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Femminicidi e violenze contro le donne: i numeri e le prospettive

Di Maria
Concetta Tringali, MicroMega, 22 marzo 2018

Poco
prima della fine della legislatura la Commissione parlamentare di inchiesta sul
femminicidio e la violenza di genere è riuscita a presentare la sua Relazione
finale. Dalla quale emerge l’imponenza del fenomeno – che riguarda anche i
minori – e l’inadeguatezza delle forme di prevenzione e contrasto.





È il 18
gennaio del 2017 quando il Senato delibera l’istituzione di una Commissione
parlamentare di inchiesta avente a oggetto il femminicidio e ogni forma di
violenza di genere.


Di
femminicidio in Italia muore una donna ogni due giorni. La decisione di
istituire una Commissione d’inchiesta segue i dati dell’Organizzazione mondiale
della sanità. L’OMS già con riferimento al 2002 individuava nell’omicidio da
parte di persone conosciute, in particolar partner ed ex partner, la prima
causa di uccisione nel mondo delle donne tra i 16 e i 44 anni. Con quello del
2013
(141 ricerche effettuate in 81 Paesi) definiva in conclusione
la violenza contro le donne come questione strutturale globale.


Se il 35
per cento delle donne subisce o ha subito nel corso nella vita qualche forma di
violenza, non siamo di fronte a un’emergenza, ma un problema strutturale.
Questa certezza, finalmente acquisita, chiarisce tutta l’inefficienza di un
sistema che adotti, nell’azione di contrasto, solo politiche frammentarie e
disorganiche.



A
distanza di poco più di un anno dalla sua costituzione, la Commissione, guidata
dalla senatrice PD Francesca Puglisi, rende pubblica la Relazione
finale
. Il documento si compone di quattrocentodieci pagine.
All’interno, mesi di audizioni di soggetti privati e pubblici, a vario titolo
interessati e coinvolti.


Non si
legge tuttavia nel report solo di violenza diretta contro le donne. Quello è il
focus, sicuramente. Ma un altro dato preme, e con prepotenza, per uscire da
quelle pagine.



Se c’è
infatti un profilo che ci dà la misura di quanto insufficiente sia la nostra
legislazione e di quanto enormemente inefficace sia, alle volte, il sistema di
tutele è quello legato agli strumenti di protezione dei minori.


La
Commissione si sofferma su quello che è noto come caso Talpis. Il fatto di
cronaca risale al 2013 e ci riporta a un figlicidio, accaduto in provincia di
Udine. È una di quelle storie che mai si vorrebbero leggere né raccontare.
Parla dell’accoltellamento di un diciannovenne, figlio adottivo, per mano del
padre. Il ragazzo veniva ucciso mentre cercava di difendere la madre dalle
percosse ripetute e violentissime del marito.


Quello
che i senatori referenti definiscono “un’inaccettabile discrasia fra codici
parimenti vigenti” è davvero una piega oscura del nostro sistema penale, dove
non c’è diritto né può trovarsi giustizia.I termini della questione riguardano
da una parte il codice civile, per cui i figli adottivi sono parificati ai
figli biologici (in base al diritto di famiglia e alla riforma del 2013) e
dall’altra parte la legge penale. Il codice Rocco che risale al 1930 mantiene,
per contro, sul punto un anacronistico e incomprensibile riferimento ai
rapporti di sangue. Nella sostanza è la sola consanguineità a riconoscere e
qualificare il figlio come “vero”, in quanto “naturale”. Questo per l’art. 577,
comma secondo, del codice. La disposizione nega di fatto la parità tra i
discendenti.


Se in
linea di principio la norma è tra le più odiose, nell’applicazione pratica
manifesta tutta la sua inadeguatezza. Essa infatti permette l’annullamento
della condanna all’ergastolo che era stata dapprima inflitta all’uomo, accusato
di avere ucciso il figlio adottivo. E ciò poiché la Cassazione si pronuncia per
l’impossibilità di applicare alla fattispecie l’aggravante della
consanguineità: in altre parole, l’ergastolo gli sarebbe spettato se avesse
ucciso il figlio naturale, massacrare il proprio figlio adottivo è, per il
sistema penale, reato meno grave.


La
Commissione mette nero su bianco la falla e suggerisce modifiche urgenti.



