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Da dissidente liberale a leader xenofobo: la parabola di Orban, signore e padrone dell’Ungheria

Michela Iaccarino, LEFT, 9
aprile 2018

Trent’anni
anni fa, era il 1988, in Ungheria, c’era un dissidente liberale dai capelli
lunghi.

Nella sua
lettera per richiedere la borsa di studio alla fondazione del magnate George
Soros, il giovane scrisse che l’Ungheria, dalla dittatura, si sarebbe
trasformata in una democrazia. Che «uno degli elementi principali della
transizione è la rinascita della società civile». Il ragazzo fu premiato,
usufruì dei fondi per andare a seguire i corsi ad Oxford. Lo studente Viktor,
trent’anni dopo, è il premier Orban. L’alfiere dell’“Europa cristiana”, il
signore della “patria bianca” dai confini filospinati, bastione contro l’islam,
il nemico giurato di Soros e delle sue idee considerate “morbide”
sull’immigrazione, è salito sul palco del successo elettorale da confermato
premier d’Ungheria.
Fidesz è
il partito scelto dal 49% degli ungheresi, con 134 seggi su 199 in Parlamento,
ha la maggioranza costituzionale dei due terzi dell’Assemblea nazionale, una
preferenza altissima, come l’affluenza a queste ultime urne, quasi da record:
ha votato il 68,8% degli aventi diritto, l’8% in più di quattro anni fa, ovvero
quasi sei milioni di elettori.
La notte
del conteggio dei voti, per Orban, non è stata lunga. Chi si interrogava sulla
maggioranza a rischio di Fidesz, ha dovuto confrontarsi, fin dalle prime ore
dallo spoglio, con una vittoria schiacciante. Chi sperava che Orban rallentasse
la sua corsa, nel day after deve fare i conti con velocità e successo
raddoppiati.
«Con
risultati come questo c’è bisogno di ricordare il saggio proverbio: sii
modesto, perché ora hai ragione di esserlo, l’Ungheria non è arrivata ancora
dove vuole, ma è in cammino». Sono state le prime parole del premier sul palco,
tra gli applausi. Ha cantato vittoria, non per se stesso, ma per il suo Paese,
per la sua politica e per la tradizione “bianca” e cattolica d’Ungheria, che ha
promesso ancora una volta di difendere. È la terza vittoria consecutiva per
Orban, la quarta in totale.
Sulle
rive del Danubio, Fidesz è riunita alla Casa Bianca ungherese, è un partito
stordito dal successo inatteso. Nella classifica elettorale, dopo Orban, si è
posizionato Gabor Vona, 39 anni, a capo della formazione di estrema destra
Jobbik (Movimento per un’Ungheria migliore). Vona arriva secondo a queste
elezioni che, a suo avviso, avrebbero determinato «il corso del Paese non per i
prossimi quattro anni, ma per almeno due generazioni». Insieme ai migranti,
nemico numero uno dell’Ungheria per Vona è «il governo mafioso di Orban».
Con il
12% delle preferenze, in terza posizione, c’è l’alleanza di socialisti ed
ecologisti di Georgely Karacsony. Ma alle elezioni, insieme ai 23 partiti
d’opposizione, a uscire sconfitta è anche l’Unione europea, che vuole tutelare,
solo a suon di sanzioni, valori e diritti che l’Ungheria viola. La burocrazia
di Bruxelles non ha potuto niente contro la xenofobia muscolare di Orban.
L’ultima parola gliel’ha data il suo popolo, alla fine ha vinto lui, di nuovo.
Qualcuno
è andato in abiti tradizionali in cabina elettorale – i membri
dell’“Associazione per la preservazione degli ussari ungheresi”, per esempio.
Le urne dovevano essere chiuse alle sette di sera, ma lunghe file rimanevano ai
seggi a sfidare le lancette dell’orologio. Poi al primo buio la città ha
cominciato a ballare per strada. La massa plebiscitaria della “democrazia
illiberale” ha scelto e se n’è andata a cantare di notte, tricolore, clacson e
birra, per le strade di Budapest.
Insieme
alla Merkel, Orban è il capo al potere in Europa da più tempo. Gli scandali di
corruzione di amici, parenti e membri del suo partito, esplosi negli ultimi
mesi, non l’hanno indebolito, grazie anche al ribaltamento operato da giornali
e tv di regime, che li hanno dipinti come attacchi alla nazione stessa e al suo
primo ministro. Capitalismo dell’oligarchia a lui compiacente, retorica
xenofoba, dottrina da partito-stato unico: ha reso la nazione il suo monolite.
Ha già cambiato quasi tutto nel suo Paese, dal sistema giudiziario, – ora in
mano al suo governo -, fino a quello economico, che è in mano ai suoi parenti
ed amici. Dal 2010, in cinque anni, con la maggioranza Fidesz in Parlamento,
più di mille leggi sono passate dopo poche ore di dibattito.
Nel 1988
il “dissidente” Orban diceva di odiare il muro che sarebbe caduto un anno dopo;
nel 2018 lo stesso uomo ne ha innalzati di nuovi, blindati, nazionali e
personali. L’Ungheria che doveva trasformarsi in democrazia, come scriveva nei
papers da studente, è diventata la “capsula di petri” d’Europa per l’autocrazia
morbida di cui è autore. Era così già prima delle elezioni, ma lo sarà ancora
di più da domani.