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Femminicidio di Sana Cheema: la storia di K., che temeva di fare la sua stessa fine

Cristina
Obber, Lettera Donna, 23 aprile 2018

«Dentro
casa ci dicono di non fare troppo l’italiana. Fuori ci chiamano straniera. Chi
siamo noi?». L’appello di chi si è salvata da un matrimonio combinato.

Sana
Cheema, 25 anni, di origine pakistana e residente da anni a Brescia, è morta in Pakistan.
Non è chiaro se sia morta di infarto o se sia stata uccisa dai familiari, come
si è letto inizialmente. Gli amici temono si tratti di femminicidio perchè Sana
voleva tornare in Italia per sposare il fidanzato italiano contro la volontà
dei suoi genitori.



Questa
vicenda di cui attendiamo approfondimenti, ha fatto riparlare del caso di Hina
Saleem, la 19enne uccisa nel 2006 dal padre e sepolta in giardino per essersi
sottratta alla volontà patriarcale, per aver scelto di seguire il suo desiderio
di maggiore libertà. Hina è morta di femminicidio, come Nina, la protagonista
del film Racconti da Stoccolma, come tante ragazze che non vogliono sentirsi proprietà
dei propri padri e fratelli maschi.
Scampata
da un matrimonio combinato
Come
temeva le accadesse K., 25 anni come Sana, cresciuta in Emilia Romagna e oggi
all’estero in una struttura che aiuta tante ragazze a ricominciare a vivere, a
costruirsi un futuro fatto di studio e lavoro.
Per lei la fine delle Superiori avrebbe coinciso con un matrimonio combinato,
in Italia, all’interno della sua comunità. Il suo rifiuto, espresso chiaramente
ai genitori, aveva reso un inferno la sua quotidianità. Nessuna violenza fisica
ma il divieto di uscire anche di pomeriggio, la segregazione in una stanza dove
mangiava in solitudine, la minaccia di non mandarla più a scuola,
l’impossibilità di rivolgere la parola al fratellino di sette anni. K. era
cresciuta sottomessa ai genitori, non aveva l’autonomia delle sue coetanee,
temeva che se anche fosse andata all’estero, essendo da poco maggiorenne, i
suoi l’avrebbero ritrovata grazie all’aiuto della comunità di appartenenza che
contro le ragazze ribelli è molto unita in tutta Europa.
K. non sapeva a chi rivolgersi, perchè nè a scuola nè presso i servizi sociali
nè dai carabinieri aveva trovato il supporto che cercava.
Siccome K. non veniva picchiata la risposta era che non avrebbero potuto
intervenire; È la vostra cultura, le dicevano, non possiamo farci niente.
Nemmeno le sue compagne di scuola sapevano quanta paura avesse per quel futuro
tracciato da altri.
Chiedere
aiuto ti salva la vita
L’integrazione
non è fare spazio a un banco tra le file, l’integrazione è relazionarsi, ma K.
si vergognava delle tradizioni così arcaiche della sua famiglia, si vergognava
della sua stessa paura e non osava confidarsi. Di queste tematiche a scuola non
si parlava.
K. sorrideva molto e parlava poco, studiava perchè le piaceva, rassegnata
all’idea che non le sarebbe servito a niente.
Fino a che non aveva assistito ad una mia formazione sulla violenza di genere
nell’istituto tecnico che frequentava, e dopo alcuni mesi mi aveva contattato.
Quello che aiuta ad uscire dalla violenza è non sentirsi sole e sapere che puoi
chiedere aiuto.
Non sono una psicologa, nè un’avvocata, nè una poliziotta: ho fatto quello che
bisogna fare quando si intercettano situazioni di violenza: cercare un centro
antiviolenza nel territorio e accompagnarvi (o almeno indirizzarvi) la persona
interessata. Così ho fatto, e K. ha trovato persone competenti che non solo
l’hanno ascoltata ma sono state in grado di valutare i rischi che correva, e saper
valutare i rischi salva la vita delle persone. Chi è in pericolo non ha bisogno
di buoni consigli ma di persone che sappiano come agire per tutelarne i
diritti, primo fra tutti il diritto alla vita.
Oggi K.
ha una vita sua, e nonostante le manchi il fratello, le manchino le amiche e
l’Italia, è una buona vita. Se non avesse chiesto aiuto oggi forse sarebbe già
sposata con un uomo non scelto, avrebbe un figlio non desiderato, si
prenderebbe cura di una casa che di fatto sarebbe la sua prigione. O peggio,