Se è vero
che la recente produzione legislativa in tema di femminicidio ha previsto un
aumento fino a un terzo della pena nel caso che i figli assistano a episodi di
violenza domestica, se è vero che nel gennaio 2018 è stata promulgata una legge
che prevede la tutela di minori, rimasti orfani per crimini domestici,
tuttavia, non possiamo ancora dirci soddisfatti.


La
violenza di genere è fenomeno diffuso in Italia e nel mondo. Che negli ultimi
anni esso abbia raggiunto dimensioni enormi è considerazione che facciamo
spesso. Ci domandiamo se ci sono campanelli d’allarme dai quali cogliere il
pericolo. Ebbene, è la stessa Convenzione
di Istanbul
(fonte internazionale che per prima definisce la
violenza di genere nei termini di una violazione dei diritti umani, recepita in
Italia nel giugno del 2013) che impone agli Stati un’attenzione di questo tipo.
Così, i lavori della Commissione indugiano sull’input e prendono in esame i
principali sistemi di valutazione e prevenzione del rischio, anche di recidiva.
Pongono in osservazione i due metodi principali in uso in Italia.



Il primo,
è il cosiddetto modello SARA che ruota attorno alla verifica della sussistenza
di 15 fattori di rischio e che è definito dal report uno strumento di
prevenzione oltre che prognostico; il secondo, modello ISA, si caratterizza
nella forma del questionario di autovalutazione.


Qui si
sottolinea come occorra un passaggio ulteriore che faccia della partecipazione
delle donne una marcia in più, affinché si chiariscano i meccanismi che poi
portano alle violenze conclamate.


E i
numeri? Ci chiediamo.


Già l’Inchiesta sul
femminicidio
voluta dal Ministero della Giustizia nel 2016 ci
consegnava circa 600 casi registrati, negli ultimi quattro anni. Il documento
elaborato dalla Commissione presso il Senato si propone ora di misurare la
violenza anche in termini di costo economico. E ciò senza prescindere dal ruolo
centrale che essa stessa riconosce all’indagine dell’Istat sulla sicurezza
delle donne.


Pare che
in generale i dati raccontino di una sottrazione. Un minimo ridimensionamento
del fenomeno che tuttavia non intacca lo zoccolo duro, gli stupri e i femminicidi,
quando anche sono solo tentati. Nelle stime 2006 – 2014, infatti, alcuni
segnali indicano una complessiva riduzione di tutte le forme di violenza subite
e una maggiore propensione alla denuncia. Da ultimo a denunciare con maggiore
frequenza risultano le donne straniere, forse perché prive di una seppur minima
rete amicale o familiare a cui rivolgersi nel momento del bisogno.



La
distribuzione territoriale continua ad apparire trasversale, coprendo l’intero
Paese. Ci sono percentuali più alte, in termini assoluti, in regioni quali la
Lombardia, l’Emilia-Romagna e la Campania.



Il
documento registra che la violenza domestica ha un peso economico stimato per
difetto nel 2013 in 16.719.540.330 euro. A fronte, la spesa per interventi di
prevenzione e contrasto è pari a soli 6.323.028 euro.



E poi ci
sono i magistrati. La Commissione ha il pregio di provare a raccogliere, con un
questionario, ed elaborare una serie di dati aggregati dalle Procure della
Repubblica presso i nostri Tribunali e Corti di appello. L’autorità giudiziaria
interpellata, dunque, risponde su numeri e prospettive. Tenta di chiarirci
l’iter della giustizia.



E
«risulta che il 93 per cento dei procedimenti sia giunto alla sentenza
irrevocabile entro i 4 anni dall’iscrizione in procura; tra questi il 68,44 per
cento vi giunge entro 3 anni dall’iscrizione. La classe oltre 4 anni è quella
meno frequente, ma anche verosimilmente quella più sottodimensionata, perché al
momento della rilevazione non poteva comprendere i procedimenti con iter più
lungo».



I tempi
della giustizia, insomma, non vanno ancora bene. Nemmeno quanto alle misure
cautelari concesse e dunque agli interventi dettati dall’urgenza. Fra quelle
espressamente censite, a rimanere la più frequente è la custodia cautelare in
carcere. Quella pesa il 28,6 per cento. Seguono l’allontanamento dalla casa
familiare (17,9 per cento) e gli arresti domiciliari (17,21 per cento).



Il dato è
purtroppo parziale. Non tutto è censibile. Ad esempio i quesiti relativi alle
Procure che miravano a ricostruire le iscrizioni dei procedimenti per tipologie
di reato e la storia processuale, hanno rilevato come ci si debba arrestare
davanti a due periodi non omogenei: dal 2011 al 2012 e dal 2013 al 2016. E così
il confronto fra gli anni a cavallo del 2013, antecedenti e successivi al
cosiddetto «decreto femminicidio», è risultato impossibile.



