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Arabia Saudita, il ruolo emergente delle donne

Barbara
Ciolli
, Lettera 43, 15 marzo 2018

Studiano.
Lavorano. Si distinguono nelle arti e nella cultura. Anche nella monarchia più
conservatrice del Medio Oriente l’altra metà del cielo si sta lentamente
emancipando. 

Da un
semestre Njoud frequenta gli studi di Architettura e restauro al Politecnico di
Milano, dopo aver ammirato da turista i paesaggi e i siti della «Calabria,
della Sicilia, della Campania». Riflettendo, l’Italia le si è presentata sempre
di più come «un’estensione della penisola araba e della regione mediorientale,
un luogo mediterraneo simile all’Arabia Saudita anche per i resti e la storia
dell’antichità». Dove, racconta, «poter trovare riflessi di me, in posti
diversi dai miei». Rawan invece è arrivata alla fine del 2017 con una laurea in
Medicina e una specializzazione in Oculistica per perfezionarsi in Oftalmologia
sempre nel capoluogo lombardo. Per lei nel nostro Paese la «lingua è musica», e
vuole portare «un po’ di eccellenza italiana a Riad». Ma anche spera «un po’ di
quella dell’Arabia Saudita in Italia».


RITORNARE
IN ARABIA.
Razan al confronto è una veterana: dopo la laurea in Architettura e
design a Roma, si sta specializzando in Italia. Vive nel nostro Paese da sette
anni come borsista della Mecca. «L’amore per il classicismo» l’ha portata a non
iscriversi nelle università inglesi o americane di forte richiamo per gli
studenti stranieri, compresi una buona parte di sauditi. Come per Njoud e
Rawan, il suo piano per il futuro è rientrare nella terra d’origine per
contribuire al suo sviluppo, magari come accademica. «Ma senza diffondere
monoculture», spiega anche Razan a L43. In un’Arabia Saudita che già da un po’
di anni non è più il monolite raffigurato dal suo stereotipo.
La donna
saudita tra presente e futuro (Tempo di Libri, Milano).
Njoud
Alanbari e Rawan Shabhaz, 28 anni, e Razan Erqsous, 31 anni, sono tre ragazze
che, sostenute dalle famiglie, hanno anteposto la loro alta formazione alla costruzione
di una nuova famiglia. Fanno parte del 51% di donne tra gli iscritti
all’università, circa il 35% della popolazione saudita che, per oltre il 60%,
ha meno di 40 anni e tende a essere sempre più giovane, portando al cambiamento
una delle società più conservatrici al mondo. Le storie e i progetti di vita di
queste 20enni e 30enni sono stati raccontati in prima persona l’8 marzo al
dibattito “Donna saudita tra presente e futuro” proposto a Tempo di Libri
2018, a Milano, dall’Ufficio culturale dell’ambasciata saudita in Italia, in un
momento di profonda trasformazione dall’alto del Paese.




UNA
RIVOLUZIONE A PICCOLI PASSI.
Dal 2017 alle donne saudite è stato dato il
permesso di guida (effettivo da giugno prossimo) e un altro decreto reale ha
ridotto il controllo del tutore uomo su di loro. Senza la firma del guardiano
(il marito, fratello o anche figlio maschio) le donne possono, dal 2018,
fondare da sole imprese vitali per il piano di rilancio del regno Vision 2030.
E per la prima volta nella storia viene loro aperto l’accesso all’esercito e a
nuovi settori del pubblico impiego. Sono state ammesse negli stadi e ai primi
concerti autorizzati nel Paese, in alcuni casi anche in settori comuni agli
uomini, per quanto limitati alle famiglie. Mentre sono in
costruzione teatri, cinema e luoghi per l’intrattenimento
, prima
proibiti.
Re Salman
ha riportato la figura del tutore al significato originario. Di aiuto, non di
controllo delle donne
Adbulaziz
Alghareeb
«Nel
Corano il tutore ha una funzione di aiuto, di protezione per le donne», spiega
a L43 l’addetto culturale saudita in Italia Adbulaziz Alghareeb, «ma questa
figura era stata utilizzata in forme fuorvianti, per controllarle, anche in
Arabia Saudita. L’interpretazione di re Salman riporta la funzione al
significato originario, liberando le donne dal vincolo del tutore per esempio
sulla guida e alleggerendo lo Stato da spese aggiuntive. Circa 1 milione di
autisti vengono pagati per accompagnare le lavoratrici pubbliche». Lo stesso
vale per i guardiani da rimborsare per i soggiorni all’estero delle
studentesse.




DA
INSEGNANTI A BUSINESSWOMEN.
Il primo impiego per le saudite è stato, a partire
dagli Anni 80 e 90, l’insegnamento in scuole e università statali e private
femminili dopo l’apertura, nel decennio precedente, delle prime scuole e poi
atenei per donne. A oggi le insegnanti donne sono la maggioranza del corpo
docente e gradualmente le donne hanno iniziato a entrare, in misura minore,
anche nel settore medico ed economico. Alcune, soprattutto di alto ceto
sociale, lavorano come avvocati, nella finanza, sono giornaliste (il
vicedirettore del quotidiano Albilad è una donna), sono inserite in fondazioni
e associazioni benefiche, nelle Camere di Commercio o sono businesswomen. La
legge islamica che le vincola nel vestiario e nelle libertà civili assegna
invece alle donne esclusiva titolarità dei beni del loro lavoro.

