggio.
Lo scorso 8 aprile diecimila persone hanno marciato a Peshawar, nel Nord del
Paese. Il capo delle forze armate, il generale Qamar Javed Bajwa, ha già
dichiarato che «queste proteste pianificate minacciano gli sforzi
dell’antiterrorismo nazionale militare degli ultimi anni».
I Pashtun
costituiscono il 15 per cento della popolazione del Pakistan, 204 milioni di
persone. «Migliaia di giovani Pashtun sono scomparsi nell’ultimo decennio,
prelevati dalle loro case, dalle università, dalle strade» dice un attivista
del Movimento Farhad Ali. Eppure nessuno lo dice, lo scrive, lo ribadisce.
Nessun
titolo dei giornali del Paese è dedicato al Ptm, nessun reporter locale è
presente alle loro manifestazioni, scriverne vuol dire «varcare la red line per
la sicurezza dell’establishment del Paese», scrive il New York Times. «In buona
parte si tratta di auto-censura, non puoi chiedere a singoli individui, singoli
giornalisti di diventare martiri della libertà di espressione» ha detto Saroop
Ijaz, rappresentante Human Rights Watch. Censure, minacce, violenza. Ma, dice Pashteen,
per i nostri diritti «non c’è altra opzione, dobbiamo continuare, è l’ultima
nostra possibile opzione».