Nei
circondari complessivamente considerati, sappiamo però che sono aumentate le
iscrizioni di reato. Questo è un dato. Sono cresciute del 40,9 per cento le
iscrizioni per maltrattamenti; del 20,74 per cento quelle per stalking e del
75,95 per cento quelle invece per le percosse e lesioni aggravate.



Vengono
fuori numeri e carenze, inevitabilmente, che trasformare in proposte di riforma
è d’obbligo.


«Da questa
Relazione che siamo riusciti ad approvare all’unanimità prima della fine della
legislatura – ci dice la senatrice Puglisi – emergono luci e ombre. Permangono
soprattutto delle diversità di approccio e di lavoro tra i vari distretti
operativi del nostro Paese. Grandi differenze ci sono sulla presenza di pool di
magistrati specializzati e sull’adozione di protocolli di rete che sono
efficaci nel contrasto ai fenomeni di violenza contro le donne. Ci sono
distretti nei quali la presenza di personale specializzato è piuttosto diffusa,
come in quelli di Bologna, Roma, Milano, Firenze e Torino. Ce ne sono altri
dove, invece, è quasi del tutto assente, come a Bari, Lecce, L’Aquila,
Trieste».



Da oggi
la violenza domestica è insomma documentata. Trova spazio in un contesto
istituzionale tutto ciò che gli addetti ai lavori e le operatrici dei centri
antiviolenza ripetono da tempo: siamo dinanzi a un fenomeno che colpisce le
donne in maniera specifica nell’ambito familiare.



Vi si
ritrovano anche le motivazioni di questi crimini. I reati contro le donne
poggiano su una cultura discriminatoria, definita patriarcale, e che attraversa
tutti i Paesi del mondo. Si conta che la Commissione abbia svolto 38 sedute in
sede plenaria, mentre l’Ufficio di Presidenza, integrato dai rappresentanti dei
gruppi, si sia riunito 10 volte. Complessivamente le audizioni hanno coinvolto
67 persone. Significativo che la prima sia stata riservata a Lucia Annibali.
Avvocata del Foro di Urbino e oggi anche Cavaliere al merito della Repubblica
per nomina conferitale l’8 marzo di quattro anni fa dal Presidente Giorgio
Napolitano. Il suo nome inevitabilmente evoca la battaglia contro la violenza
sulle donne. E ciò perché nell’aggressione con l’acido subita per mano di due
sicari, su mandato dell’ex fidanzato Luca Varani, oggi condannato in via
definitiva a venti anni di reclusione per stalking e tentato omicidio, Lucia è
rimasta gravemente ferita. L’attacco era chiaramente rivolto alla sua identità,
era quella che si voleva annientare. Il gesto non era finalizzato a colpire
unicamente il suo volto. Oltre diciassette interventi chirurgici le sono stati
necessari per una ricostruzione capillare. Tanto dolore, ma in lei anche la
forza di ripartire da quell’esperienza e di farne motivo di solidarietà e
impegno civile.



Dal
racconto dell’avvocata Annibali e da quello di altre vittime, la Commissione è
passata all’esame del quadro normativo, ha scandagliato le misure introdotte
nel 2013 in termini di efficacia e si è posta il problema della destinazione
delle risorse, finendo poi per approfondire l’aspetto tante volte taciuto della
comunicazione tra istituzioni coinvolte e associazioni attive sul campo.



Sono
state sentite Telefono Rosa, DIRE, Casa delle donne per non subire violenza
Onlus e l’UDI, tra le altre.


Tre dati
di novità sembrano emergere dal documento finale. Del primo abbiamo detto in
apertura. Il focus si è allargato, spostandosi come segnalato dalla donna al
minore, eventualmente presente nel contesto della relazione in crisi. E lo
sguardo è ritornato sui nostri bambini, ponendosi prepotente sul tavolo il tema
della violenza assistita. L’espressione viene dall’inglese, “witnessing
violence, e indica quegli atti di violenza fisica, psicologica, sessuale ed
economica che vengono compiuti su figure affettive di riferimento, di cui il
bambino può fare esperienza e di cui può patire successivamente gli effetti.
Ciò è in linea con la costruzione elaborata dai giudici che da tempo
definiscono la violenza assistita, riconoscendo abuso o maltrattamento del
minore in tutte quelle situazioni di violenza “indiretta” che si
verificano quando il bambino assiste a scene di violenza poste in essere da un
genitore a danno dell’altro.



