General

Hina Matsuri: la festa delle bambole in Giappone

di Giovanna
Pavesi,
Lettera Donna, 03 marzo 2018

È
dedicata alle bambine, ma le condizioni della donna in Giappone sono tutt’altro
che eque.
 
 
Accade
ogni anno. Nel terzo giorno del terzo mese che scorre sul calendario. È il
preludio della primavera, una specie di ode stagionale in cui si accoglie anche
la fioritura del pesco. Il 3 marzo, in Giappone, le bambine espongono una
collezione di bambole antiche. Si chiamano Hina Ningyo e rappresentano 15
personaggi, tra cui l’imperatore e l’imperatrice. Le famiglie, alle proprie figlie,
ne regalano una all’anno. In occasione di questa ricorrenza, i giapponesi hanno
sempre creduto che le loro piccole passassero la sfortuna alle bambole
allontanandole da loro stesse. Non sono giocattoli e vengono custodite in
apposite scatole di legno. Si chiama Hina Matsuri ed è la festa delle bambole.
E delle bambine. È una ricorrenza stagionale nella quale si prega per la loro
salute e per la buona fortuna.


Le bambine, in questa giornata, indossano il kimono, ricevono regali e vengono
accompagnate dalle famiglie a pregare. Succede da secoli. Forse perché, in
Giappone, se si nasce femmina le responsabilità e i doveri si moltiplicano.
LA
RESPONSABILITÀ DELLE MADRI
L’antico
detto nipponico «buona moglie, madre saggia» si è insinuato di casa in casa
fino alla metà del Novecento. E ha ampiamente influenzato i concetti legati ai ruoli
di genere. Alle donne spettava occuparsi della casa e dei figli piuttosto che
inserirsi nelle dinamiche sociali e del lavoro. Ancora oggi, anche se molto è
cambiato, nella maggior parte dei nuclei familiari, la responsabilità dei
bilanci, dello stile di vita della famiglia, dell’educazione, della formazione
dei figli e della loro carriera è ancora completamente delle madri. Come
qualsiasi fallimento.
UNA TUTELA
ALLA VOLTA
Le
cittadine giapponesi ottennero il diritto di voto nel 1946 e fu dopo la Seconda
Guerra Mondiale che venne garantita loro la piena libertà di scegliere il
coniuge e la propria occupazione. Così come quella di ereditare e possedere
beni a proprio nome. Quattro anni dopo, nel 1950, la maggior parte delle
dipendenti erano giovani donne non sposate. Nel 1960 più della metà delle lavoratrici
(il 62%) erano nubili. A conferma del fatto che una donna sposata avrebbe
dovuto privilegiare il suo ruolo di madre, piuttosto che emanciparsi nel mondo
del lavoro.
 
L’ERA
DELL’EMANCIPAZIONE
 
Nel 1986
venne promulgata una legge per le pari opportunità in materia d’occupazione. E
sembrò funzionare. Perché l’anno dopo, nel 1987, 24,3 milioni di donne
entrarono nel mercato del lavoro (il 40% dell’intera forza lavoro) e,
finalmente, i due terzi della partecipazione femminile in questo ambito era
costituita da donne sposate. Tra i nuovi impiegati, nel 1989, il 37% delle
donne aveva conseguito un’istruzione oltre la scuola secondaria superiore (contro
però il 43% dei colleghi uomini). Ma la maggior parte delle lavoratrici aveva
conseguito la propria istruzione post-secondaria in junior college o in scuole
tecniche. Niente università o scuole di formazione specializzate. Circa
trent’anni fa, nel 1990, la metà di tutte le donne oltre i 15 anni era
retribuita grazie a un proprio impiego autonomo, che coincise con
l’allontanamento dalle dinamiche soltanto domestiche e familiari.
PICCO
POSITIVO
Nel 2010,
l’80% delle donne giapponesi oltre i 25 anni ha raggiunto almeno l’istruzione
secondaria e nel 2011 il 49,4% della popolazione femminile ha avuto un impiego
retribuito. Ma secondo il Rapporto Globale sull’Uguaglianza di genere del World
Economic Forum, uno degli anni più virtuosi per il panorama femminile nipponico
è stato il 2012, quando il 13,4% dei parlamentari risultavano essere donne,
collocando il Giappone in una buona posizione in classifica su un totale di 148
Paesi.
REGRESSIONE
Eppure,
sfogliando l’ultimo rapporto sul Giappone stilato da Human Rights Watch,
l’immagine di apertura è quella di un quaderno con degli ideogrammi blu. C’è
una traduzione in inglese: «It was common knowledge that I was being bulled. It
was also common knowledge that my teachers would never help me (Era risaputo
che sarei stata bullizzata, così come era risaputo che i miei insegnanti non
avrebbero fatto nulla per aiutarmi, ndr)». Le mani che reggono il taccuino sono
quelle di una ragazza. Gli ultimi dati disponibili sullo stato di salute dei diritti
delle donne, in Giappone, dell’osservatorio dei diritti umani riguardano il
2015. In quell’anno, a dicembre, la Corte Suprema giapponese ha definito
costituzionale l’articolo 750 del codice civile, che impone a un marito e a una
moglie di adottare lo stesso cognome: il 96% delle cittadine cambia il proprio
cognome al momento del matrimonio, evidenziando una certa disparità tra maschi
e femmmine. Il Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della
discriminazione contro le donne (il CEDAW, Committee on the Elimination of
Discrimination Against Women) ha ripetutamente raccomandato la modifica
dell’articolo. Ma, per ora, tutto è rimasto immobile.
 
