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Da Bardonecchia a Briançon, in viaggio con i migranti sulle Alpi

Annalisa
Camilli
, Internazionale,  9 gennaio
2018

Un
fischio, poi il rumore dei freni: da uno degli ultimi treni in arrivo da Oulx
scende Mohammed Traoré, 17 anni, guineano. Si guarda intorno, non c’è molta
gente sulla banchina, i lampioni spargono un velo di luce nell’aria densa di
umidità, il freddo entra nella giacca grigia che il ragazzo ha dimenticato di
abbottonare. 
Un gruppo
di migranti fa una pausa prima di attraversare il valico
del colle della Scala
per arrivare al confine con la Francia, il 22 dicembre 2017.
(Simone Padovani,
Awakening/Getty Images)
Il grande
cartello blu con la scritta bianca indica il nome della stazione: Bardonecchia.
La cittadina piemontese a 1.312 metri d’altitudine gli è stata indicata da
alcuni amici in una chat su Whatsapp. Da qui parte la rotta alpina, un sentiero
che arriva in Francia dopo sei ore di cammino attraverso il valico del colle
della Scala. Traoré annuisce: è arrivato.
Con le
prime luci del giorno proverà ad attraversare le Alpi, nonostante la neve. È il
suo secondo tentativo di superare il confine: il giorno precedente ha già
provato in treno, ma alla stazione di Modane è stato fermato dalla gendarmeria
francese, tenuto qualche ora in un commissariato e poi accompagnato sul treno
per l’Italia insieme ad altri cinque ragazzi.
Pericolo
Alle nove di sera ci sono undici gradi sottozero. Traoré non ha mai visto la
neve in vita sua ed è proprio come se l’era immaginata: una distesa bianca
sulla strada che scricchiola sotto i piedi. Il ragazzo, arrivato in Italia
dalla Libia a luglio del 2017, ha le gambe sottili e muscolose, e saltella
sulle scale del sottopassaggio della piccola stazione ferroviaria per cacciare
i brividi. “Pericolo”, c’è scritto in inglese, francese, arabo e tigrino su un
cartello nella bacheca della stazione, in cui si spiega che attraversare le
Alpi nel pieno dell’inverno può costare la vita.
A
quest’ora la sala d’attesa è chiusa, a causa di un’ordinanza del sindaco e
delle ferrovie dello stato del 1 febbraio 2017. I migranti arrivati qui per
tentare di attraversare le Alpi aspettano che i volontari dell’associazione
Rainbow for Africa aprano il piccolo locale accanto alla stazione: due stanze e
un bagno nell’ex dogana, rimessi a posto dal Soccorso alpino.

Il
rifugio notturno non si può aprire prima delle 23, sempre per volere
dell’amministrazione locale. Il sindaco teme che offrire servizi strutturati ai
migranti possa rappresentare un fattore di attrazione, un pull factor. La
stessa accusa era stata
rivolta alle organizzazioni non governative
(ong) che fanno
operazioni di soccorso nel Mediterraneo centrale durante l’estate scorsa. E nel
2017 è stata usata in molte città italiane – da Roma a Ventimiglia – per
criminalizzare chi offre pasti caldi, coperte e assistenza ai migranti in
transito che dormono per strada.
Nonostante
tutto a Bardonecchia ogni sera, quando chiude la sala d’attesa della stazione,
una decina di richiedenti asilo si rifugia nel sottopassaggio, aspettando di
entrare nel ricovero notturno. Ad assisterli arrivano a turno dalla val di Susa
e da Torino i volontari che si sono riuniti nella rete Briser les frontières,
“sbriciolare le frontiere”. Portano bevande calde, pasti, vestiti, scarponi,
giacche a vento, guanti. “Il nostro compito principale è informare le persone
dei rischi a cui vanno incontro”, spiega Daniele Brait, attivista di Bussoleno.
“Se uno guarda una cartina sembra che la distanza tra l’Italia e la Francia sia
molto piccola, mentre in realtà in questa stagione andare in montagna senza
equipaggiamento potrebbe significare non arrivare mai”.
Molti
volontari sono anche attivisti No Tav e spiegano che la battaglia contro l’alta
velocità ha molto in comune con quella per la libertà di movimento delle
persone. “I No Tav vogliono evitare che le montagne siano devastate per far
passare un treno merci, in un sistema che permette alle merci di passare
liberamente e lo impedisce alle persone”, afferma Brait.
Dal
Mediterraneo alle Alpi