Le
audizioni sul punto hanno coinvolto la presidente del Coordinamento italiano
servizi maltrattamento all’infanzia (CISMAI), quella dell’Autorità Garante per
l’infanzia e l’adolescenza, Penelope, associazione che si occupa di scomparse,
e non ultimo Telefono Azzurro che ha reso possibile una riflessione sui più
efficaci metodi di ascolto dei minori.



Sono
stati sentiti inoltre gli operatori del diritto. In rappresentanza di questi,
interpellati l’Associazione italiana degli Avvocati per la famiglia e i minori
(AIAF), l’Unione nazionale Camere minorili (UNCM) e l’avvocata Maria Giovanna
Ruo, Presidente di CAMMINO – Camera nazionale avvocati per la persona, le
relazioni familiari ed i minorenni.



Le sigle
sindacali maggiormente rappresentative, le forze dell’ordine e l’ANCI, così
anche le Regioni, hanno completato il pezzo mancante del quadro. E ciò in
particolare con riferimento alla questione delle risorse, sulla eccezione che
non sia risultato ben chiaro quale destinazione le stesse abbiano avuto sinora
per mano degli enti locali preposti e sulla necessità di adottare validi standard
di trasparenza.


L’assenza
di linee guida sul trattamento della violenza e di vademecum ad hoc, compare
nel report quale causa primaria della vigenza contemporanea, per esempio, di
venti leggi regionali diverse sul tema, non tutte sempre in linea tra di loro e
con la Convenzione di Istanbul. Fin qui, punti di criticità, insomma,
moltissimi.


Un
secondo elemento di novità è invece di tipo propositivo e riguarda intanto la
necessità di coordinare formazione scolastica e degli operatori, ma anche di
correggere il registro e l’ottica usata dai media, inclusi i social, per
raccontare il fenomeno. E poi il capo dedicato agli strumenti non ancora in
utilizzo nel nostro Paese. Così, in particolare, l’idea di mutuare dal Regno
Unito l’esperienza della domestic homicide review che per brevità si definisce
DHR e che è traducibile in italiano con «esame retrospettivo di un omicidio
domestico».



Si tratta
di una indagine post-mortem che nei paesi anglosassoni viene applicata a casi
di femminicidio, procedura divenuta obbligatoria dal 2004.


Sulla
definizione di DHR leggiamo che essa è «l’indagine relativa alle circostanze
che hanno determinato la morte di una persona avente 16 o più anni, a seguito
di violenza, abuso o negligenza, causata da: (a) una persona con la quale era o
era stata legata da una relazione intima, o (b) un membro del suo stesso ambito
familiare». Lo scopo è chiaro. «La DHR – si legge nel documento della
Commissione – deve essere attuata nella prospettiva di trarre lezioni dalla
morte della persona uccisa».



Ma è
cristallizzato un altro punto importante. Il documento tenta di adattare la
procedura anglosassone al nostro sistema, auspicando un terreno di indagine
accurato che si centri sulla vittima, le sue relazioni affettive e amicali,
quelle familiari, ma anche sul colpevole, sulla sua biografia, per appurare che
nessuna falla ci sia stata, oppure per individuare in quale punto della rete di
protezione della donna essa si nasconda. Mentre la Commissione fa un’operazione
di questo tipo, analizzando venti sentenze rese dai nostri tribunali penali a
seguito di altrettanti femminicidi, viene fuori come in trasparenza un nodo.



La
Relazione dà atto di una svolta: il rifiuto del «raptus di follia» come motivo
estemporaneo a causare l’omicidio. La Commissione richiama la Cassazione
recente, per dire con forza che il reo va punito, che non ci sono appigli né
spazi per esimenti o scriminanti, che non c’è incapacità ma premeditazione e
preparazione. Le donne muoiono perché i carnefici vogliono che sia così.


«La
totalità delle sentenze (con l’eccezione forse di una) indica che gli omicidi
sono il frutto di pregresse violenze, minacce, pedinamenti, ovvero di un
accumulo di rabbia e di frustrazione nel tempo, tale da determinare
l’irrevocabile decisione di uccidere, senza nessun ripensamento o volontà di
recedere dal proposito».


