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Bosnia: il grande gelo dei veterani

Alfredo
Sasso, East Journal, 26 aprile 2018

Quelle
tra fine febbraio e inizio marzo sono state le notti più gelide dell’inverno
bosniaco, con temperature tra i -15 e i -20 nelle regioni di Sarajevo e Tuzla.
 
In quelle
stesse notti il termometro sociale ha iniziato a salire, quando i veterani di
guerra hanno occupato diversi luoghi nevralgici della rete stradale del paese,
tra cui lo snodo di Si
čki Brod vicino a Tuzla, vari punti lungo la
Brod-Sarajevo (principale via di comunicazione del paese) e diversi passi di
frontiera con la Croazia. Iniziati il 28 febbraio, i blocchi sono durati
diversi giorni, causando pesanti disagi alla viabilità e qualche scontro con le
forze di polizia.
Dopo
alcune settimane di tregua e mobilitazioni a singhiozzo, la protesta è riemersa
tra il 9 e il 10 aprile con nuovi blocchi stradali, e con ancora più
forza il 17 aprile, quando un corteo di qualche
centinaio di veterani si è radunato davanti al Parlamento della Federazione di
BiH e ha anche cercato di farvi ingresso, prima di essere caricato dalla
polizia antisommossa. “Abbiamo difeso questo paese, ma oggi non abbiamo niente”,
ha commentato un manifestante. Un altro, più bellicoso: “La prossima volta
veniamo con le bombe”. L’escalation di blocchi stradali e presidi è insolita
anche per la categoria sociale probabilmente più protestataria del paese come quella
dei veterani, già protagonisti di importanti mobilitazioni nel 2012, nel 2014, nel 2016 e infine nel giugno dell’anno scorso, quando decine di reduci di guerra
costruirono un’occupazione permanente autonominatasi “Kamp Heroja” (“Campo
degli Eroi”) davanti alla sede del governo della Federazione di BiH, una delle
due entità che compongono il paese.
Dieci
mesi dopo le tende del “Kamp Heroja” sono ancora lì, ormai una parte stabile
del paesaggio urbano sarajevese. E identiche restano le richieste al governo
della Federazione da parte dei veterani che nel 1992-95 hanno combattuto sia
nelle file dell’Armija, l’esercito della Repubblica di Bosnia Erzegovina, che
in quelle dell’HVO, la compagine militare croato-bosniaca (non è coinvolto in
questa protesta il terzo attore militare del conflitto, la VRS, quella
serbo-bosniaca i cui veterani ricevono sussidi dalla Republika Srpska, l’altra
entità del paese). Sono tre le rivendicazioni base della protesta: la creazione
di un registro unico e pubblico degli ex-combattenti, un sussidio minimo di 167
euro al mese e uno stop ai fondi alle associazioni di categoria che, secondo le
ragioni della protesta, sottraggono risorse pubbliche alle reali necessità dei
veterani.
Ognuno di
questi punti illustra bene i paradossi e gli squilibri del sistema pubblico
bosniaco nell’ultimo dopoguerra. A ventidue anni dalla fine del conflitto non
esiste un registro centrale e affidabile dei veterani, che indichi chiaramente
chi ha combattuto per quale unità e per quanto tempo. Questo vuoto
amministrativo avrebbe permesso nel corso degli anni, secondo le accuse dei
veterani, migliaia di iscrizioni abusive e certificazioni di invalidità false o
esagerate. Secondo i dati in possesso del governo della
Federazione, sarebbero circa 577.000 i combattenti registrati (per la
certificazione è sufficiente avere prestato servizio in guerra un giorno solo),
dei quali circa 92.000 hanno ottenuto una prestazione di invalidità nel 2017. È
però una cifra fortemente contestata dai veterani che protestano, secondo cui i
combattenti congedati alla fine del conflitto non erano più di 280.000 e
dunque, come ha detto ironicamente uno di loro, in 22 anni
“non solo nessuno è morto, ma anzi ne sono nati di nuovi”.
Solo
negli ultimi mesi, pressato dalle proteste, il governo della Federazione ha
iniziato a aggiornare e sistematizzare i dati. Il ministro dei Veterani Salko
Bukvarevi
ć ha annunciato di avere depennato circa 6.000
utenti e ridotto le prestazioni di invalidità per circa 7.000. Ma il
completamento del registro durerà a lungo e richiederà una paziente e non
scontata collaborazione degli enti locali. E soprattutto, non soddisfa i
veterani in protesta, che fin da subito richiedevano un registro accessibile al
pubblico per indagare sugli abusi del passato ed evitare nuove manipolazioni.