I volontari distribuiscono un piatto di lenticchie, del tè e alcuni indumenti.
Mohammed Traoré prende una sciarpa e due cappelli. “Aquarius”, esclama quando
mi vede. È come se fosse una parola magica. È il nome della nave di Sos
Méditerranée e Msf che lo ha soccorso
al largo della Libia e su cui
ci siamo incontrati. Mi abbraccia. Ricorda il buio della notte quando era sul
gommone, la paura di morire e la stanchezza che spossa dopo ore di navigazione
sotto al sole. Mentre guardiamo le foto sul cellulare, ricorda i corpi stesi
senza forze sul ponte della nave francese. Ricorda la gioia di aver visto le
luci di “Pojallò”, del porto di Pozzallo, dal ponte dell’Aquarius per una notte
intera prima dell’attracco, di aver pensato di essere finalmente arrivato in
Europa.
“Io
credevo che l’Italia fosse l’Europa, non pensavo che ci sarebbero stati tanti
problemi né che ogni paese europeo fosse così diverso”. Dopo lo sbarco, Traoré
è stato trasferito in un centro d’accoglienza a Cesena. Ma la risposta alla
richiesta d’asilo non è arrivata. “Non ha funzionato, è stato il destino”, dice
con una certa dolcezza. Per questo è scappato ed è finito a dormire per strada,
quindi ha deciso di attraversare la frontiera.

Alcuni
migranti scalano il colle della Scala per andare in Francia, il 22 dicembre
2017. (Simone Padovani, Awakening/Getty Images)

Alcuni
amici, già arrivati a Tolosa, gli hanno suggerito il percorso. “Non ha senso
per me rimanere in Italia anche se non è facile prendere la strada della
montagna in pieno inverno”, dice in un francese lento e scandito. “Attraversare
il deserto e il mar Mediterraneo è stato difficile, ma attraversare le montagne
con tutta questa neve lo sarà ancora di più. Rischieremo di nuovo la vita, ma
non abbiamo scelta”. Traoré non ha aspettative: “Potrò parlare il francese, che
è la mia lingua. Tutto qui. Nessuna illusione”.

A partire
dalla fine di novembre, nonostante la neve e il freddo, il Soccorso alpino di
Bardonecchia ha registrato il passaggio di migliaia di migranti dal valico del
colle della Scala. “Abbiamo ricevuto molte chiamate, soprattutto di notte, e
abbiamo trovato persone smarrite nei sentieri, alcune senza scarpe, tutte
intirizzite e mal equipaggiate”, spiega Alberto Rabino, vicecapostazione del
Soccorso alpino di Bardonecchia. Il 20 dicembre il Soccorso alpino è
intervenuto in aiuto di sei migranti che erano rimasti bloccati nella neve:
“Gli portiamo coperte termiche, indumenti caldi, ma una volta che si sono
ripresi chiedono di continuare il percorso pur sapendo che dall’altra parte li
aspetta la gendarmeria francese”.
I
respinti