Il report
dà inoltre conto di un mutamento nella lettura di questi fatti criminosi che si
deve alla mobilitazione popolare, alle donne scese in piazza, al coraggio delle
vittime e dei familiari di quelle uccise che, insieme, nel corso di questi anni
hanno contribuito a una inversione storica della prospettiva. Il lavoro di
formazione, prevenzione e sensibilizzazione svolto dai circa 160 centri
antiviolenza, mappati da La Casa delle donne per non subire violenza, Onlus nel
nostro Paese, sulla scorta della Convenzione di Istanbul pare cominci a dare i
suoi frutti.


Il terzo
elemento di novità sviluppato dalla Commissione è legato alla necessità di
trattare l’autore delle violenze. Dai dati raccolti e dalle audizioni pare che
nei Paesi in cui sono previsti percorsi obbligatori di recupero degli uomini
maltrattanti, nella forma per esempio propedeutica alla possibilità di fare
accesso a misure alternative alla detenzione, i femminicidi siano diminuiti. E
ciò anche sulla scorta di precedenti esperienze carcerarie di trattamento,
quale quello praticato ai sex offenders che ha interessato i reclusi di
Bollate, per la prima volta in Italia. Si è dunque auspicato di percorsi, anche
successivi all’esecuzione della pena, e di centri per uomini maltrattanti, pure
in linea con la funzione rieducativa della sanzione penale.


La
Relazione che aveva aperto annotando la dimensione del fenomeno, chiude con
l’individuazione di alcune aree destinate a una sicura riforma. In particolare
l’ambito delle misure cautelari, ritenute finalmente insufficienti nella loro
durata.



Tre mesi,
in una situazione di violenza domestica o atti persecutori, non è un tempo
congruo entro il quale confinare la custodia in carcere o gli arresti
domiciliari del maltrattante. Questo tema implica una rivisitazione dei
parametri di valutazione del rischio che andrebbero rivisti in un’ottica di
maggiore omogeneità. 


Anche da
un punto di vista strettamente connesso all’attività giudiziaria emergono
critiche importanti. Il giudice civile non riesce a stabilire con quello
penale, nella maggior parte dei casi, il necessario livello di condivisione dei
dati. Ed è già gravissimo così. Ma la Commissione dice di più e arriva a parlare
di «sostanziale disinteresse nel contesto civile rispetto a quanto denunciato e
riscontrato in sede penale quale prassi piuttosto diffusa, come se gli agiti
violenti del genitore maltrattante e/o persecutore fossero elementi
trascurabili nella valutazione della capacità genitoriale».



È questa
una circostanza di cui tante donne fanno diretta esperienza nelle aule di
tribunale e con loro gli avvocati che le assistono, nei procedimenti per
l’affidamento dei figli minori. Ma non è la sola discrepanza. Manca per esempio
nell’ambito del processo civile quella deroga che in sede penale ammette il
ricorso al gratuito patrocinio a prescindere dai limiti di reddito previsti
dalla norma, nei casi di violenza domestica. Sarebbe opportuno, in ottica di
riforma, operare un’estensione anche in questo contesto. L’intento dovrebbe
essere quello di giungere ad una armonizzazione dei sistemi di tutela e
dell’accesso a questi ultimi.


La
Relazione suggerisce allora al sistema di contrastare la svalutazione della
vittima, stortura diffusa in talune prassi giudiziarie, assicurandole per
contro il doveroso rispetto. E apre all’idea di uno statuto per la vittima di
reato.


Sui
luoghi delle donne, il report conferma che dal Piano Straordinario in poi manca
qualsiasi riconoscimento delle esperienze storiche significative dei centri
antiviolenza che ne rimangono pertanto depotenziati ed equiparati a qualsiasi
altro soggetto del privato sociale che presti un servizio.


C’è un
ultimo profilo che, del resto, non avrebbe potuto essere tralasciato in un
lavoro di questa mole. La Commissione, con chiarezza estrema, pone un
obiettivo. È quello di rimuovere gli ostacoli al reinserimento della donna
violata, per ricondurla in un contesto di pienezza e serenità.


Sono il
lavoro e la casa, ovviamente, i punti di criticità. L’esperienza racconta che
le donne che sono tornate con l’autore di violenze sono quelle più anziane,
quelle con maggiori probabilità di essere senza un reddito. Autonomia economica
ed abitativa sono allora traguardi, non negoziabili.



Nessun
obiettivo concreto per le donne, altrimenti, potrà mai dirsi raggiunto.