sarebbe morta. Perchè tra le minacce dei suoi genitori c’era quella di portarla
nel Paese d’origine, e lei mi diceva che di lì non sarebbe più tornata in
Italia se non da morta.
Prima di lasciare l’Italia K. è andata sulla tomba di Hina Salem.
Un gesto simbolico importante, una sorellanza espressa condividendo quel
desiderio che Hina non ha potuto realizzare.
L’appello
di K. al governo italiano
Dopo la
notizia della morte di Sana Cheema , K. mi ha scritto una lettera di cui voglio
condividere la parte in cui rivolge un appello al governo italiano:
«Sana non
è solo vittima di un sistema patriarcale ma anche il fallimento
dell’integrazione e della democrazia. Assumetevi la responsabilità di tutelare
la vita delle persone, anche di noi italiane di seconda generazione perché
l’Italia è anche la nostra patria. Non diteci di tornare nostro Paese perché il
mio/nostro Paese è l’Italia.
É qui che siamo nate e cresciute e qui vogliamo essere seppellite. Non siamo
cittadine di seconda classe. E non diteci che è la nostra cultura perchè questa
non è cultura ma violenza e la ritroviamo in tante religioni e culture diverse.
Per far sì che diversi popoli riescano a vivere in pace ed armonia sotto uno
stesso tetto, il governo dovrebbe usare nuove misure di integrazione e dare
segnali chiari e diretti a tutti i padri padroni integralisti, obbligarli a
rispettare le regole. Come ti dò la libertà di professare la tua religione o di
vestirti secondo i tuoi usi e costumi così ugualmente dò a tua moglie, a tua
sorella, a tua figlia la libertà e il diritto di scegliere come vestirsi, a
quale religione appartenere, chi sposare, se portare o meno il velo.
Non dovrebbero essere le vittime ad avere paura di denunciare, dovrebbero
essere i padri padroni ad avere paura dello Stato.
Dite a noi ragazze che l’Italia sta dalla nostra parte, diteci che non siamo
figlie di nessuno, ma figlie di questa terra, della vostra amata Italia che
anche noi amiamo e in cui ci piace respirare libertà. Date a noi ragazze la
possibilità di essere ascoltate e capite (nelle scuole, in centri d’ascolto), e
non lasciateci ‘sparire’ dai banchi di scuola nei famosi viaggi estivi per
conoscere il paese d’ origine.
Per noi generazioni di transito è una fatica immensa conciliare i due mondi (l’Oriente
e l’Occidente), spesso ci sentiamo intrappolati e senza identità. Dentro casa i
nostri familiari ci dicono di non fare troppo l’italiana. Fuori casa ci
chiamano straniera. Chi siamo noi? Dateci una risposta».
Che fare?
Sono
tante le ragazze in tutta Europa che ogni anno a settembre non fanno ritorno
tra i banchi di scuola perchè vengono portate nei loro Paesi di origine con la
scusa di una vacanza e invece ad attenderle ci sono matrimoni combinati.
Nel libro Errore.
Riferimento a collegamento ipertestuale non valido.
ho raccontato la
storia di Amani El Nasif, che ha vissuto questa esperienza a 16 anni e per la
quale non accettare di sposarsi ha significato botte e umiliazioni per 13
lunghissimi mesi, fino a che grazie all’aiuto di uno zio di Aleppo è riuscita a
tornare in Italia.
Mentre K. sapeva cosa l’avrebbe attesa all’estero, Amani non sospettava nulla
quando è partita, nessuno a casa le aveva mai fatto presagire di voler limitare
a tal punto la sua libertà.
Così partono tante adolescenti, contente di una piccola vacanza per ritrovare
una parte di sè.
Amani è una sopravvissuta, di tante coetanee rimaste all’estero non si hanno
più notizie.
E anche laddove non ci sia la coercizione nel Paese di origine, per molte
immigrate e immigrati di seconda generazione, arrivati in Italia molto piccoli
o nati qui, sono ancora i genitori a scegliere chi sposare e quando.
Un fenomeno che viene contrastato soltanto da centri antiviolenza e
associazioni mentre l’attività di prevenzione dovrebbe invece fare parte di una
azione strutturale mirata a partire dal mondo della scuola, dove di tutte le
forme di femminicidio si parla ancora troppo poco e dove manca una formazione
specifica per gli insegnanti e gli psicologi addetti agli sportelli di ascolto.