La notte Mohammed Traoré la passa steso a terra avvolto in un sacco a pelo
rosso nel rifugio notturno del Soccorso alpino di Bardonecchia insieme ad altri
– Adam, Aboubakr, Souleiman – con cui ha deciso di partire. Sono quasi tutti
originari dell’Africa francofona, soprattutto della Guinea e della Costa
d’Avorio. Carlino Dall’Orto, un medico di Vicenza di 69 anni, volontario di
Rainbow for Africa, tenta inutilmente di convincerli che mettersi in cammino
potrebbe essere pericoloso. “Arrivano a Bardonecchia con abiti non idonei al
freddo e alla montagna, ma sono molto determinati”. Dall’Orto ha viaggiato per
molti anni in diversi paesi dell’Africa e si rivolge ai ragazzi della stazione
con un atteggiamento paterno cercando di convincerli a non partire.
Il
pomeriggio spesso arriva un pulmino bianco della gendarmeria francese, racconta
Dall’Orto, si ferma davanti alla stazione e scarica i migranti irregolari
fermati alla frontiera. A essere rimandati indietro dalla Francia non sono solo
quelli che attraversano il valico alpino senza documenti, ma anche alcuni
immigrati che risiedono in Italia e in Francia da molti anni e che non hanno
tutti i documenti in regola dal punto di vista amministrativo. “C’è stato un
ragazzo albanese giorni fa che aveva un problema con un visto e lo hanno
riportato indietro”, dice Dall’Orto. Li costringono a scendere dal pullman o
dal treno e li riportano a Bardonecchia o a Oulx alle ore più disparate del
giorno e della notte.
“Negli
ultimi quindici giorni di dicembre dalla stazione di Bardonecchia sono passati
circa cento migranti”, spiga Emanuel Garavello, operatore della diaconia
valdese, che insieme ad altri colleghi ha aperto nelle ultime settimane una
specie di sportello legale mobile. Il dato preoccupante, spiega Garavello, “è
che molti fuggono dall’accoglienza molto prima di aver ricevuto una risposta
alla domanda d’asilo. Decidono di lasciare i centri senza sapere che perderanno
il diritto di starci e senza conoscere le opportunità di cui potrebbero
beneficiare”. Da Bardonecchia, inoltre, passano tantissimi minorenni che non
conoscono affatto i loro diritti e la loro situazione giuridica in Italia.
La
diaconia valdese, insieme all’Associazione studi giuridici sull’immigrazione
(Asgi), ha deciso di monitorare la situazione dei minori che transitano dalle
Alpi e denunciare le violazioni quotidiane compiute dalla polizia francese, che
li respinge alla frontiera nonostante abbia l’obbligo, soprattutto nel caso dei
minori, di garantire loro protezione. “La polizia francese non fa alcuna
distinzione tra adulti o minori, violando le norme internazionali”, spiega
Elena Rozzi, avvocata dell’Asgi. “C’è stato un caso eclatante qualche mese fa:
un ragazzino di 13 anni è stato abbandonato dalla polizia in piena notte, sotto
la neve, subito dopo la frontiera. Per fortuna è stato trovato da una persona
che passava in macchina”, racconta Rozzi.
La
traversata

Mohammed Traoré apre gli occhi alle sette, nella stanza c’è un calore denso di
corpi, un odore forte di aria consumata. Salta fuori dal sacco a pelo e
comincia a vestirsi con cura: tre paia di pantaloni uno sopra all’altro, buste
di plastica intorno ai piedi per evitare che la neve arrivi sulla pelle. Non ha
scarponi, solo scarpe da ginnastica di pelle grigia. I volontari gli hanno
regalato una giacca a vento. Con Adam, un ragazzo originario della Costa
d’Avorio che vive in Italia da molti anni, riempie uno zainetto di biscotti e
di bottigliette d’acqua.
Poi fa
colazione con gli altri, alcuni non se la sentono di partire subito, alla fine
il gruppo accoglie un paio di ragazzi che sono appena arrivati alla stazione:
prendono viale della Vittoria e poi la strada provinciale 216 che sale per
quattro chilometri verso il pian del Colle, la località da cui parte il
sentiero per la Francia. In fila indiana marciano sul bordo della strada tra
gruppi di turisti con gli sci in mano che vanno verso gli impianti di risalita.
Con andatura spedita passano davanti al villaggio olimpico costruito per i
giochi invernali del 2006, poi attraversano le baite graziose della frazione di
Les Arnauds. Ci vuole circa un’ora per raggiungere Melezet e poi il pian del
Colle, dove parte una pista da sci di fondo che conduce al bivio per il Col de
l’échelle, il colle della Scala, a 1.762 metri.
Migranti
ricevono la colazione dai volontari della Croce rossa a Bardonecchia, 22
dicembre 2017. (Simone Padovani, Awakening/Getty Images)

Soffia un
vento gelido, molto umido, ma è una bella giornata senza nuvole. I ragazzi si
riposano dopo la prima ora di cammino alla base del sentiero, mangiano qualche
biscotto, poi riprendono la camminata, piegati sulla salita, un passo avanti
all’altro. Di fatto hanno già attraversato la frontiera, sono in territorio
francese, ma in questo versante della montagna la polizia francese non si
spinge. Si lasciano sulla destra una costruzione imponente e una diga, dopo
qualche centinaia di metri c’è il primo bivio, la tentazione è di proseguire
sulla pista da sci battuta, ma il sentiero da percorrere è quello fuori pista
che svolta a sinistra.

