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Attentati in Mali: così matura la jihad del Sahel

Andrea de
Georgio, ISPI, 24 aprile 2018

La Missione
multidimensionale integrata di stabilizzazione del Mali delle Nazioni Unite
(Minusma) l’ha definito “un attacco senza precedenti”. Quello andato in scena
alle 14, ora locale, di sabato 14 aprile a Timbuctu contro le basi dell’ONU e
di Barkhane, contingente francese nel Sahel, rappresenta un vero e proprio
attestato di maturità per le forze neo-jihadiste attive in Africa occidentale.

Dopo più
di cinque anni dal suo scoppio, il conflitto in Mali continua a peggiorare e si
è inesorabilmente espanso alla regione del Sahel, nuovo fronte prioritario
della guerra al terrorismo globale.
L’azione
contro l’aeroporto di Timbuctu, zona militarizzata che ospita il quartier
generale della Minusma – il cosiddetto “super-camp” – e di Barkhane in città, è
stata complessa e ben organizzata. Dell’attacco durato oltre quattro ore
colpisce la precisa coordinazione di diverse tecniche militari, precedentemente
mai utilizzate insieme: lancio di undici granate di copertura, utilizzo di
almeno due autobombe mascherate da veicoli ONU e FaMa (l’esercito del Mali) per
aprire una breccia nel dispositivo di sicurezza dell’aeroporto, assalto via
terra di una cinquantina d’uomini pesantemente armati (molti indossavano
cinture esplosive e finti caschi blu).
“Agivano
come un esercito”. “Erano determinati a prendere il controllo della base per
arrecare più danni possibili”. “Si battevano con determinazione senza fuggire
lo scontro diretto”. Nei racconti dei militari sopravvissuti si evince un salto
di qualità tecnico-operativa ma anche nell’atteggiamento tattico del commando
rispetto a passati attacchi decisamente più “fai-da-te”. Una
professionalizzazione sottolineata dagli esperti di sicurezza nel Sahel che
hanno analizzato l’attentato di Timbuctu.
Vista la
potenza di fuoco e l’effetto sorpresa, fattore determinante in questo tipo di
operazioni, il bilancio dell’assalto sarebbe potuto essere molto grave. Ma la risposta
dei militari della Minusma e dei francesi – che hanno impiegato quattro aerei
Mirage 2000 decollati dalla base di Niamey, nel vicino Niger, due elicotteri
Tigre e tre Caiman carichi di soldati a rinforzo – ha permesso di contenere,
almeno parzialmente, le perdite: un casco blu burkinabé ucciso e una decina
rimasti feriti (di cui cinque gravemente), sette soldati di Barkhane colpiti
(ed evacuati verso l’ospedale della base di Gao), quindici terroristi uccisi e
una decina di civili maliani, fra cui un bambino di dieci anni, raggiunti da
pallottole vaganti. Persino l’aeroporto cittadino, unico scalo regionale
utilizzato dalle forze internazionali ma anche dalle organizzazioni umanitarie
per il trasporto di aiuti alimentari, materiale medico e scolastico, è stato
seriamente danneggiato, riproponendo la volontà dei gruppi armati di acuire il
senso di abbandono d’intere comunità periferiche per arruolare forze fresche.
Come
un’Idra, la galassia jihadista saheliana non pare soffrire la perdita di alcune
“teste” per mano dei francesi – raid aerei a fine marzo e inizio aprile hanno
eliminato due importanti quadri quali Abou Abdallah Ahmed al-Chinguiti e Haidar
al-Maghribi – cambiando continuamente pelle e strategia. Una pletora di sigle
raggruppate un anno fa sotto il cappello del Gruppo di sostegno all’islam e ai
musulmani (GSIM), formazione guidata dal terrorista maliano Iyad Ag Ghali che
ha già rivendicato molti attacchi fra cui quello di Timbuctu. Un sodalizio di
differenti gruppi armati e mafie del narcotraffico sotto l’egida di Al Qaeda
nel Maghreb Islamico (AQMI), indiscusso padrino del jihadismo africano. Da
registrare anche la recente nascita, nella zona, di formazioni che si rifanno
al cosiddetto Stato Islamico del Grande Sahara, sigla nata nel 2015 che oggi
gode dello spostamento di risorse, uomini e tecniche di guerriglia dai teatri
di Siria e Iraq verso il Sahel, nuovo terreno di conquista dell’espansione
jihadista globale. 
Già prima
di tale attentato la situazione in Mali non era delle migliori. In un rapporto
stilato a inizio aprile l’ONU riporta 63 attacchi terroristi (con 45 soldati
maliani caduti) nei primi tre mesi del 2018. 163 caschi blu rimasti uccisi
dall’estate 2013 attestano la Minusma come missione più pericolosa della storia
delle Nazioni Unite. Inoltre il dialogo fra ribelli indipendentisti tuareg e
governo di Bamako, promosso dagli Accordi di pace firmati ad Algeri nel 2015,
sta attraversando l’ennesima fase di arenamento, precludendo cronicamente la
via negoziale. Ampie zone del paese sfuggono al controllo dell’autorità
centrale che, in vista delle prossime elezioni presidenziali del 29 luglio,
teme un vuoto di potere che potrebbe essere sfruttato dalle forze jihadiste per
seminare il caos. Dal nord del Mali l’azione di questi gruppi si è da tempo
allargata al centro-sud deteriorando le condizioni sociali e umanitarie
d’intere comunità locali. Scuole chiuse per circa 200mila studenti, aumento
degli sfollati interni, crisi economica sempre più profonda. E, come se non
bastasse, si aggiungono gli abusi di potere perpetrati dall’esercito maliano,
accusato da recenti report di Amnesty International e Human Rights Watch di
decine di esecuzioni sommarie a danno dei civili, soprattutto d’etnia peul. Lo
spauracchio dell’etnicizzazione del conflitto viene agitato da milizie
comunitarie vicine al governo (e ai francesi) e nuovi gruppi armati di
autodifesa che intrattengono rapporti pericolosi con la rete narco-jihadista,
complicando non poco un quadro già fosco. 
Negli
ultimi anni il conflitto asimmetrico nato in Mali si è esteso a paesi limitrofi
come Niger – dove, nella regione settentrionale di Tillaberi, confinante col
Mali, un operatore umanitario tedesco è stato rapito l’11 aprile –  e Burkina
Faso – dove, nella capitale Ouagadougou il 2 marzo è stata attaccata, per la
prima volta nella regione, un’ambasciata francese. Alla luce della crescente
regionalizzazione del confronto armato, il dispiegamento della Force G5-Sahel,
dispositivo multinazionale nato nel 2014 su forte pressione della Francia ma
ancora non operativo, diventa sempre più urgente. L’esercito formato da 5mila
soldati dei paesi del G5-Sahel (Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad),
sarà attivo soprattutto nella regione del Liptako Gourma, insidioso spazio
transfrontaliero fra Mali, Burkina Faso e Niger infestato dagli uomini del GSIM
e del nascente Stato Islamico nel Grande Sahara. 
“Non
penso sarà possibile risolvere il problema in Mali in meno di dieci, quindici
anni” ha ammesso a fine febbraio il Generale François Lecointre, capo dello
Stato Maggiore francese davanti a un gruppo di parlamentari che lo incalzava.
Un pantano, quello saheliano, che costa alle casse di Parigi oltre 600 milioni
di euro l’anno e che promette ulteriore distruzione, morte e disperazione a
popolazioni locali sempre più esposte alla radicalizzazione.