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I veri obiettivi della guerra dei dazi tra Cina e Stati Uniti

Gabriele
Battaglia, Internazionale, 6 aprile 2018

Qualche
giorno fa un diplomatico lussemburghese che si è sempre occupato di sicurezza
alimentare e ambiente mi ha detto che se la Cina volesse imporre un prezzo
fisso sulla soia statunitense, per garantirsi l’approvvigionamento di quello
che da queste parti è un bene primario, si rivolgerebbe al Brasile e
all’Argentina. Dato l’enorme fabbisogno, si può ipotizzare che i due paesi
latinoamericani comincerebbero una gara per soddisfare la domanda cinese dalle
conseguenze disastrose per l’ambiente. 
Donald
Trump e Xi Jinping a Pechino, in Cina, novembre 2017. (Damir Sagolj,
Reuters/Contrasto)
Un ragionamento
che dà la misura di come un’eventuale guerra commerciale tra Pechino e
Washington non riguarderebbe solo le due superpotenze.
Dopo aver
annunciato che avrebbe reso pan per focaccia a Donald Trump e ai nuovi 50
miliardi di dazi all’anno (a quanto pare la Casa Bianca starebbe preparando un nuovo
pacchetto di dazi per 100 miliardi di dollari
), la Cina è passata
alle vie di fatto imponendo tariffe dello stesso valore totale su 106 prodotti
statunitensi, tra cui semi di soia.
Punire
Trump

In Cina se ne sta parlando molto, perché la soia qui è centrale per
l’alimentazione: non solo per quella della popolazione, ma anche per quella del
bestiame. Se la Cina pensa di poter fare a meno delle importazioni statunitensi
di questo alimento, evidentemente non è tanto perché può procurarsela altrove,
ma perché il fine politico che c’è dietro la sua scelta la rende comunque
vantaggiosa.
Otto dei
nove stati americani che producono soia sono una roccaforte elettorale di
Donald Trump e hanno scambi commerciali con la Cina per un valore di 14
miliardi all’anno. I dazi cinesi mirano chiaramente a colpire l’agricoltura
statunitense: oltre alla soia, interessano anche tabacco, grano e mais. Sono
tariffe che “puniscono” Trump e i suoi elettori.
Questo
spiega il vantaggio che la leadership cinese ha rispetto all’amministrazione
statunitense: Trump dipende dal voto, Xi Jinping no. Non che il Partito
comunista cinese (Pcc) non badi al consenso, anzi, è sempre più ossessionato
dal modo in cui assicurarselo. È proprio la necessità di garantirsi il consenso
che sta dietro lo xiaokang, un soddisfacente livello di benessere diffuso.
In questa
visione del consenso in cambio di beni materiali concorrono sia la particolare
concezione del marxismo recepita e poi rielaborata dal Pcc, di fatto uno
“sviluppismo”; sia la consapevolezza che nella storia cinese le dinastie sono
cadute quasi sempre in concomitanza e a causa di disastri naturali, che hanno
privato la popolazione dei mezzi di sostentamento: carestie, inondazioni.
Ma in
Cina il consenso può essere costruito con tempi più lunghi rispetto alle
scadenze elettorali delle democrazie occidentali. I cinesi hanno già colto il
messaggio che arriva dall’alto: Xi Jinping rimarrà al potere anche dopo il
2022, tiriamo avanti anche se aumenteranno un po’ il prezzo della soia o della
carne di maiale.
La
trappola del reddito medio

Secondo un articolo del
Guardian
con le tariffe anticinesi l’amministrazione Trump vuole
attaccare il progetto “Made in China 2025”, con cui Pechino cerca di evitare la
“trappola del reddito medio” puntando sullo sviluppo tecnologico. Questa “trappola”
si verifica quando un’economia non è più così povera da garantire forza lavoro
a basso costo – e quindi da essere “fabbrica del mondo” – e al tempo stesso non
è abbastanza evoluta da competere nel campo delle merci ad alto valore
aggiunto, al punto più alto dello sviluppo capitalistico. La Cina si troverebbe
lì.
Per
questo la leadership cinese sta disegnando politiche specifiche che consistono
nel creare un ambiente favorevole all’innovazione. Vicino a me abita un
cosiddetto “cinese di ritorno”, metà cinese metà americano. È tornato in Cina
per lanciare la sua startup d’intelligenza artificiale, approfittando dei
finanziamenti e delle agevolazioni offerte dal governo.
Oltre
all’investimento nelle startup, il progetto “Made in China 2025” prevede anche
sia l’acquisto di imprese straniere all’avanguardia, sia la protezione dei
propri “campioni” domestici, con quote di mercato riservate. Con le nuove
tariffe Trump cerca quindi di tarpare le ali a Pechino colpendo soprattutto le
imprese cinesi dell’high-tech. E Pechino contrattacca minando la sua base
elettorale di redneck e ribaltando il mercato globale della soia. Ma tutto
questo, a Pechino, piace pochissimo.