Il governo della Federazione, invece, prevede di riservare l’accesso alle sole
istituzioni e di evitare misure retroattive per ragioni di privacy e
operatività.
L’altra
richiesta degli ex-combattenti appare, a prima vista, paradossale: il taglio ai
fondi e, nei fatti, una drastica diminuzione delle associazioni di categoria a
cui loro stessi appartenevano o appartengono tuttora. Si tratta di circa 1.600
enti, ovvero 20 per ogni municipalità della Federazione, che sono accusati di
malagestione e spreco di risorse. Le organizzazioni di veterani percepiscono
gran parte dei fondi a livello locale. Secondo dati ufficiali, dei circa 6.15 milioni di
euro che ottengono, solo 185.000 arrivano dalla Federazione. Il grosso è dunque
stanziato dai dieci cantoni che compongono la Federazione, e una parte minore
proviene dalle municipalità. La proliferazione di associazioni è dunque, almeno
in parte, conseguenza della frammentazione istituzionale e della confusione tra
competenze imposte dal sistema di Dayton.
Va
riconosciuto che molte organizzazioni fungono da welfare sostitutivo,
garantendo un sostegno primario per voci quali borse di studio, servizi medici
e spese funerarie. Ci sono però abusi sistemici e una diffusa corruzione che
coinvolge funzionari e partiti politici, soprattutto a livello locale. Molte
associazioni hanno operato da “macchine elettorali”, con una base socialmente
vulnerabile e dunque ancora più ostaggio delle promesse economiche dei partiti
e della demagogia dei leader in cambio di voti.
Un caso
eclatante è emerso proprio la scorsa settimana, quando  un’inchiesta del magazine sarajevese Klix ha
indagato la vicenda di Pravednost (Correttezza), un’organizzazione creata da un
noto politico sarajevese, l’ex-generale dell’esercito Sefer Halilovi
ć. Secondo l’inchiesta, Pravednost ha beneficiato di oltre 600.000 euro
di fondi pubblici, concessi dal ministero dei Veterani del Cantone di Sarajevo
(da molti anni sotto il controllo del partito di Halilovi
ć, il BPS) e invece di programmi sociali li avrebbe destinati, in buona
parte, alle spese legali e di sostentamento di alcuni ex-ufficiali che sono
attualmente imputati per crimini di guerra dalla giustizia bosniaca.
Curiosamente lo stesso Halilovi
ć, personaggio molto popolare tra i
reduci di guerra, aveva personalmente visitato le proteste di fine febbraio e
ne aveva più volte appoggiato le richieste.
I
veterani e la politica
Poiché in
Bosnia Erzegovina vi è già fibrillazione per le elezioni di ottobre, alcuni
hanno insinuato che la mobilitazione degli ex-combattenti sarebbe stata montata
ad arte per poi essere addomesticata con promesse simboliche e qualche piccola
concessione economica. Eppure, anche ora che la tensione torna ad aumentare, il
tema dei veterani è nuovamente sparito dall’agenda del Parlamento della
Federazione, cosa che ha propiziato il corteo e gli incidenti di ieri. I partiti
continuano a mostrare un certo distacco sulla questione. Un motivo cruciale è
che negli ultimi anni si sono fatte sempre più intense le pressioni degli
organi internazionali (su tutti l’FMI) sulle istituzioni
bosniache per contenere i sussidi ai veterani nell’ambito dei tagli alla spesa
pubblica. È soprattutto per queste pressioni che il governo della Federazione,
pur avendo già fatto passi concreti sul registro e sui limiti alle
associazioni, si è mostrato finora inflessibile sull’aumento delle risorse
finanziarie per i veterani, che ammontano a 290 milioni di euro (una parte
consistente del budget totale).
Poi vi è
una questione più prettamente politica. L’SDA, il principale partito della
Federazione e dei musulmani nazionalisti, sta vivendo una profonda crisi di
leadership interna, che di fatto priva i veterani del loro tradizionale
interlocutore e getta incertezza sui rapporti di potere futuri. L’instabilità
si manifesta anche nei media del paese che hanno effettuato una copertura
totalmente dissimile delle proteste dei veterani. Come spiega un’analisi di Balkan Insight, i due canali TV
pubblici di Sarajevo, BHTV e FTV, hanno ignorato di fatto le manifestazioni
anche quando hanno creato caos nelle comunicazioni del paese, mentre le
emittenti transnazionali Al Jazeera Balkans e N1 (affiliato della CNN) hanno
seguito gli eventi con grande attenzione ed edizioni speciali.