C’è
un’indicazione per Briançon e Névache, qualcuno con il pennarello ci ha scritto
sopra “Fight the borders, No Tav”. Comincia la parte più difficile della
traversata: la neve è alta, in alcuni punti arriva a un metro. I piedi
affondano e a un certo punto ci si ritrova immersi fino alle ginocchia. Sono
tre ore lunghissime, i ragazzi sono concentrati, rimangono in silenzio mentre
marciano sui tornanti. Aboubakr vuole scattare una foto ma gli altri gli dicono
di muoversi. D’estate si sale in auto sulla strada asfaltata, mentre d’inverno
la neve avvolge il paesaggio e nasconde tutto sotto due metri di neve. Il
rischio è che dopo una nevicata si stacchino delle valanghe dalla cima, hanno
detto quelli del Soccorso alpino.
Quando
mancano pochi metri al valico, Mohammed Traoré affonda nella neve. È preso dal
panico, s’immobilizza, pensa che non ce la farà, che perderà l’uso dei piedi.
Non li sente più per il freddo. I compagni si fermano, lo aiutano a rialzarsi,
manca poco, gli dicono. Lo vedono sui navigatori dei cellulari che la
destinazione è a pochi metri, c’è ancora da attraversare un paio di tunnel
scavati nella roccia e poi comincerà la discesa nella valle della Clarée.
Traoré si rialza, prova a concentrarsi su domani, sul futuro. “Pensavo che non
ce l’avrei fatta”, dirà il giorno dopo, una volta arrivato. In effetti, come
avevano detto i compagni, dopo i due tunnel è cominciata la discesa.
Appena il
tempo di riprendere fiato che arriva il timore d’incontrare la polizia. Adam è
il più grande e anche il più lucido, ricorda agli altri ragazzi che si
fermeranno al primo rifugio e aspetteranno che scenda il buio. Sono passate le
14, ma anche 14 chilometri e più di 500 metri di dislivello in mezzo alla neve.
I passi s’incrociano per la stanchezza, ma i muscoli continuano ad andare.
Mohammed Traoré ha una strana sensazione di calore. Nella prima casetta sulla
strada ci sono dei ragazzi della valle, dei solidali, bénévoles si definiscono.
Li invitano a entrare e a mangiare qualcosa. Sono abituati a incontri come
questo. Scaldano il sugo su una macchina del gas. C’è un odore di pomodoro e
umidità nel rifugio. I ragazzi aspetteranno che scenda il buio, più di due ore
dopo, per riprendere la strada verso Névache.
Briançon
come Lampedusa