Una
sfilata di aba
Ma la
svolta è arrivata dal 2017, con l’apertura significativa alle saudite di
ambienti fino ad allora preclusi come quello militare, pressoché agli antipodi
con l’istituto del tutore. Il diplomatico Alghareeb conferma che «aumenteranno
le impiegate e le funzionarie, soprattutto nel settore della sicurezza e della
giustizia, poiché questi impieghi si trovano in tutte le città e anche nei
piccoli centri. Posti di lavoro per donne», precisa, «che in Arabia Saudita
hanno parità di stipendio rispetto agli uomini». Il motore culturale
all’origine del pragmatico cambio di regime impresso da re Salman e del figlio
Mohammad bin Salman – primo erede al trono 30enne della storia saudita – è
stato il vasto programma di istruzione concesso alle donne dal precedente re
Abdallah.




IL PROGRAMMA
PER L’ISTRUZIONE.
Nel 2008 a Raid è stata inaugurata la più grande università
femminile al mondo con 60 mila posti e 34 facoltà. Re Abdallah ha anche
elargito migliaia di borse di studio (confermate da re Salman) comprendenti
vitto, alloggio e anche soggiorni all’estero. E più della metà dei 126 mila
borsisti sono studentesse come Njoud, Rawan e Razan: la maggioranza delle
richieste arriva dalle donne, che con il 52% hanno sorpassato gli uomini anche
nella popolazione saudita. Njoud ricorda di essere in Italia «grazie ai
risparmi dei genitori». E certo, resta lo choc iniziale di vivere in un Paese
dove uomini e donne condividono gli stessi mezzi pubblici e studiano insieme
nelle aule.
Le
conquiste sono recenti per tutte le donne. I loro problemi ancora comuni in
tutto il mondo
Njoud
Alanbari
In Arabia
Saudita scuole, università e luoghi di lavoro e luoghi pubblici sono
rigidamente separati per i due sessi. Le donne sono obbligate a coprirsi in
pubblico con l’abaya, l’abito che oltre ai capelli copre tutto il corpo. Ma
anche in questo caso la realtà sta gradualmente cambiando: negli ospedali ci
sono spazi comuni, la convivenza è un fatto in diverse attività private e nel
mondo degli affari e nel 2017 è stata nominata la prima preside donna,
soprintendente anche della sezione maschile. Njoud è consapevole, forse ormai
più di tante giovani occidentali, di quanto le «conquiste siano recenti per
tutte le donne e i loro problemi ancora comuni in tutto il mondo».




L’ITALIA
DEL 1950.
Una situazione in fondo non molto diversa dall’Italia del secondo
Dopoguerra. Il primo voto alle donne (le saudite hanno votato e sono state
eleggibili per la prima volta alle Comunali nel 2015) è arrivato nel 1946,
quando ancora si poteva essere arrestati dalla buoncostume. Più che sole al
volante, all’epoca le italiane uscivano scortate dai fratello maggiori. E i
matrimoni combinati erano ancora diffusi. Senza le contestazioni del 1968 non
ci sarebbero stati il divorzio e l’aborto, la sanità e l’istruzione pubbliche
non sarebbero diventate accessibili a tutti. Per Rawan e Razan lo sviluppo del
concetto di parità, in Arabia Saudita, tra uomo e donna non può avvenire se non
progressivamente, tenendo conto «dell’identità della donna nell’Islam» e delle
«tradizioni, anche differenti, delle varie parti del Paese».
   

La
scrittrice Raja Alem (GETTY).
In Arabia
Saudita, Razan indossa l’abaya «senza problemi». La sua vita non è definita dal
doversi coprire in pubblico: oltre al percorso accademico in Italia, insegna
arabo classico ai bambini e doppia, per un progetto, dei cartoni animati di
origine russa in arabo e italiano. Racconta di «amare molto andare a teatro»,
vissuto finora in patria in «forme sperimentali, in spazi informali come nelle
università». Ed è stupefacente, per i non addetti ai lavori, la fioritura negli
ultimi decenni di scrittrici donne nel Paese, illustrata a Tempo di Libri e
anche nella Giornata di studi sulla Letteratura contemporanea e femminile
saudita, il 13 marzo 2018, all’Università La Sapienza di Roma. Le saudite nascoste
dal velo sono sempre più presenti e premiate nelle arti, scavalcando
intellettuali di nazioni arabe più antiche, anche per storia culturale, come
l’Egitto.

La 43enne
Haifa al Mansour nel 2014 è stata candidata all’Oscar nonostante in Arabia
saudita siano vietati i cinema. La 48enne Raja Alem, tradotta in italiano, è
tra i quattro vincitori sauditi, negli ultimi 10 anni, del Booker arabo. «Una
produzione giovane e all’avanguardia, risultato anche dell’alto livello
d’istruzione raggiunto da alcune donne», ha spiegato al dibattito Isabella
Camera d’Afflitto, tra le massime arabiste italiane. Nel 2001, con la raccolta
di racconti Rose D’Arabia (Edizioni e/o), la docente di Letteratura araba
contemporanea alla Sapienza fu la prima a esplorare e portare in Italia il
panorama nascente di scrittrici saudite, «fenomeno che da allora si è
ulteriormente aperto e allargato».


VERSO LA
DISTRUZIONE DEI TABÙ.
Una letteratura d’introspezione, molto soggettiva. Donne
che, dai loro salotti, a volte sotto pseudonimi o con pubblicazioni clandestine
ma sempre più allo scoperto, affrontano «con molta chiarezza e senza freni temi
anche scabrosi come le loro passioni per gli uomini, la critica alla misoginia
e le libertà sessuali in rapporto alla loro condizione femminile», commenta
Camera d’Afflitto. Questa spregiudicatezza, specie grazie a internet e alle
nuove tecnologie, non ha impedito loro di venire lette diffusamente in tutto il
mondo arabo. Inclusa l’Arabia Saudita, dove sono infine state riconosciute come
scrittrici.