Per ora,
il resto della popolazione non pare avere mostrato né appoggi tangibili, né
ostilità verso la causa dei veterani. In Bosnia Erzegovina vi è indubbiamente
un diffuso riconoscimento per lo status sociale di combattente (anche se per lo
più diviso secondo le appartenenze etno-nazionali) e un rispetto per le
enormi sofferenze materiali che i reduci di
guerra patiscono. Vi è sicuramente una certa popolarità per la rivendicazione
di giustizia sociale e la narrazione anti-elitaria di cui i veterani si
presentano portatori, visti come “difensori veri” di patrie e comunità che si
mantengono sulla soglia di sopravvivenza al contrario di un ceto politico
superpagato e ampiamente disprezzato. C’è simpatia per la trasversalità di
appartenenze che ormai da tempo caratterizza le mobilitazioni dei
veterani, togliendo la linea di frattura dal fattore “etnico” e
riposizionandola tra il “basso” di chi reclama insieme i diritti negati e
l’”alto” di chi sfrutta le differenze per proprio privilegio.
Ma si
avvertono anche segnali di insofferenza per la continua mobilitazione dei
veterani, a volte considerata una lobby che difende unicamente gli interessi
corporativi grazie a un rapporto subdolo con la classe politica e con una
retorica revanscista e assistenzialista che ostacolerebbe una transizione verso
il futuro. Talvolta, più semplicemente, i veterani sono percepiti come
“privilegiati” che accedono a certi benefici, come l’accesso preferenziale o
esclusivo ad alcuni impieghi e servizi pubblici (educazione, sanità) nonché a prestazioni
sociali e sussidi d’invalidità maggiori di almeno il 30% rispetto ai cittadini
comuni, per quanto bassi in termini assoluti.
A queste
disparità di trattamento alcuni hanno autonomamente reagito con stratagemmi che
hanno causato, però, nuovi squilibri e fratture sociali. La politologa Jessie
Hronesova, in un suo articolo, ha illustrato come molte
vittime civili della guerra, per aggirare la loro esclusione dalle politiche
riparatorie riservate ai veterani, abbiano fatto certificare se stessi o alcuni
familiari morti come soldati. Dunque è stata anche questa pratica a contribuire
al fenomeno dei “falsi certificati” che ha alimentato un’ondata di sfiducia
verso le istituzioni e tra le stesse categorie sociali. Secondo la
sociologa Oliwia Berdak, la centralità
dell’uomo-cittadino-combattente nel sistema sociale bosniaco avrebbe inoltre
contribuito alla ri-tradizionalizzazione di genere, relegando la donna a un
ruolo dipendente e subordinato.
Proteste
e movimenti
Risulta
ancora più delicato indagare la relazione tra proteste dei veterani e le
proteste sociali più ampie, come quelle per il lavoro e per le politiche urbane, o espressioni
trasversali come i Plenum del 2014. Un’attivista dei
movimenti di Sarajevo che preferisce restare anonima spiega a OBCT: “Un
appoggio organizzato ai veterani di fatto non esiste. C’è chi aderisce alla
protesta, chi supporta moralmente, ma non c’è nulla di politicamente
strutturato. È una questione molto delicata. In un momento in cui le politiche
sociali sono oggetto di riforma è opinione diffusa, soprattutto a sinistra, che
sia problematico basare le prestazioni sociali su un certo status particolare
invece di una solidarietà sociale ampia”.
Secondo
l’attivista, è cruciale l’assenza di ogni riferimento al lavoro: “Quasi non si
parla dei diritti di questo gruppo di persone in quanto lavoratori. Loro sono
stati combattenti durante la guerra, ma prima e dopo di questa erano, e sono,
lavoratori a cui è stato sottratto di fatto il diritto al lavoro, con la
svendita e la distruzione del patrimonio produttivo in Bosnia Erzegovina. Ma i
loro problemi sono immediati e richiedono una soluzione istantanea perché molti
da anni vivono appena sulla soglia di sopravvivenza. E quindi ampliare le basi
della protesta, dando ad essa un senso più ‘politico’, diventa quasi
impossibile”.
Dunque
non ci possono essere rapporti tra le proteste dei veterani e gli altri
movimenti sociali? “I collegamenti tra le proteste sono deboli e rari”,
risponde. “L’intersezione è un’eccezione. Una protesta non riesce a essere una
scintilla per qualcosa di più grande. Ma non solo: una protesta perde forza da
sola perché insiste sull’importanza del gruppo e non cerca legami con il
contesto sociale più ampio. E in un contesto in cui dominano le narrazioni, sia
locali che straniere, sull’eccesso di politiche sociali, sulla spesa degli
aiuti e sulla pigrizia di chi li riceve, tutto ciò è ancora più difficile”.