Nevica quando Traoré e i suoi cinque compagni di viaggio arrivano a Briançon a
bordo di una monovolume guidata da una coppia di turisti francesi. Sono stati
intercettati sulla strada dai due, che hanno deciso di dargli un passaggio
nonostante il rischio di essere incriminati per favoreggiamento
dell’immigrazione clandestina. Briançon dista venti chilometri da Névache,
trenta minuti in macchina, e sono numerosi i valligiani che, oltre ad aprire le
case ai migranti in transito, hanno cominciato a offrire passaggi fino alla
città dove, da luglio del 2017, è stato aperto un centro di accoglienza nella vecchia
caserma abbandonata del soccorso alpino.
C’è un
metro e mezzo di neve sul viale che porta all’ingresso, una decorazione di
Natale è ancora appesa sulla porta di legno, sulla parete esterna un murale
mostra una mano colorata che stringe in un pugno del filo spinato. È Adam il
primo a entrare, poi gli altri. Una grande cucina si apre alla loro vista,
intorno a un tavolo, alcuni ragazzi stanno mangiando un’insalata di avocado e
pomodori, accompagnata da zuppa di fagioli e riso. Le pareti sono piene di bigliettini
scritti dagli ospiti. “L’Italia e la Francia sono due cuori con uno stesso
polmone: l’Italia mi salvato dal mare, la Francia mi dà la speranza di vivere”,
ha scritto Mamadouba, un ragazzo della Guinea. Su un altro foglio sono
riportati alcuni articoli della costituzione francese.
I
volontari si spostano da una stanza all’altra portando da mangiare. Nel centro
di accoglienza autorganizzato ci sarebbe posto per 16 persone, ma in certi
giorni nell’ex caserma hanno dormito anche settanta persone. Ora ce ne sono una
quarantina. Alcuni si fermano poche ore, il tempo di mangiare, scaldarsi, altri
qualche giorno. “Dipende dai soldi che hanno, alcuni partono subito. Altri
vorrebbero restare più tempo, ma non possiamo ospitarli per più di un paio di
giorni”, spiega Joel Pruvot, un maestro in pensione che fa il volontario nel
centro, “perché a Briançon non c’è la prefettura e quindi non si può chiedere
asilo”. Il posto più vicino per presentare la domanda è Gap, a novanta
chilometri.
Dall’inizio
del 2017 sono passati dal centro di transito circa duemila migranti, nel
cinquanta per cento dei casi minorenni. La maggior parte è originaria della
Guinea e della Costa d’Avorio. Sono quasi tutti maschi, anche se ora nel centro
ci sono due donne. Una è arrivata in autobus dal valico del Monginevro con i
due figli e dorme su un materasso nella sala da pranzo del centro, per evitare
la promiscuità con i maschi.
“Nel
migliore dei casi i migranti arrivano disidratati e stanchi, spesso presentano
sintomi di assideramento”, racconta Pruvot. Briançon sembra l’unico posto in
Europa in cui è ancora valido il motto: “Refugees welcome”, l’atmosfera è molto
simile a quella di Lampedusa o di Lesbo all’inizio dell’ultima ondata
migratoria. L’80 per cento degli abitanti della città è coinvolto
nell’assistenza dei migranti, 51 volontari lavorano nel centro, i medici
dell’ospedale passano ogni giorno per visitare i ragazzi, i negozi e i
ristoranti donano frutta, verdura e altre cose da mangiare, alcune famiglie
stanno ospitando i migranti in casa e le guide alpine pattugliano la montagna
per assicurarsi che i migranti non si perdano.
La regola
della montagna dice che tutte le persone in pericolo devono essere messe in
salvo
 

Il
sindaco di Briançon, Gérard Fromm, ha appoggiato fin dall’inizio le attività
dei volontari e ha concesso l’uso gratuito dell’ex caserma quando a metà
dell’estate i volontari accoglievano i migranti in una tendopoli allestita in
un parcheggio. “Questa è una cittadina di montagna e la regola della montagna dice
che tutte le persone in pericolo devono essere messe in salvo. Ecco perché
tutti gli abitanti di Briançon sono coinvolti in questa impresa”, spiega
Pruvot.
In fondo,
ammette, “stiamo facendo un lavoro che dovrebbe fare lo stato: impedire che ci
siano degli incidenti in montagna, che ci siano dei morti”. Mentre parliamo,
viene raggiunto da una telefonata. Dalla stazione di Bardonecchia avvertono che
un minorenne del Sudan è partito da solo nel pomeriggio, vogliono assicurarsi
che sia arrivato. Pruvot si alza e va a chiedere ad Ali, uno dei volontari, se
nella lista dei nuovi arrivati risulti il nome del sudanese. C’è trambusto, Ali
dice che dovrebbe essere arrivato in un altro centro insieme a due ragazzi, ma
è meglio chiamare per essere sicuri. In cucina migranti e volontari giocano con
Roland, uno dei due bambini del centro: è del Ghana e parla solo inglese come
la madre Veronik. Ma gioca con tutti.
Intanto
Mohmmed Traoré si è seduto sulla panca in cucina e mangia un mandarino. “Sono
un sopravvissuto”, dice. “Sono sopravvissuto al deserto e ho visto morire molte
persone, sono sopravvissuto alle prigioni libiche e anche lì ho visto molte
persone che non ce l’hanno fatta. Sono riuscito a sopravvivere alla traversata
del Mediterraneo e ora anche alla neve delle Alpi. Ma ho come l’impressione che
il viaggio non sia ancora finito”. È partito a quindici anni da Kankan, in
Guinea, ha attraversato sette paesi e due continenti, si è lasciato alle spalle
confini, pericoli e sofferenze. Ma ancora non sa che cosa lo aspetta e quale
città finirà per chiamare casa.