FANTASMI
DEL PASSATO
 
Nello
stesso periodo, a dicembre 2015, Giappone e Corea del Sud hanno annunciato un
accordo per risolvere «finalmente e in modo irreversibile» la questione legata
alle «comfort women», termine con cui, in Asia, si indicavano donne e ragazze
costrette a far parte di veri e propri corpi di prostitute (quasi mai su base
volontaria) creati dall’Impero giapponese. Tokyo ha accettato di riconoscere le
proprie responsabilità. Ma chi difende i diritti delle donne ha criticato
l’accordo perché sarebbero mancate le adeguate consultazioni con le vittime.
OBIETTIVO
PARITÀ
Nelle
settimane successive, il Governo giapponese ha adottato un nuovo piano
quinquennale chiamato «Fourth Basic Plan for Gender Equality», riducendo
l’obiettivo fissato nel 2003 per garantire che almeno il 30% delle posizioni di
leadership siano detenute da donne in tutte le aree entro il 2020.
DISCRIMINAZIONI
SUL LAVORO
A marzo
2015 una riforma legale ha imposto ai datori di lavoro di adottare misure di
sicurezza per prevenire trattamenti ingiusti nei confronti delle proprie
dipendenti, in particolare in relazione a gravidanza, parto, congedo per
maternità e per le cure familiari. Un gruppo parlamentare bipartisan (istituito
a marzo 2015) ha discusso la legislazione relativa alla discriminazione basata
sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, ma al momento della stesura
non era ancora stato elaborato un progetto concreto di legge. Ad aprile dello
stesso anno è stato rafforzato l’«Act on Promotion of Women’s Participation and
Avancement in the Workplace». Eppure, il Giappone, ha la seconda percentuale
più bassa di donne manager tra i Paesi dell’OCSE.
EMANCIPAZIONE
IN DECLINO
Secondo
il World Economic Forum, nel 2017, il Giappone è sceso al 114° posto nella
graduatoria sulla parità di genere. Il peggior risultato nel gruppo delle sette
principali economie. E anche se le donne nipponiche sono iscritte
all’istruzione superiore e il divario di reddito con gli uomini si sta
restringendo, la nazione si troverebbe oggi al 123° posto (su 144) nella
classifica che riguarda i dati legati al potere politico femminile. A Ginevra,
infatti, è stato fatto notare che, secondo i dati a disposizione dagli
studiosi, la caduta rifletterebbe il declino dell’emancipazione politica delle
donne nel Paese. L’indagine del WEF (che copre 144 Paesi) misura l’uguaglianza
di genere, analizzando i tassi di partecipazione delle donne e i divari in
politica, economia, istruzione e salute. Tokyo è scesa in classifica in termini
di responsabilizzazione politica a causa delle basse proporzioni di legislatori
e ministri donne del Governo. Eppure, ogni terzo giorno del terzo mese
dell’anno, si prega perché la sfortuna si allontani dalle bambine.